n. 2 febbraio 2001

 

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Imparare a leggere la vita e le persone
di Franco Cagnasso
 
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Facendo memoria

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Dopo sette anni passati a lavorare con i giovani, studiare il mondo islamico, scrivere su riviste missionarie, partecipare a campeggi, dibattiti e convegni, prete trentatreenne vidi finalmente realizzarsi il sogno di andare in missione. Mi svegliai dal sogno, e mi parve di essere precipitato “in the middle of nowhere”, come dicono gli Inglesi: nel bel mezzo del nulla.

Barisal, sonnolenta e piatta cittadina del Bangladesh meridionale, allora senza telefono e senza strade decenti. Stavo in un edificio il cui nome “Centro Culturale” indicava una speranza, più che una realtà, e lì m’arrabattavo come un bimbo dell’asilo a scrivere i caratteri bengalesi e a imparare quella lingua sonora e simpatica ma per me assolutamente incomprensibile.

Uscivo pochissimo, a piccole dosi, perché vedere tanta miseria con i miei occhi di benestante mi metteva un’angoscia insopportabile. La mattina leggevo il giornale in inglese di due giorni prima, quattro paginette portate in battello dalla capitale. Dava notizie per me insignificanti, vecchie di una settimana o più.

Mi sembrava di morire, privato di ossigeno per il cervello e per il cuore.

Non sono morto.

Anzi, ho imparato una semplice, elementarissima verità che voglio mettere alla base di questo articolo: studiare e informarsi non è indispensabile.

Di più, non è neppure indispensabile saper leggere e scrivere.

Quanti santi sono analfabeti?

Santa Bakita, la simpatica schiava sudanese divenuta suora e canonizzata il 1° ottobre scorso, leggeva a fatica e quasi non sapeva scrivere. Come lei molti altri, nel passato e nel presente.

Ne conosco anch’io di santi analfabeti, in diversi angoli del mondo. La mamma di suor Binita sa il vangelo quasi a memoria, lo ha raccontato ai figli, e secondo me è più saggia di Salomone e della Regina di Saba messi insieme, ma non sa leggere e scrivere. Sua figlia, un’ottima religiosa che si dedicava ai malati nel mio primo luogo di missione, sa benissimo che la sua mamma è più santa e sapiente di lei, che pure ha titoli di studio e fa la meditazione sui commenti esegetici.

Gesù non ha mai raccomandato lo studio, e S. Francesco aveva sospetto di chi desiderava possedere libri.

S. Paolo, istruito ed erudito, si scaglia contro i “sapienti”, filosofi, scribi e compagnia, e pare non sognarsi neppure di raccomandare le buone letture (salvo forse quelle delle sue lettere, ma per quelle bastava uno in comunità che riuscisse a decifrarle…).

Studiare, può diventare pericoloso?

Bisogna infatti aggiungere che lo studio non soltanto non è indispensabile, ma è anche pericoloso.

Può farti presuntuoso. Un amico missionario, divoratore di libri di ogni genere, tempo fa, preso da sacro zelo ispirato alle sue ultime letture sul rinnovamento della catechesi, si mise in testa di istruire i fedeli della sua missione. Li invitò perentoriamente a fermarsi nel cortile della chiesa dopo la Messa, e li sottopose, domenica dopo domenica, a massicce cure di dottrina aggiornata. I primi risultati furono entusiasmanti, e lui non si negò la soddisfazione di far sapere che tutti gli altri avevano capito niente di quel gruppo etnico, e lo avevano sottovalutato, perché in realtà è assetato di sapere.

Nel giro di due mesi, l’assemblea di ridusse però a poche vittime impossibilitate a fuggire perché legate istituzionalmente alla missione: sacrestano, catechista, figlio del sacrestano, moglie del catechista e direttore della scuola.

Al nostro esperto in catechesi e scienze varie non venne neppure in mente l’idea che la sua preparazione fosse male applicata alle persone che voleva istruire. Al contrario, la sua conclusione fu chiara e perentoria tanto quanto le sue prime impressioni: sì, quel gruppo è assetato di sapere, ma è anche tragicamente incostante…

Oggi la vera ricchezza si trova nel conoscere, e il grande divario fra ricchi e poveri più che nella quantità di denaro e di beni posseduti sta nell’accesso al sapere tecnologico, finanziario, informatico, e così via. Non per nulla i paesi ricchi succhiano immediatamente a quelli poveri le persone meglio preparate, matematici, medici, ingegneri, tecnici nei campi più richiesti, e questo drenaggio è più importante della licenza di sfruttamento di miniere o piantagioni. Un settimanale di Hong Kong specializzato sull’economia dell’Asia, ha pubblicato recentemente uno studio in cui invita i governi del continente ad attuare una politica aperta a riguardo dell’immigrazione, altrimenti perderanno la gara per accaparrarsi i migliori cervelli, una gara “che può determinare chi sarà più forte nell’economia del XXI secolo”1.

Il sapere è ricchezza ed è potere, ed è quindi terribilmente pericoloso dal punto di vista del Vangelo, così critico verso i ricchi e i potenti di questo mondo.

Chi sa può farsi strada, può manipolare, può usare gli altri: dal fazendero senza scrupoli che conosce le leggi e ottiene documenti a suo favore per imbrogliare i braccianti illetterati, al giornalista arrogante che usa della propria abilità per far carriera a scapito della verità e della dignità degli altri…

Il sapere è tentazione d’orgoglio, perché dà l’impressione di autosufficienza, di superiorità, di pienezza. Ricordo i sorrisetti sprezzanti con cui - studentelli di teologia - ascoltavamo le omelie che ci capitava di ascoltare da qualche prete un po’ alla buona e che non aveva letto l’ultimo (forse, a dire il vero, nemmeno il penultimo) libro di esegesi…

 

Si può diventare idolatri del sapere.

La cultura è spesso la divinità a cui ci si inchina. Chi la possiede si sente sacerdote del sapere, giudice di tutto e di tutti, posto al di sopra della massa a cui concede di tanto in tanto la sua attenzione benevola per spiegarle di che cosa ha bisogno e che cosa non ha ancora capito, o il suo sguardo sprezzante per informarla che è insopportabile per la sua ignoranza, e - appunto - incultura.

Per questo ogni tanto giornali e riviste commentano ricerche statistiche rigorosamente documentate e ci affliggono con le solite lagne sugli italiani che non leggono (mentre invece gli svedesi, quelli sì…); proprio come il parroco che si sfoga sui poveri fedeli presenti parlando male di quelli che non sono presenti. E non si chiedono loro, i sapienti, se per caso gli italiani leggono poco perché loro, i sapienti, scrivono cose poco interessanti o le scrivono male2.

Leggere e informarsi può diventare una droga, incapace di nutrirci ma di cui non si può fare a meno, generatrice di deliri di onnipotenza e di rapporti completamente deformati con la realtà e con gli altri.

Ma torniamo a Barisal.

Messo a rigoroso digiuno, ridotto a mendicare pezzettini di carta stampata in lingue a me note come un affamato si mangia le bucce di patata, mi sono chiesto che cosa diavolo mi stesse succedendo, come sopravvivere, dove stavo andando.

E, grazie a Dio, ho aperto gli occhi.

 

Imparare a guardare alberi e foglie

Ho scoperto che si può passare tanto tempo semplicemente a guardare alberi e foglie.

Che si può attendere.

Che avevo un’enorme quantità di ciarpame nella testa, informazioni disordinate, ansie inutili, presunzioni. Ingozzandomi di letture avevo pensato di nutrirmi, ma avevo anche fatto indigestione. Ero stato un consumista del cervello.

Ho scoperto che in giardino, tutti i giorni, veniva un contadino che passava ore e ore accoccolato a sbriciolare le zolle dure della stagione secca con una piccola clava, preparando il terreno per la semina. Grigio di capelli, bruciato dal sole, magro, silenzioso. Usava i giornali per avvolgere la verdura che vendeva al mercato.

Era un uomo come me, eppure non capivo niente di lui. Pensavo che ad essere così poveri e così ignoranti non ci fosse vita degna di essere vissuta. Pian piano, osservandolo a lungo, me lo ricostruii interiormente come uomo. Aveva una famiglia, amava i figli e la moglie - anche se il suo modo di esprimere (o di nascondere) l’amore mi pareva strano. Aveva una fede e pregava, tutti i giorni. Sperava, soffriva, rideva, temeva…

Che cosa gli passava in testa mentre le zolle si frantumavano con la sua fatica, chino, quasi amalgamato alla terra? Dove erano, per lui, i grandi problemi internazionali, le riflessioni dei filosofi, le scoperte della scienza, le sottigliezze dei teologi, le meraviglie orgogliose del progresso?

Fra poco tempo sarebbe morto, e ora stava vivendo la sua unica vita, come quella di altri miliardi di uomini per migliaia di anni, non come la mia. Vite sprecate?

Aveva accolto se stesso e aveva imparato l’arte di preparare il terreno, sapeva quando condurre la mucca a bere, dove immagazzinare il riso, come resistere alla terribile fatica dell’aratura. Era responsabile di altre vite, quelle dei figli, si era messo sotto la protezione di Dio, gustava l’aria fresca del mattino e il luccicare dorato della juta appena lavorata.

Dovevo ripartire da quell’uomo.

 

Gli spazi dello studio

Buttando via i miei libri, disinteressandomi degli avvenimenti del mondo, ignorando la mia storia?

Non mi sono mai sentito attratto da una prospettiva del genere.

Piuttosto, si trattava di collocare meglio studio e informazione dentro il mio essere uomo, credente, missionario, di dargli anzitutto uno spazio interiore chiaro per cui io fossi in controllo, non loro.

Il primo potrebbe essere chiamato lo spazio dello stupore.

Mi trovavo in una realtà nuova, quella del Bangladesh. Spesso provavo un’acuta sofferenza (ho già accennato alla povertà, l’incapacità a comunicare, c’erano pure il confronto con persone di un’altra fede religiosa, le evidenti ingiustizie, e tanto altro…) ma proprio ciò che era più diverso e che causava più inquietudine stimolava di più riflessione, crescita, verità. Sentivo che la mia umanità si stava dilatando.

Noi siamo in mille modi limitati, ma per certi aspetti non abbiamo confini. Siamo esseri in divenire, abbiamo orizzonti di eternità e di infinito. Cogliere cose diverse e nuove è incamminarsi verso questi orizzonti. Se non c’è più nulla di cui ci stupiamo, siamo fermi e chiusi: sassi.

Lo spazio dello stupore è risponde alla nostra vocazione fondamentale di esseri umani che desiderano conoscere, crescere, imparare, comunicare. Siamo esseri curiosi. C’è una curiosità petulante e stupida che disgusta, ma c’è la curiosità seria, vorrei dire “pia” di chi guarda attorno a sé con la persuasione che tutto è frutto dell’opera di Dio, tutto è per l’uomo. Chi si chiude volontariamente allo stupore si chiude ad una comunicazione con Dio stesso.

Dicevo prima del “ciarpame” che ho scoperto di avere in testa quando sono stato costretto a smettere di inghiottire informazioni in dosi massicce. Mi spiego.

Il ciarpame viene dal gettarsi avidamente su qualsiasi cosa alienandosi a se stessi. Bisogna imparare ad “uscire” alla scoperta di ciò che è bello, che nutre l’anima e l’intelligenza, che appassiona al nostro essere vivi e capaci di comunicare. Ciò richiede la disciplina del desiderio, dell’avidità, e d’altro lato la vittoria sulla pigrizia del già noto, dell’ovvio, del ripetitivo che ci stanca ma da cui non sappiamo staccarci. Uscire può costare fatica e sofferenza, ma dilata il cuore - come salire in montagna è faticoso ma allarga gli orizzonti e lascia progressivamente entrare in noi la bellezza.

E’ una questione di qualità, non di quantità. Quanto tempo si perde in stupidità, e poi si ritiene di non aver tempo, o non si ha più voglia di cose belle!

Ogni giorno abbiamo davanti scelte grandi e piccole fra la stupidità e la bellezza. La stupidità di pettegolare all’infinito sulle solite cose, di crogiolarci nei nostri malesseri e nelle nostre autocommiserazioni, di lasciarci ipnotizzare dai colori e dagli squallori della TV, di dedicarci devotamente all’inutile; contro la bellezza di una conversazione intelligente e interessante, di una buona lettura, di un momento con noi stessi. Sentiamo tanto il bisogno di di-strarci e di di-vertirci, ma quanto è più bello fare compagnia a noi stessi o ad altri senza bisogno di null’altro che della compagnia stessa!

In quest’ottica, lo studio non è un atto di egoismo o un acquisire strumenti di potere, ma un dono che riceviamo. Avere la possibilità di leggere e di studiare è una ricchezza di cui dovremmo sempre essere profondamente grati, così come siamo grati di avere la vita, gli occhi, gli amici. E’ un “talento” prezioso che ci permette di incontrare fratelli e sorelle nel loro modo di pensare, di vivere, nelle loro esigenze. Di esplorare l’opera e la rivelazione stessa di Dio nel creato, nella storia, nell’arte, nel mistero di ogni esistenza umana.

Se ho ricevuto questo dono e lo accolgo, sono come il contadino di Barisal, che ha pazientemente imparato a coltivare la juta, a capire quando arriva la pioggia, a tessere la paglia per il tetto della sua casa. A partire dai contesti diversi in cui ci troviamo, ciascuno di noi due (il contadino e io) esplora il mondo in cui si trova, lo ama, cerca di capirlo, di collocarsi in esso nel modo più giusto e più ricco di possibilità di scoprirvi Dio. Se ho ricevuto questo dono e non lo accolgo, sono come un contadino che non sa seminare al tempo giusto, che spreca l’acqua, che con la sua pigrizia lascia la famiglia nel bisogno, che non ha occhi per vedere l’opera di Dio.

Un secondo spazio interiore che si apre allo studio potrebbe essere chiamato lo spazio dell’amore che serve.

C’è da vergognarsi per come certi missionari e missionarie parlano (verrebbe da dire “sparlano”) la lingua del posto, per l’approssimazione con cui si esprimono, per l’incapacità di elaborare un minimo di riflessione sulle differenze fra la loro cultura d’origine e quella del popolo a cui sono stati mandati.

Eppure, qualche volta, sono loro che conquistano il cuore della gente. I semplici - ma non solo - hanno come un sesto senso, un radar invisibile che li porta a simpatizzare e a fidarsi di loro, e a stare alla larga da altri, anche se parlano bene, sono preparati, si sforzano di adattarsi e di capire.

Questo è vero, verissimo. Tanto vero che alimenta spesso una serie di luoghi comuni: “Basta un po’ di buona volontà…”; “C’è poco da capire, tanto siamo tutti uguali…”; “Macché cultura e cultura, quel che ci vuole è rimboccarsi le maniche e dare il buon esempio…”.

Siamo fra due fuochi. Da una parte queste banalità perniciose, e dall’altra la persuasione che quanto più aumentano i corsi di specializzazione, i titoli di studio, le disquisizioni dotte tanto più si è preparati a far missione.

Ciò non vale solo per i missionari che devono entrare in altre culture, ma riguarda ogni tipo di servizio. Parole orrende come “managerialità” e “professionalità” guardano dall’alto in basso la pigra teoria del fare alla buona, del mettersi d’accordo e rabberciare le cose in qualche modo. Si punta tutto sulla preparazione tecnica e si fatica a conciliare il rispetto e l’attenzione alla persona con la produttività, l’amore che cerca di adattarsi e la preparazione che richiede rigore e non fa sconti.

Senza voler semplificare a tutti i costi, bisogna dire che il dilemma è falso, male impostato.

Il credente che si pone a servizio degli altri in forza della propria fede, si muove prima di tutto per amore, e l’amore guarda la persona, si pone al suo servizio. Ma che amore è quello che non cerca di dare il meglio? Come si può dire di amare se non ci si interessa di capire, di dare spazio all’altro con la sua storia e le sue esigenze, di trovare vie per farsi capire e per crescere insieme?

Torno a sr. Binita, quella suora infermiera molto brava con la povera gente, e consapevole di avere una mamma analfabeta ma più sapiente di Salomone e della Regina di Saba.

Una sera dovetti bussare alla porta della sua comunità ad ora molto tarda, per un’urgenza. Mi fecero entrare, le suore sedevano attorno al tavolo dove avevano cenato, e vidi con stupore Binita intenta a consultare libri di medicina, a lume di lanterna. La sua abilità di infermiera era così spontanea e convinta, così appassionata per ogni ammalato, che non mi era mai passato per la testa il pensiero che dovesse studiare, cercare, aggiornarsi. Invece lo faceva, eccome!

Come un fotogramma un po’ sbiadito ma a cui sono affezionato, m’è rimasta nella mente l’immagine di quella stanza fiocamente illuminata, dei libri in penombra con la suora che li leggeva, ed è per me l’icona della “professionalità” del cristiano. Non un partire dalla scienza per riversarla sugli altri come rimedio automatico ai loro mali (o alla loro ignoranza, o alla loro impreparazione, ecc.) ma un partire dalla passione per l’altro, dalla ricerca di ciò che può davvero portare vicino a lui o lei, ad aiutare, e perciò studiare, prepararsi, acquisire conoscenza (scienza) che non abbia nulla da invidiare a nessuno. Quella non è scienza che gonfia, ma scienza umile, come l’arte di cuocere un buon pane, come la mano attenta del contadino di Barisal quando trapianta le pianticelle di riso.

Se crediamo questo, allora possiamo tornare a chiederci come mai il missionario che non parla bene la lingua, che è arruffone e di poco ingegno sia qualche volta quello più amato, quello che tocca i cuori - molto più dell’altro, preparato e colto. E’ perché il sesto senso della gente ha percepito che quell’uomo, o quella donna, danno tutto ciò che sono e che hanno. Il loro stare lì è l’obolo della vedova. Mentre l’altro, il sapiente, si fida di ciò che sa.

La loro impreparazione non è frutto di pigrizia, di scarsa attenzione. Non sono amati perché impreparati, ma perché ce l’hanno messa tutta.

Un mio confratello ebbe questa strana esperienza: proprio alla sua prima Messa, al momento dell’omelia ebbe una totale amnesia. Stette alcuni, aggiaccianti minuti muto davanti a tutti finché suo padre s’alzò dal primo banco, lo prese per un braccio e lo ricondusse all’altare dicendogli: “Vai avanti, stupido!”.

Ne restò segnato per sempre. L’omelia per lui era un incubo. Iniziava il lunedì a leggere e rileggere i testi, teneva davanti commenti e libri, scriveva e riscriveva con ansia crescente, che raggiungeva il culmine il sabato sera. Così per tutta la vita.

Si riteneva un pessimo predicatore, ma ancora oggi, anni dopo la sua morte, la gente ricorda le sue parole. Perché sapendosi incapace si preparava, cercava parole semplici, esempi e proverbi, ci soffriva sopra chiedendosi come meglio farsi capire…

Il sapiente gonfio di orgoglio è terribile, ma peggio ancora è l’ignorante presuntuoso e pigro. Se alla base c’è un amore umile, di lì nasce l’impegno e il risultato non manca, anche quando le unità di misura soltanto umane ed efficientiste ci dicono che invece non c’è o è troppo scarso.

Luogo dello stupore e luogo dell’amore che serve. Che altro?

Abbiamo anche un orizzonte interiore, o se preferite una profondità in cui addentrarci. E’ esattamente quello spazio a cui cerchiamo di sfuggire quando accendiamo automaticamente la radio appena ci troviamo soli, quando leggiamo qualsiasi cosa ci capiti a tiro, quando ci troviamo sperduti a causa di un’imprevista mezz’ora senza nulla da fare.

Servono, per questa esplorazione interiore, libri e informazioni?

Se vado in libreria e mi guardo attorno direi di no. Anni fa m’appassionavo, mi veniva voglia di leggere tutto. Adesso mi viene il capogiro, e quasi sempre faccio una cosa che allora ritenevo inimmaginabile: esco senza comprare nulla!

Non ne attribuisco la responsabilità alle librerie o alle case editrici, ma alla mia età. Tuttavia anche l’età può recare un suo messaggio (non è negativo essere giovani, ma nemmeno l’esserlo già stati…).

In un mercato pieno di gente non riesco a trovare un volto amico, tutto passa e sfugge, non si dialoga con una folla eterogenea.

Cerco letture che mi dicano qualcosa, che mi facciano pensare senza la pretesa di persuadere, stupire, assordare. Cerco copertine e titoli che, senza volermi attirare, mi dicano semplicemente che cosa c’è nel libro (ma ciò non significa che cerchi solo libri “seri” o ponderosi!).

Ecco perché a volte riprendo un libro già letto, o lo lascio a lungo e poi mi riaccosto, o vado avanti anche se non capisco tutto. Se fa “risuonare” qualcosa dentro - fosse pure un’inquietudine, una domanda neppure tanto chiara - allora diventa amico, e con un amico si parla volentieri.

Non si parla con la carta, ma con chi c’è dietro, e con ciò che evoca dentro di me.

E’ il “libro di meditazione”, non necessariamente di tematica religiosa, il libro che nutre il silenzio di cui abbiamo tanto bisogno, perché ciò che mi offre non distrae ma accompagna.

Ne ho pochi, pochissimi di libri così, perché quando li trovo li regalo. Quando sento il bisogno di parlarne con altri, di offrirli ad un amico, è il segno che valeva la pena leggerli. Ecco perché nel mio scaffale ci sono solo libri che non ho letto, o che non mi sono piaciuti!

Parte di un impegno intellettuale che non sia intellettualismo ma paziente coltivazione del giardino che il Signore ha messo in noi e attorno è noi, è anche il comunicare, il condividere.

Le idee, le riflessioni, non si consumano, anzi si irrobustiscono, si moltiplicano e diventano più belli quando li condividiamo. Imparare a conversare è come e più dell’imparare una metodologia di studio.

 

E imparare a domandare.

Ebbi la fortuna, anni fa, di incontrare un Vescovo cinese che era stato nelle prigioni comuniste oltre vent’anni, dodici dei quali vissuti in isolamento. Era ormai anziano, ma aiutava ad amministrare le cresime, e un giorno pranzammo accanto proprio dopo una lunga liturgia. Ero emozionato, e volevo chiedergli tante cose sulla Cina, sulla sua esperienza.

Appena presentati, fu lui a portarmi sui discorsi che facevo volentieri perché mi riguardavano da vicino, e allo stesso tempo gli interessavano. Parlai dell’Europa, dei giovani, della secolarizzazione, della chiesa in Italia, delle vocazioni, incoraggiato dalle sue domande e dai suoi occhi vivi pieni di attenzione. Senza accorgermi, non ebbi la possibilità di far domande. “Diavolo d’un vecchietto! - pensai dopo - ti sei fatto voler bene e stimare senza dirmi niente; mi hai dato coraggio senza fare esortazioni; mi hai fatto sentire importante e utile senza dirmelo…”. Era un uomo che aveva imparato a leggere la vita e le persone.

E l’importanza della formazione continua, la necessità di stare al passo con la situazione del mondo che cambia, di approfondire continuamente la teologia, di leggere i documenti pastorali e le encicliche, l’indispensabile presenza della Chiesa nel mondo della cultura… mamma mia, forse avrei dovuto scrivere di queste cose.

O avrei dovuto dire che è cultura anche vedere un buon film.

E soprattutto, esortare ad approfondire continuamente, nella Lectio divina, la Parola che dev’essere alimento della nostra vita.

Ma queste cose le sapete già certamente, e allora vi regalo, in quest’ultima parte dell’articolo, un momento di silenzio.

Sarà la parte migliore.


 

1. Far Eastern Economic Review, Hong Kong November 9, 2000 pag.38 ss. (torna al testo)
  

2. Lasciatemi aggiungere una domanda: ma sarà vero che gli italiani leggono poco? Chi ha stabilito “quanto” si “deve” leggere? Io so soltanto che le statistiche sono sempre molto ambigue, pietrificano situazioni fluide, eliminano le sfumature, valutano in base a criteri prestabiliti ma spesso non dichiarati, e fanno il tutto con l’aria di grande serietà scientifica e di indiscutibile autorevolezza… (torna al testo)

 

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