LE
RELIGIOSE IN UN MONDO DALLE MOLTE RELIGIONI
Dalla
religione alla fede: Proposte
per un itinerario
P.
Guido
Innocenzo Gargano
camaldolese osb
Il
Concilio Vaticano II dichiara nel famoso documento
<Nostra Aetate>
approvato il 28 ottobre 1965:
“Nel
nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più
strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa
esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le
religioni non-cristiane… Una sola comunità infatti cosituiscono i
vari popoli. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare
l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche
un solo fine ultimo, Dio, la cui provvidenza, testimonianza di bontà e
disegno di salvezza si estendono a tutti” (Nostra
Aetate, 1).
1.
“I vari popoli hanno anche un
fine ultimo, Dio, la cui provvidenza, testimonianza di bontà e disegno
di salvezza, si estendono a tutti”.
Il
riferimento a Dio, riconosciuto dal Concilio come fine ultimo
dell’intera umanità, ci invita a fermare la nostra attenzione sul
senso o significato appunto di questo fine che coincide con il fine
proprio di ciascuno di noi. Siamo infatti persone consacrate perché
“Dio sia glorificato in tutto e in tutte le cose” e che compiono
ogni loro servizio “per la maggior gloria di Dio”.
In
quanto cristiani il nostro modo particolare di raggiungere il fine passa
attraverso la mediazione di Cristo a tal punto che noi ci siamo
impegnati tutti a “non aver nulla di più caro di Cristo” e
tuttavia, trattandosi di evidenziare in questo momento un particolare
rapporto, quello di noi religiosi e religiose con le tante religioni
presenti nel nostro medesimo territorio, il dato comune è senza dubbio
il riferimento all’unico Dio.
2.
Riferirsi all’unico Dio, che noi cristiani abbiamo appreso chiamarsi
Padre, significa riconoscere ed annunziare simultaneamente che tutti
siamo fratelli e sorelle dell’unica famiglia umana e come tali
dobbiamo relazionarci fra di noi nonostante la diversità delle nostre
lingue, delle nostre razze e anche delle nostre religioni.
Quest’unico
Dio, che è anche il Padre di tutti, nasconde però il suo volto
nell’oscura profondità del mistero. È vero che noi cristiani abbiamo
ricevuto da Gesù, figlio unigenito del Padre, la straordinaria risposta
data all’apostolo Filippo: “Chi vede me vede il Padre”, eppure,
nonostante questo, anche noi dobbiamo riconoscere che la conoscenza
piena di tutta la ricchezza dell’identità ultima del Figlio, nei cui
lineamenti si propone il Padre, è connotata a sua volta dal mistero che
non è mai totalmente attingibile da creatura umana. Non parliamo forse,
anche a proposito di Gesù, di mistero del Figlio, Verbo di Dio fatto
carne nel grembo di Maria di Nazaret?
Dopo
aver preso coscienza che il riferimento all’unicità di Dio ci
permette e ci spinge a riconoscerci tutti fratelli e sorelle fra di noi,
occorre aggiungere dunque che questo unico Dio, svelatosi pienamente in
Gesù di Nazaret, pur permettendoci di fare esperienza della sua stessa
natura divina, attraverso l’unigenito
Figlio, rimane tuttavia nascosto nell’oscurità del mistero.
Un
grande Padre della Chiesa, Gregorio di Nissa ha potuto parlare perciò
dell’impossibilità per l’uomo, per ogni uomo, di raggiungere questo
fine, in modo tale da poter dire di non doverlo ancora cercare, cercare
sempre, non solo in questa vita, ma anche in quella futura.
All’uomo
resta dunque soltanto una possibilità: mettersi alla ricerca costante
di Dio tenendosi continuamente aperto al dono della rivelazione di lui o
della verità, scopo dell’uomo e causa della sua felicità.
3.
Ma con quali mezzi e attraverso quali accessibili strade possiamo
metterci alla ricerca di Dio? La risposta unanime della tradizione
cristiana riconosce in Gesù la Via, la Verità e la Vita, perché se
Dio non si fosse fatto uomo, l’uomo non avrebbe mai avuto alcuna
possibilità di trovare la strada per raggiungere Dio. Ma poi essa
aggiunge due cose: primo la consapevolezza che il cammino è
simultaneamente compiuto con l’intelligenza e con
l’esperienza concreta della vita e, secondo, che esso sbocca nel mistero inaccessibile del Padre, perché
si progredisce in modo tale che ogni punto di arrivo è sempre punto di
partenza all’infinito in un itinerario che, dalle cose umili e
faticose, conosciute e sperimentate sulla terra, conduce verso quelle
realtà più alte e sublimi che si conoscono ed esperimentano solo
grazie alla partecipazione piena della natura divina.
Molto
spesso l’immagine utilizzata per indicare questo cammino comporta la
salita della scala mistica.
San
Benedetto per esempio ne parla nel
contesto della sua proposta monastica che definisce “scuola del
servizio del Signore”, quando scrive: “È nostro scopo istituire una
scuola del servizio del Signore in cui speriamo di non stabilire nulla
di duro, nulla di pesante. Se però per giuste ragioni dovesse seguire
cosa alquanto più dura per correggere i vizi e favorire l’amore, non
spaventarti abbandonando subito la via della salvezza; all’inizio essa
sembra difficile, ma progredendo nella vita monastica e nel cammino di
fede, il cuore si dilata e allora con l’inesprimibile dolcezza
dell’amore si corre sulla via dei comandamenti di Dio” (Regola
di San Benedetto, Prologo).
Nello
stesso contesto Gregorio di Nissa precisa nella sua Vita
di Mosè (II,
3-7 passim). (Traduzione di Manlio Simonetti, con qualche piccolo
ritocco compiuto tenendo conto del testo greco) rivolgendosi a un giovane monaco: “Mi hai chiesto, carissimo, di
descriverti qual è la vita perfetta …Ti rispondo dicendo che …tutto
ciò che si misura quantitativamente è contenuto in certi suoi limiti.
Per la virtù invece abbiamo appreso dall’apostolo che il solo limite
della perfezione è non avere limite… Perché? Perché la natura
divina è infinita e illimitata. E siccome tutti coloro che ne sentono
parlare desiderano esserne partecipi, anche il desiderio di chi cerca di
parteciparne, tendendo all’infinito, non può fermarsi mai”.
4.
Mi sembra che queste parole di San Benedetto e di Gregorio di Nissa ci
mettano chiaramente in guardia a non pretendere né di possedere mai la
perfezione nella conoscenza-esperienza di Dio, né di poterla
raggiungere mai in modo pieno e definitivo.
E
non c’è dubbio che un atteggiamento simile è un ottimo inizio per
qualunque tipo di dialogo interreligioso.
Una
simile consapevolezza dovrebbe essere sufficiente da sola infatti a
liberarci da alcuni pregiudizi, spesso di tipo espressamente religioso,
che accompagnano sia le nostre conquiste teologiche, sia certe nostre
comprensioni particolari della vita consacrata intesa come “stato di
perfezione”.
Gregorio
di Nissa ci aiuta insomma a capire che se le nostre conquiste
“teologiche” e quelle cosiddette “spirituali”, legate a ciò che
noi chiamiamo “stato di perfezione” vogliono proseguire ad avere un
senso nel dialogo, esse devono essere caratterizzate soprattutto dalla
dinamicità. Questo significa che le nostre conoscenze “teologiche”
e la nostra perfezione “spirituale” vanno intese in modo tale da
salvaguardare un divenire che non pretende mai una perfezione acquisita
al punto da non aver più bisogno di cambiare per progredire ancora.
Questa
precisazione, ci apre già di per se stessa allo “Spirito che fa
continuamente nuove tutte le cose” (Apc. ) e ci introduce “in tutta
la verità” (Gv 16,13) all’interno delle nostre strutture
istituzionali mai definitive una volta per tutte. Ma essa ha delle
ripercussioni enormi anche nel presentare all’esterno degli istituti
religiosi il nostro particolare modo di testimoniare la fede nella
resurrezione del Signore Redentore e Salvatore del mondo.
5.
Cerchiamo di individuare adesso le domande che, attraverso la Parola di
Dio presente negli eventi e nella interpretazione che di essi hanno gli
uomini di Dio, ci vengono rivolte da un mondo a sua volta dinamico e
abitato dalle novità che il medesimo Spirito dissemina lungo la storia
degli uomini.
Diceva
San Gregorio Magno, papa di Roma dal 590 al 604: “ Dobbiamo tener
presente che la scienza dei padri è cresciuta attraverso lo svolgersi
dei tempi. Infatti, Mosè più di Abramo, i profeti più di Mosè e gli
apostoli più dei profeti furono istruiti nella scienza di Dio
onnipotente…perché quanto più il mondo si avvicina alla fine, tanto
più ampio si apre per noi l’accesso alla scienza eterna”
(Omelie su Ezechiele, Lib.
II, Omelia 4, 12, Città
Nuova Editrice, Roma 1980, pp.100-101. Traduzione di Emilio Gandolfo con
qualche ritocco sul testo latino).
L’insegnamento
di questi grandi Padri della Chiesa ci invita dunque a tenere gli occhi
aperti sulle conoscenze nuove che si aprono davanti a noi col progredire
della storia. Fra queste conoscenze non possiamo più fare a meno oggi
di porre quelle particolari prospettive e angolature nuove di osservare
il mistero di Dio, di Cristo e della Chiesa, che ci vengono proposte
dalle altre religioni entrate in contatto con la cattolicità.
Papa
Giovanni XXIII diceva, inaugurando il Concilio Vaticano II: “Non è il
Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
E
io credo che oggi dovremmo essere forse paradossalmente riconoscenti
verso le religioni non cristiane, perchè ci stanno spingendo, forse
addirittura al di là delle loro stesse intenzioni, a capire meglio il
Vangelo. Credo inoltre che proprio di questo intenda renderci
consapevoli l’attuale Papa Giovanni Paolo II quando scrive nella
recentissima lettera apostolica <Novo
Millennio ineunte>: “Un nuovo secolo, un nuovo millennio si
aprono nella luce di Cristo… Noi abbiamo il compito stupendo di
esserne il <riflesso>… È compito possibile, se esponendoci alla
luce di Cristo, sappiamo aprirci alla grazia che ci rende uomini
nuovi”. E prosegue: “È in quest’ottica che si pone anche la
grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci
vedrà ancora impegnati, nella linea indicata dal Concilio Vaticano II…Il
dialogo deve continuare” – insiste il santo Padre – che
spiega:
“Nella
condizione di più spiccato pluralismo culturale e religioso, quale si
va prospettando nella società del nuovo millennio, tale dialogo è
importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare
lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno rigato di sangue
tanti periodi nella storia dell’umanità”. Poi conclude: “Il nome
dell’unico Dio deve diventare sempre più qual è, un nome di pace e
un imperativo di pace” (nn. 54-55, passim).
Stando
alle parole del Papa il nostro modo nuovo di intendere il Vangelo nel
nuovo millennio in cui si va prospettando “un più spiccato pluralismo
culturale e religioso”, dovrebbe essere dunque quello di favorire
“il dialogo interreligioso” per porre, sono le parole stesse del
Santo Padre, “un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro
funesto delle guerre di religione”.
In
sostanza si può dedurre che il progredire della storia ha permesso
all’umanità e alla chiesa di capire meglio il progetto pensato da Dio
“fino dalla creazione del mondo”, un progetto che, come ha avvertito
il Papa, non può in alcun modo sopportare più che il mondo, in alcuna
sua parte, venga rigato di sangue in nome di Dio. A meno che non si
voglia prospettare un futuro sinistramente segnato da guerre
interminabili, non c’è dunque alcuna scelta alternativa al dialogo in
nessuna parte del mondo e neppure in Italia.
Ne
segue che nessun carisma interno al mistero della Chiesa può da qui in
poi prescindere da questo imperativo del dialogo. Ogni nostra proposta
pastorale e ogni nostro modo di fare missione, catechesi o
evangelizzazione, deve partire dunque dal dialogo, utilizzare il dialogo
e condurre al dialogo.
6.
Ma fare dialogo significa ammettere l’importanza determinante
dell’interlocutore. Non si parla da soli, né da una sola direzione,
perché altrimenti o si fa solo monologo, parlandosi ridicolmente
addosso, oppure si avvelenano i rapporti con la pianta amara del
proselitismo.
L’interlocutore
è sempre un “altro” con tutto il carico di mistero che caratterizza
la sua identità più profonda, né più né meno di quanto lo
caratterizza la nostra. Accogliere l’”altro” col suo specifico
carico di mistero significa mettersi di fronte a lui con lo stesso
rispetto, direi con lo stesso timore e tremore o premurosità, con cui
ci poniamo davanti al Signore.
Per
assumere con purezza e sincerità un simile atteggiamento dobbiamo forse
rinunciare a proporre serenamente la nostra verità all’interlocutore
del nostro dialogo?
Niente
affatto.
Il
Santo Padre ci ha spiegato chiaramente che “Il dialogo non può essere
fondato sull’indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il
dovere di sviluppare il dialogo offrendo la testimonianza piena della
speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15). Non dobbiamo aver paura che possa
costituire offesa all’altrui identità ciò che è invece annuncio
gioioso di un dono che è un bene per tutti” (o.c., n.56).
E
tuttavia questo dono prezioso “va proposto a tutti con il più grande
rispetto della libertà di ciascuno”(ivi).
“Il
dovere missionario, prosegue il Papa, non ci impedisce di andare al
dialogo intimamente disposti all’ascolto. Sappiamo infatti che, di
fronte al mistero di grazia infinitamente ricco di dimensioni e di
implicazioni per la vita e la storia dell'uomo, la Chiesa stessa non
finirà mai di indagare, contando sull'aiuto del Paraclito, lo Spirito
di verità (cfr Gv 14,17), al quale appunto compete di portarla alla
'‘pienezza della verità'’(cfr Gv 16,13)” (ivi).
Sono
fondamentali le espressioni utilizzate dal Santo Padre quando raccomanda
di avere “il più grande rispetto della libertà di ciascuno” e di
“andare al dialogo intimamente disposti all’ascolto” sincero
dell’interlocutore.
Rispetto
della libertà di ciascuno e disponibilità all’ascolto, sono di fatto
due componenti che caratterizzano l’autenticità di ogni dialogo e le
uniche che lo rendono fruttuoso senza che alcuno prevarichi sulle
convinzioni profonde dell’altro e soprattutto mettendo tutti, compreso
l’interlocutore cristiano, nella possibilità di arricchirsi
misteriosamente con l’apporto dell’altro.
Scrive
a questo proposito ancora il Santo Padre: “Non raramente lo Spirito di
Dio, che <soffia dove vuole> (Gv 3,8), suscita nell’esperienza
umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni
della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a
comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non
è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio
Vaticano II si è impegnato a leggere i <segni dei tempi> (GS, 4)?
Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i <veri
segni della presenza o del disegno di Dio> (GS,11), la Chiesa
riconosce che non ha solo dato, ma anche <ricevuto dalla storia e
dallo sviluppo del genere umano> (GS, 44). Questo atteggiamento di
apertura, e insieme di attento discernimento, il Concilio lo ha
inaugurato anche nei confronti delle altre religioni. Tocca a noi
seguirne l’insegnamento e la traccia con grande fedeltà” (o.c.,n.56).
7.
Se la Chiesa non ha solo dato, ma ha anche ricevuto nel passato, nulla
impedisce che essa possa continuare a vivere anche nel presente e nel
futuro questa misteriosa esperienza di scambio di doni con “le
filosofie, le culture, le religioni” (ivi) che condividono con essa
spazi e tempi della vita dell’uomo sulla terra. Dovremo dunque
abituarci anche noi a condividere con i nostri coinquilini i doni che ci
caratterizzano come credenti nel Signore risorto accettando volentieri
di fruire dei doni che gli altri, attingendo alla loro rispettiva
esperienza religiosa, amano e godono di proporre a loro volta a noi.
E
forse sperimentare questa indicibile e gioiosa reciprocità ci
condurrebbe finalmente a recuperare le radici stesse della nostra
<vita consacrata> motivata, nutrita e orientata da sempre alla e
dalla gratuità dell’amore in cui di fatto consiste quella “carità
perfetta” che costituisce da sempre lo scopo condiviso da tutti nella
cosiddetta “vita religiosa”.
Scriveva
Gregorio di Nissa al termine della già citata Vita
di Mosè (II, 320): “Questa è
la perfezione: staccarsi dalla vita di peccato non più per il servile
timore di venir punito, né fare il bene per la speranza delle
ricompense, mercanteggiando la vita virtuosa con intendimento
affaristico e interessato; ma, trascurando anche tutti i beni che
speriamo di conseguire secondo la promessa, ritenere temibile soltanto
il decadere dall’amicizia di Dio e giudicare per noi onorevole e
desiderabile solo il divenire amici di Dio. A mio giudizio questa è la
perfezione della vita”.
8.
Giunti a questo punto possiamo permetterci di individuare sinteticamente
alcune tappe che, dialogando sinceramente con i credenti delle altre
esperienze religiose, ci liberano dalla <religione>, intesa come
un insieme di paure e di calcoli mercantili o meritocratici nei nostri
rapporti con Dio, per aprirci alla <fede> così come essa veniva
intesa da Paolo nella sua grande Lettera
ai Romani. Potremmo così
constatare che proprio il dialogo con le religioni ci permette di
liberarci da quel particolare modo di vivere la nostra fede cristiana
che si riduceva a pura e semplice religione della paura, del guadagno o
del merito. “Mercanteggiando - come scrive Gregorio - la vita virtuosa
con intendimento affaristico e interessato” avevamo forse rischiato di
“decadere - come dice ancora il Nisseno - dall’amicizia di Dio”
che invece il coraggio di esporci al dialogo ci permette, e direi quasi
ci costringe, a ritrovare.
Il
recupero dell’amicizia con Dio rafforza poi abitualmente la nostra
fiducia nell’altro dal momento che anche l’altro, essendosi esposto
a sua volta con lo stesso coraggio al dialogo, non ha potuto fare a meno
di ritrovare nel denominatore comune dell’amicizia un modo nuovo di
rapportarsi al “suo” Dio che, inevitabilmente, ha finito col
coincidere perfettamente col “nostro” Dio riconosciuto come il Padre
comune che toglie di mezzo ogni inimicizia ed estraneità.
Forse
è proprio a questo misterioso scambio che si riferisce Giovanni Paolo
II quando individua nell’ “umile e fiduciosa apertura” e
nell’”attento discernimento”, che hanno caratterizzato il Concilio
Vaticano II nei confronti dell’esperienza umana e delle altre
religioni, l’eredità da ricevere e da seguire “con grande fedeltà”
impegnando proprio in questo duplice atteggiamento quello spirito di
obbedienza che tanta parte prosegue ad avere, e noi religiosi lo
sappiamo forse meglio di altri battezzati, nell’ordinato cammino della
Chiesa.
Il
Papa, particolarmente accorato nel richiamare questa necessaria
obbedienza al Concilio, prosegue: “A mano a mano che passano gli anni,
quei testi conciliari non perdono il loro valore né il loro smalto. È
necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano
conosciuti e assimilati, come testi qualificati e normativi del
Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa. A Giubileo
concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio come la
grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci
è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che
si apre” (o.c., n.57).
Potremmo
proprio noi religiosi disattendere un appello così accorato del Santo
Padre a rivisitare i testi conciliari riappropriandoci di essi e
assimilandoli?
9.
A tutto ciò che è stato detto finora occorre aggiungere un riferimento
preciso a quel particolare percorso personale che avviene nella
coscienza del singolo religioso che, dedicandosi giorno e notte
all’ascolto della parola di Dio, sente nascergli in cuore l’urgenza
di aprirsi integralmente, cioè con tutto se stesso, alle cose
continuamente nuove disseminate
dallo spirito simultaneamente in lui e nella storia degli uomini.
Gregorio
di Nissa, proponendo come modello universale per ogni credente la figura
di Mosè, aveva scritto (in Vita
di Mosè, II, 306) che: “La via alla perfezione è il continuo
progresso della vita al meglio”. E poi aveva aggiunto, sempre con
riferimento a Mosè: “egli, pur essendosi innalzato per tutta la vita…non mancò
di innalzarsi ogni volta al di sopra di sé stesso, così che la sua
vita salì più in alto delle nubi, elevandosi in alto come un’aquila,
nel cielo delle ascensioni dello spirito” (o.c., n.307).
Gregorio
Magno, l’altro santo Padre dell’antichità al quale sono
affezionato, sviluppa ulteriormente l’intuizione di Gregorio di Nissa
legandola più intimamente alla frequentazione della Sacra Scrittura in
un commento famoso a Ez 1,19
in cui il profeta, descrivendo la visione misteriosa di un carro
trainato da quattro animali simbolici, racconta: “Quando
quegli esseri viventi ( i quattro animali simbolici la tradizione
cristiana li accosta ai quattro evangelisti)
si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli
esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano”. Gregorio
spiega:
“Gli
esseri viventi si muovono quando
gli uomini apprendono dalla Sacra Scrittura come deve essere la loro
vita morale e si alzano da terra quando gli uomini restano sospesi nella
contemplazione. Infatti, nella misura in cui ciascuno progredisce
personalmente, anche la Sacra Scrittura progredisce con lui. Del resto
le parole divine crescono insieme con chi le legge (divina
eloquia cum legente crescunt); e si comprendono tanto più
profondamente quanto più profonda è l’attenzione che ad esse viene
rivolta dal lettore…Quando infatti l’animo di chi legge è penetrato
di amore per le cose del cielo, allora la ruota vola…Infatti dove
tende lo spirito, lì si innalzano anche le parole di Dio, perché se in
esse cerchi di vedere e di sentire qualcosa di elevato, queste stesse
sacre parole crescono con te, con te salgono in alto” (Gregorio Magno,
Omelie su Ezechiele, I, 7, paragrafi 8-9; traduzione di Emilio
Gandolfo con qualche piccolo ritocco sul testo latino, Città Nuova,
Roma 1979, pp.132-133).
Gregorio
di Nissa e Gregorio Magno condividono lo stesso insegnamento sulla
dinamicità continua della vita di fede. E l’uno e l’altro sarebbero
concordi nel ritenere che non si possa neppure iniziare un itinerario
personale di fede se non vengono sciolti anzitutto i legami della “religio”,
che ci prostrano per terra schiacciandoci nel chiuso di orizzonti
esclusivamente terreni. Per aprirsi al volo infinito garantito al
credente dalle ali leggere della “fede”, occorre rinunziare ad ogni
minima parvenza di interessi terreni, siano pure questi ultimi
giustificati come interessi utili alla Chiesa o indispensabili al
bene-essere dei nostri rispettivi istituti o congregazioni religiose.
10.
Si comincia però sempre, ed anche in questo sono concordi i nostri
santi padri antichi, con la frequentazione ininterrotta della Parola di
Dio contenuta in modo fontale e paradigmatico nelle Scritture Sante. Le
quali sono talmente gelose del proprio tesoro nascosto da non permettere
l’accesso oltre la scorza dura della soglia del significato
“esteriore”, se non a coloro che si lasciano aprire il cuore dalla
freccia appuntita della compunzione e sciogliere le viscere dell’anima
dall’incandescenza dell’amore.
Una
strada difficile? Sì, ma non certamente impossibile, dal momento che è
la Parola stessa di Dio che, premendo in qualche modo dall’interno di
sé, facilita il compito del sincero cercatore di Dio attraverso
insegnamenti, insinuazioni e messaggi che abitano lo stesso senso letterale
del testo scritturistico.
Gregorio
Magno constata che questo compito particolarissimo di spaccare il cuore
del credente, se lo assume spesso la preghiera salmodica. È
sintomatico, lo dico per inciso, che anche Giovanni Paolo II sia giunto
alla stessa conclusione in questi anni maturi del suo pontificato!
Scrive
Papa Gregorio: “Il canto dei salmi, quando il cuore è ben disposto,
prepara al Signore onnipotente la via del cuore, perché egli infonda
nello spirito ben disposto o i misteri della profezia o la grazia della
compunzione…Nel sacrificio di lode viene poi mostrato lo stesso Gesù
come via, poiché mentre per mezzo della salmodia viene infusa la
compunzione, si apre per noi nel cuore la via per mezzo della quale si
perviene finalmente a Gesù…infatti a lui, quando cantiamo, apriamo la
strada affinché venga nel nostro cuore e vi accenda il fuoco del suo
amore” (Omelie su Ezechiele,
I, 1, paragrafo 15, o.c., pp.41-42).
Finché
dunque lui stesso non entra nel cuore per accendervi il fuoco del suo
amore, non possiamo illuderci di riuscire a sollevare dai riferimenti
agli interessi terreni la nostra personale comprensione delle Scritture
Sante o vivere il nostro dialogo con gli altri nel distacco richiesto da
un autentico cammino di fede.
11.
Se non siamo ancora arrivati a tanto, possiamo dunque invocarlo,
possiamo cantare a lui le nostre lodi e i nostri cantici e lo faremo, ma
con timore e tremore, consapevoli dei nostri limiti e accettando di dare
soltanto quei frutti che sono convenienti alla nostra vera età
spirituale. Spiega Gregorio Magno: “In tenera età, che è quella dei
primi anni della nostra adolescenza o giovinezza, non si deve arare, cioè
non si deve ancora predicare: il vomere della nostra lingua non osi
fendere la terra del cuore altrui. Finché si è deboli, ci si deve
limitare a noi stessi, perché non ci accada di perdere i beni ancora
teneri che anzitempo vogliamo ostentare…Non si può proporre come
esempio se non ciò che è solido. L’animo deve prima consolidarsi e
si esporrà all’utilità del prossimo, solo quando innalzato dalla
lode non cadrà e colpito dal biasimo non si avvilirà” (ivi, I, 2,
paragrafo 3, o.c., p. 49).
Il
cammino dialogico comincia proprio da questa prima fase infantile. Una
fase estremamente delicata della quale anche Gregorio di Nissa parla
riferendosi a quel periodo della vita in cui Mosè, mentre cresce alla
scuola della sapienza egiziana, può rischiare di perdere la sua identità
originaria se non accetta di rifugiarsi nella solitudine del deserto
fino a quando il Signore stesso non gli manifesterà dall’interno del
roveto ardente la sua misteriosa volontà.
Scrive
questo grande padre cappadoce: “Uno viva pure con la regina degli
Egiziani (che è figura delle conoscenze profane) per approfittare dei
ragguardevoli beni che stanno presso costoro, ma poi corra alla madre
secondo natura, dalla quale non è rimasto staccato neppure quando era
allevato presso la regina, allattato, come dice la storia, dal latte
materno”. Poi aggiunge: “Mi sembra che questo episodio ci insegni
che, anche quando ci dedichiamo ad acquistare familiarità con la
scienza profana durante il tempo dell’educazione, non dobbiamo però
staccarci mai dal latte della Chiesa che ci alimenta. E per latte
intendo i precetti e le pratiche della Chiesa, dai quali l’anima è
nutrita e maturata, prendendo di qui impulso per l’ascesa” (o.c., II,
12).
E
prosegue preoccupato: “Occorre tener presente che chi dovrà dedicarsi
contemporaneamente alle dottrine straniere e a quelle patrie, di fatto
si troverà fra due nemici: infatti la religione straniera si opporrà a
quella della sua famiglia originaria, tentando di dimostrare col
ragionamento di essere più forte di essa. E tale è apparsa a molti un
pò troppo leggeri, che hanno abbandonato la fede patria per passare al
nemico, e così hanno tradito l’insegnamento dei padri” (ivi, 13).
Passando
infine ad una interpretazione del testo biblico maggiormente legata al
riferimento morale, Gregorio osserva: “Se bisogna comunque vivere
insieme con lo straniero, cioè se la necessità ci costringe a
frequentare la sapienza profana poniamo almeno una scrupolosa attenzione
a mettere in condizione di non nuocere i cattivi pastori che usano i
pozzi in modo scorretto, facendo cattivo uso della cultura. Succederà
così che vivremo solitari, non più mescolandoci e facendo da pacieri
tra quelli che lottano fra loro, ma condivideremo la vita con quelli che
pascolano presso di noi, hanno gli stessi sentimenti e gli stessi
pensieri, e sottomettono insieme con noi tutti gli impulsi dell’anima
alla superiore volontà del Logos” (o.c., II, 14-18, passim).
12.
La prudenza di Gregorio Magno e le preoccupazioni di Gregorio di Nissa
possono essere molto preziose per noi a causa della situazione
diasporica in cui le nostre chiese e comunità religiose vivono in modo
sempre più evidente in questi anni.
Gli
interrogativi che si ponevano questi padri sono in realtà assai simili
a quelli che ci poniamo anche noi. Potremmo dunque far tesoro anche noi
della loro prudenza e delle loro indicazioni pastorali? Direi proprio di
sì. E la mia risposta positiva avrebbe come conseguenza alcune
indicazioni concrete che mi permetto di consigliare a mia volta.
Prima:
non avere fretta di gettarsi nel dialogo cosiddetto “teologico”
prima di essere preparati a sostenerlo con una preparazione culturale
adeguata. Abbiamo sentito il richiamo alla necessaria solidità
interiore da parte di Gregorio Magno e alla serietà di una preparazione
culturale adeguata da parte di Gregorio di Nissa. Sono richiami validi
tuttora che rivelano anche con quale serietà ci si debba impegnare
sempre nel dialogo.
Seconda: fa parte integrante di questa preparazione un tempo sufficientemente lungo
di solitudine: “vivremo solitari, non più mescolandoci e facendo da
pacieri tra quelli che lottano fra loro”. Una richiesta che può
apparire contro-corrente o comunque colpevolmente disimpegnata. Nel
gergo politico italiano si chiamerebbe <scelta aventiniana> e
connoterebbe un atteggiamento remissivo e codardo, proprio di chi non
vuol sporcarsi le mani preoccupato soltanto di difendere la propria
coerenza illibata. E tuttavia non sempre è giusto e lecito connotare
una simile scelta con attributi negativi, dal momento che potrebbe
costituire quel necessario distacco che permette alle forze di ritornare
e allo spirito critico di osservare le cose con maggiore oggettività e
prudenza.
Non
si tratterà di una scelta definitiva, ma in ogni caso la si vivrà come
fosse tale per lasciare a Dio stesso la libertà di stabilire tempi e
modalità nei quali, come successe a Mosè, gettarci nella lotta contro
il faraone, i maghi e i suoi ministri per ottenere la liberazione
definitiva del popolo dalla schiavitù egiziana.
Terza: un’esperienza vera di vita comune alla ricerca di quell’armonia
interiore della persona che permetterà di mostrarci anche all’esterno
come comunità nella quale “ viviamo con quelli che pascolano presso
di noi, hanno gli stessi sentimenti e gli stessi pensieri e
sottomettono tutti gli impulsi dell’animo alla superiore volontà
del Logos” (ivi, II, 18).
Quarta: L’abbandono totale alla volontà del Padre, eseguita con piena fiducia e
libertà interiore, ci terrà costantemente pronti a ricevere qualunque
tipo di incarico o forse anche nessuno. Ma abitualmente succederà, come
successe a Mosè, che “mentre così sorvegliamo le greggi – come
scrive Gregorio - vivendo in pace e senza contrasti, ci illuminerà la
verità abbagliando coi suoi splendori gli occhi della nostra anima” (o.c.,
II, 19).
Quinta: La scoperta della verità comporta automaticamente una missione. “Come
allora Mosè s’immerse in questa realtà, così fa ora chiunque,
secondo quell’esempio, si spoglia dell’involucro terreno e osserva
la luce che viene dal roveto, cioè il raggio che risplende a noi
attraverso questa carne irta di spine
che però contiene, come dice il Vangelo, la luce vera e la verità.
E allora si scopre di potersi occupare anche della salvezza degli altri,
combattendo la tirannia e liberando gli oppressi” (ivi, II, 26).
13.
Vi provoco un pò troppo se aggiungo che, in questi consigli di Gregorio
di Nissa leggo un richiamo abbastanza forte per tutti a recuperare
quella dimensione “monastica” della vita consacrata che, come
sappiamo, è stata all’origine di ogni forma di vita religiosa nella
Chiesa?
Sarebbe
forse eccessivo concludere che, per rispondere alle sfide del mondo
contemporaneo, in cui la chiesa e la vita religiosa cristiana diventano
sempre più minoritarie, la via d’uscita creativa e aperta alla
completa fiducia nel Signore debba consistere in una accentuazione della
dimensione monastica in ogni forma di vita consacrata.
Rimane
in ogni caso valido universalmente il richiamo dei nostri padri antichi
a non perdere mai di vista la fraternità, la più intima e sincera
possibile, con coloro che condividono con noi gli stessi pensieri e gli
stessi sentimenti, che sono poi quelli stessi di Cristo.
E
occorre aggiungere che solo una sincera ricerca della quiete o esichia
del cuore permetterà alla Parola di Dio, di conformarci pienamente a
Cristo, insostituibile guida del nostro vivere e del nostro operare per
testimoniare in modo credibile ed efficace la fede cristiana in questo
nostro mondo dalle molte fedi o religioni.
Ma
la sfida delle religioni e il pullulare di scuole di preghiera profonda
o silenziosa o di rilassamento sotto le denominazioni più varie,
interpellano seriamente tutti i nostri istituti religiosi e di vita
consacrata soprattutto sul piano della nostra vita di preghiera.
Accanto
alla testimonianza della carità, che sotto le forme più diverse mostra
efficacemente a tanti membri di religioni non cristiane, presenti per
lavoro o per necessità nel nostro paese, il nostro modo concreto di
proporre Cristo e il suo insegnamento, credo che si debba fare qualche
sforzo in più perché coloro che vengono raggiunti dai nostri numerosi
servizi di carità e di attenzione fraterna, possano anche capire dove
sta, in ciascuno di noi, quel nucleo incandescente dal quale si irradia
il calore della nostra carità operosa di credenti in Cristo e nel suo
Vangelo.
In sintesi
Scrive
il Concilio Vaticano II (LG, VII, 48): “La promessa restaurazione che aspettiamo è già incominciata con Cristo, è
portata avanti con l’invio
dello
Spirito Santo e per mezzo di lui continua nella Chiesa…Già dunque è
arrivata a noi l’ultima fase dei tempi (1Cor. 10, 11) e la
rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata e in certo
modo
reale è anticipata in questo
mondo;
difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche
se imperfetta. Ma fino
a che non vi saranno cieli nuovi e terra nuova, nei quali la
giustizia ha la sua dimora (cfr. 2 Pt. 3, 13),
la Chiesa peregrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che
appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo
e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del
parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr.
Rom. 8, 19-20)…Pertanto, <finché abitiamo in questo corpo siamo
esuli lontani dal Signore> (2Cor. 5, 6) e avendo le primizie dello
Spirito, gemiamo dentro di noi (cfr Rom. 8, 23) e bramiamo di essere con
Cristo (cfr Fil. 1, 23)”.
Questa
profonda riflessione del Concilio potrebbe essere il colore di fondo in
cui ricevere le indicazioni proposte in questa comunicazione radicata
nella Parola del Vangelo, letto alla luce del pensiero dei Padri della
Chiesa e del Magistero.
All’interno
di questo riferimento costante, e in obbedienza al tema che mi è stato
assegnato, si evidenziano:
a)
La necessità che ogni
dialogo trovi nella
confessione dell’unicità di Dio la sua origine e lo scopo
primario;
b)
La consapevolezza che la comune confessione dell’unicità di
Dio comporta simultaneamente una riscoperta della piena fraternità e
sororità fra tutti i membri del genere umano riconosciuti parte
integrante dell’unica famiglia di Dio;
c)
L’attenzione
al mistero, in cui Dio abita
come in una luce inaccessibile, impone a tutti di non pretendere mai di
aver detto o mostrato tutto di Dio e dunque di parlare di Lui con timore
e tremore sapendo che Dio
trascende sempre ogni nostro modo di dire o di fare il Suo nome;
d)
La ricerca incessante di
Dio è l’unico modo concreto di aprirsi al dono della rivelazione
di Lui o della Verità;
e)
Da
qui la natura dinamica e
provvisoria di ogni nostro
modo di parlare di Lui e di testimoniarlo attraverso le nostre
istituzioni umane con conseguenze estremamente pratiche che ci obbligano
a considerare a loro volta provvisori
e mutabili anche i nostri istituti
religiosi e le nostre regole;
f)
Il cammino verso il Signore comporta la partecipazione
simultanea dell’intelligenza e del cuore nell’accoglienza di Lui
che venendo fino a noi ci indica la strada del ritorno a Lui dandoci
anche l’energia della quale abbiamo bisogno per poter iniziare e
proseguire sulla strada della ricerca di Lui;
g)
La scala mistica della
tradizione spirituale antica, che comporta una graduale ascensione dalle
cose più umili e pesanti, legate alla terra e necessarie per i
principianti, alle cose più alte e leggere raggiunte grazie alla dilatazione
del cuore e all’inesprimibile dolcezza dell’amore liberante e
liberato;
h)
La necessità del passaggio
da un atteggiamento, che potremmo definire “religioso”, ancora legato a paure, calcoli, meriti e attesa del
premio, a un atteggiamento,
che potremmo definire di “fede”,
basato unicamente sulla gratuità dell’amore che è proprio di chi
nulla ha di più caro dell’amicizia di Dio e nulla intende anteporre
all’amore di Cristo;
i)
La conversione continua,
vissuta con la gioia di chi scopre cose continuamente nuove compiute
dallo Spirito fino alla liberazione più piena da ogni scoria di
interesse terreno, è il vero
portale di un dialogo che voglia essere condotto con estremo rispetto
del mistero dell’altro e sincera disposizione ad ascoltare
l’altro in tutto ciò
che egli crede e ama, offrendogli il dono della nostra testimonianza di
fede, ma lasciandosi arricchire anche dal suo, senza prevaricazioni o
proselitismi di nessun tipo e con quella completa fiducia nel Signore
che non mancherà di far trionfare la verità attraverso la strada della libertà e
dell’amore.
L’insegnamento
dei Padri antichi non si limita a richiamare solo le esigenze della
conversione continua della persona, ma invita anche ad aprire
gli occhi sulle cose continuamente nuove rivelate dallo Spirito col
progredire della storia umana e cosmica verso la fine dei tempi;
Tra
queste cose nuove si potrebbero porre anche le prospettive diverse dalle
quali osservare l’unico mistero di Cristo e della Chiesa
grazie alle sollecitazioni delle grandi religioni che si fanno più
esplicite e insistenti nell’attuale momento storico dell’umanità,
tenendo conto dell’invito del Papa a ricordare che la
Chiesa cattolica non ha soltanto dato, ma ha anche ricevuto dalla
cultura profana, dalle filosofie e dalle religioni non cristiane. E
dunque verosimilmente un simile scambio dovrà essere ritenuto possibile
anche oggi e nel prossimo o lontano futuro.
Il
modo migliore per aprirsi a queste prospettive nuove, spesso chiamate dialogo interreligioso, sembra essere quello che il Santo Padre ha
individuato nel compito a esporsi
a quella stessa luce di Cristo nella quale si aprono il nuovo secolo e
il nuovo millennio, aprendosi alla “grazia che ci rende uomini
nuovi” nella linea indicata dal Concilio Vaticano II.
Il
che comporta:
a)
la consapevolezza che nessun
carisma interno alla Chiesa può da qui in poi sottrarsi
all’imperativo del dialogo
interreligioso che, come insiste il Santo Padre “deve continuare”;
b) che dialogare
significa ammettere l’importanza determinante della stima
e rispetto dell’altro, della profonda
libertà della sua coscienza, del mistero che racchiude in sé ogni
interlocutore umano e dunque che per un cristiano non
è sufficiente la semplice tolleranza del “diverso”, dovendo
stabilire con l’altro, rispettato nella sua irriducibile diversità,
una vera e propria apertura d’amore;
c) “Il dovere
missionario non ci impedisce di andare
al dialogo intimamente disposti all’ascolto…contando
sull’aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità che ci condurrà alla
pienezza della verità” (cfr Gv, 14,17;16,13), ha ricordato il Santo
Padre;
d)
L’amicizia,
cornice indispensabile di ogni tipo di dialogo, si nutre col “ritenere
temibile soltanto il decadere dall’amicizia di Dio” – come
dice Gregorio di Nissa –Infatti sarà l’impegno comune a voler
restare soprattutto amici di Dio che porterà gli interlocutori di un
dialogo vero a riscoprirsi “in Dio” sempre
più amici fra loro;
e) La crescita
nell’amicizia di Dio comporta così quasi impercettibilmente, nel
confronto fraterno e rispettoso fra dialoganti, uno
spogliamento progressivo degli interessi
della “religio” , che ci prostrano a terra schiacciandoci nel
chiuso di orizzonti esclusivamente terreni, e un’apertura al volo
all’infinito della “fede” sulle ali leggere dell’amore;
f) La
prudenza di Gregorio Magno e le preoccupazioni pastorali di Gregorio di
Nissa, ci ricordano che non si diventa dialoganti autentici e seri senza
una prolungata preparazione che comporti:
-Formazione culturale, spirituale
e teologica adeguate; -
Lasciare a Dio di decidere la chiamata
personale al dialogo, nei modi e nei tempi che
parranno bene a Lui, attraverso l’obbedienza;
-Docilità alla Parola di Dio ottenuta
con l’allenamento della vita
comune e della purificazione
del cuore.
g) Per ultimo
una provocazione: È possibile rivisitare con maggiore impegno i valori
propri della vita monastica che sono all’origine di ogni altra forma di vita
religiosa o consacrata nella Chiesa? A voi la risposta.
Per
parte mia vi pregherei di non identificare semplicisticamente la vita
monastica con quelle forme medioevali, rinascimentali, barocche,
neo-gotiche, neo-romaniche, neo-bizantine, neo-copte o altro, con le
quali spesso viene riproposta oggi da tanti cosiddetti “nuovi
monachesimi”. La vita monastica cristiana alla quale mi riferisco la
penso semplicemente come ritorno a uno stile di vita essenziale che
“non anteponga nulla all’amore di Cristo”, e dunque che accetti di
apparire “inutile” al mondo, come può apparire inutile l’amore;
ponga la celebrazione delle lodi di Dio, “santificando il Suo nome”,
al di sopra di ogni altra testimonianza della fede; si metta umilmente
alla scuola della sapienza dei Padri; e testimoni in modo credibile a
tutti, credenti e non credenti, che “non di solo pane vive l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
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