Dopo sette anni passati a lavorare con i giovani,
studiare il mondo islamico, scrivere su riviste missionarie, partecipare
a campeggi, dibattiti e convegni, prete trentatreenne vidi finalmente
realizzarsi il sogno di andare in missione. Mi svegliai dal sogno, e mi
parve di essere precipitato “in the middle of nowhere”, come dicono
gli Inglesi: nel bel mezzo del nulla.
Barisal, sonnolenta e piatta cittadina del
Bangladesh meridionale, allora senza telefono e senza strade decenti.
Stavo in un edificio il cui nome “Centro Culturale” indicava una
speranza, più che una realtà, e lì m’arrabattavo come un bimbo
dell’asilo a scrivere i caratteri bengalesi e a imparare quella lingua
sonora e simpatica ma per me assolutamente incomprensibile.
Uscivo pochissimo, a piccole dosi, perché vedere
tanta miseria con i miei occhi di benestante mi metteva un’angoscia
insopportabile. La mattina leggevo il giornale in inglese di due giorni
prima, quattro paginette portate in battello dalla capitale. Dava
notizie per me insignificanti, vecchie di una settimana o più.
Mi sembrava di morire, privato di ossigeno per il
cervello e per il cuore.
Non sono morto.
Anzi, ho imparato una semplice, elementarissima
verità che voglio mettere alla base di questo articolo: studiare e
informarsi non è indispensabile.
Di più, non è neppure indispensabile saper
leggere e scrivere.
Quanti santi sono analfabeti?
Santa Bakita, la simpatica schiava sudanese
divenuta suora e canonizzata il 1° ottobre scorso, leggeva a fatica e
quasi non sapeva scrivere. Come lei molti altri, nel passato e nel
presente.
Ne conosco anch’io di santi analfabeti, in
diversi angoli del mondo. La mamma di suor Binita sa il vangelo quasi a
memoria, lo ha raccontato ai figli, e secondo me è più saggia di
Salomone e della Regina di Saba messi insieme, ma non sa leggere e
scrivere. Sua figlia, un’ottima religiosa che si dedicava ai malati
nel mio primo luogo di missione, sa benissimo che la sua mamma è più
santa e sapiente di lei, che pure ha titoli di studio e fa la
meditazione sui commenti esegetici.
Gesù non ha mai raccomandato lo studio, e S.
Francesco aveva sospetto di chi desiderava possedere libri.
S. Paolo, istruito ed erudito, si scaglia contro i
“sapienti”, filosofi, scribi e compagnia, e pare non sognarsi
neppure di raccomandare le buone letture (salvo forse quelle delle sue
lettere, ma per quelle bastava uno in comunità che riuscisse a
decifrarle…).
Studiare, può diventare
pericoloso?
Bisogna infatti aggiungere che lo studio non
soltanto non è indispensabile, ma è anche pericoloso.
Può farti presuntuoso. Un amico missionario,
divoratore di libri di ogni genere, tempo fa, preso da sacro zelo
ispirato alle sue ultime letture sul rinnovamento della catechesi, si
mise in testa di istruire i fedeli della sua missione. Li invitò
perentoriamente a fermarsi nel cortile della chiesa dopo la Messa, e li
sottopose, domenica dopo domenica, a massicce cure di dottrina
aggiornata. I primi risultati furono entusiasmanti, e lui non si negò
la soddisfazione di far sapere che tutti gli altri avevano capito niente
di quel gruppo etnico, e lo avevano sottovalutato, perché in realtà è
assetato di sapere.
Nel giro di due mesi, l’assemblea di ridusse però
a poche vittime impossibilitate a fuggire perché legate
istituzionalmente alla missione: sacrestano, catechista, figlio del
sacrestano, moglie del catechista e direttore della scuola.
Al nostro esperto in catechesi e scienze varie non
venne neppure in mente l’idea che la sua preparazione fosse male
applicata alle persone che voleva istruire. Al contrario, la sua
conclusione fu chiara e perentoria tanto quanto le sue prime
impressioni: sì, quel gruppo è assetato di sapere, ma è anche
tragicamente incostante…
Oggi la vera ricchezza si trova nel conoscere, e il
grande divario fra ricchi e poveri più che nella quantità di denaro e
di beni posseduti sta nell’accesso al sapere tecnologico, finanziario,
informatico, e così via. Non per nulla i paesi ricchi succhiano
immediatamente a quelli poveri le persone meglio preparate, matematici,
medici, ingegneri, tecnici nei campi più richiesti, e questo drenaggio
è più importante della licenza di sfruttamento di miniere o
piantagioni. Un settimanale di Hong Kong specializzato sull’economia
dell’Asia, ha pubblicato recentemente uno studio in cui invita i
governi del continente ad attuare una politica aperta a riguardo
dell’immigrazione, altrimenti perderanno la gara per accaparrarsi i
migliori cervelli, una gara “che può determinare chi sarà più forte
nell’economia del XXI secolo”1.
Il sapere è ricchezza ed è potere, ed è quindi
terribilmente pericoloso dal punto di vista del Vangelo, così critico
verso i ricchi e i potenti di questo mondo.
Chi sa può farsi strada, può manipolare, può
usare gli altri: dal fazendero senza scrupoli che conosce le leggi e
ottiene documenti a suo favore per imbrogliare i braccianti illetterati,
al giornalista arrogante che usa della propria abilità per far carriera
a scapito della verità e della dignità degli altri…
Il sapere è tentazione d’orgoglio, perché dà
l’impressione di autosufficienza, di superiorità, di pienezza.
Ricordo i sorrisetti sprezzanti con cui - studentelli di teologia -
ascoltavamo le omelie che ci capitava di ascoltare da qualche prete un
po’ alla buona e che non aveva letto l’ultimo (forse, a dire il
vero, nemmeno il penultimo) libro di esegesi…
Si può diventare idolatri del sapere.
La cultura è spesso la divinità a cui ci si
inchina. Chi la possiede si sente sacerdote del sapere, giudice di tutto
e di tutti, posto al di sopra della massa a cui concede di tanto in
tanto la sua attenzione benevola per spiegarle di che cosa ha bisogno e
che cosa non ha ancora capito, o il suo sguardo sprezzante per
informarla che è insopportabile per la sua ignoranza, e - appunto -
incultura.
Per questo ogni tanto giornali e riviste commentano
ricerche statistiche rigorosamente documentate e ci affliggono con le
solite lagne sugli italiani che non leggono (mentre invece gli svedesi,
quelli sì…); proprio come il parroco che si sfoga sui poveri fedeli
presenti parlando male di quelli che non sono presenti. E non si
chiedono loro, i sapienti, se per caso gli italiani leggono poco perché
loro, i sapienti, scrivono cose poco interessanti o le scrivono male2.
Leggere e informarsi può diventare una droga,
incapace di nutrirci ma di cui non si può fare a meno, generatrice di
deliri di onnipotenza e di rapporti completamente deformati con la realtà
e con gli altri.
Ma torniamo a Barisal.
Messo a rigoroso digiuno, ridotto a mendicare
pezzettini di carta stampata in lingue a me note come un affamato si
mangia le bucce di patata, mi sono chiesto che cosa diavolo mi stesse
succedendo, come sopravvivere, dove stavo andando.
E, grazie a Dio, ho aperto gli occhi.
Imparare a guardare alberi
e foglie
Ho scoperto che si può passare tanto tempo
semplicemente a guardare alberi e foglie.
Che si può attendere.
Che avevo un’enorme quantità di ciarpame nella
testa, informazioni disordinate, ansie inutili, presunzioni.
Ingozzandomi di letture avevo pensato di nutrirmi, ma avevo anche fatto
indigestione. Ero stato un consumista del cervello.
Ho scoperto che in giardino, tutti i giorni, veniva
un contadino che passava ore e ore accoccolato a sbriciolare le zolle
dure della stagione secca con una piccola clava, preparando il terreno
per la semina. Grigio di capelli, bruciato dal sole, magro, silenzioso.
Usava i giornali per avvolgere la verdura che vendeva al mercato.
Era un uomo come me, eppure non capivo niente di
lui. Pensavo che ad essere così poveri e così ignoranti non ci fosse
vita degna di essere vissuta. Pian piano, osservandolo a lungo, me lo
ricostruii interiormente come uomo. Aveva una famiglia, amava i figli e
la moglie - anche se il suo modo di esprimere (o di nascondere)
l’amore mi pareva strano. Aveva una fede e pregava, tutti i giorni.
Sperava, soffriva, rideva, temeva…
Che cosa gli passava in testa mentre le zolle si
frantumavano con la sua fatica, chino, quasi amalgamato alla terra? Dove
erano, per lui, i grandi problemi internazionali, le riflessioni dei
filosofi, le scoperte della scienza, le sottigliezze dei teologi, le
meraviglie orgogliose del progresso?
Fra poco tempo sarebbe morto, e ora stava vivendo
la sua unica vita, come quella di altri miliardi di uomini per migliaia
di anni, non come la mia. Vite sprecate?
Aveva accolto se stesso e aveva imparato l’arte
di preparare il terreno, sapeva quando condurre la mucca a bere, dove
immagazzinare il riso, come resistere alla terribile fatica
dell’aratura. Era responsabile di altre vite, quelle dei figli, si era
messo sotto la protezione di Dio, gustava l’aria fresca del mattino e
il luccicare dorato della juta appena lavorata.
Dovevo ripartire da quell’uomo.
Gli spazi dello studio
Buttando via i miei libri, disinteressandomi degli
avvenimenti del mondo, ignorando la mia storia?
Non mi sono mai sentito attratto da una prospettiva
del genere.
Piuttosto, si trattava di collocare meglio studio e
informazione dentro il mio essere uomo, credente, missionario, di dargli
anzitutto uno spazio interiore chiaro per cui io fossi in controllo, non
loro.
Il primo potrebbe essere chiamato lo spazio
dello stupore.
Mi trovavo in una realtà nuova, quella del
Bangladesh. Spesso provavo un’acuta sofferenza (ho già accennato alla
povertà, l’incapacità a comunicare, c’erano pure il confronto con
persone di un’altra fede religiosa, le evidenti ingiustizie, e tanto
altro…) ma proprio ciò che era più diverso e che causava più
inquietudine stimolava di più riflessione, crescita, verità. Sentivo
che la mia umanità si stava dilatando.
Noi siamo in mille modi limitati, ma per certi
aspetti non abbiamo confini. Siamo esseri in divenire, abbiamo orizzonti
di eternità e di infinito. Cogliere cose diverse e nuove è
incamminarsi verso questi orizzonti. Se non c’è più nulla di cui ci
stupiamo, siamo fermi e chiusi: sassi.
Lo spazio dello stupore è risponde alla nostra
vocazione fondamentale di esseri umani che desiderano conoscere,
crescere, imparare, comunicare. Siamo esseri curiosi. C’è una
curiosità petulante e stupida che disgusta, ma c’è la curiosità
seria, vorrei dire “pia” di chi guarda attorno a sé con la
persuasione che tutto è frutto dell’opera di Dio, tutto è per
l’uomo. Chi si chiude volontariamente allo stupore si chiude ad una
comunicazione con Dio stesso.
Dicevo prima del “ciarpame” che ho scoperto di
avere in testa quando sono stato costretto a smettere di inghiottire
informazioni in dosi massicce. Mi spiego.
Il ciarpame viene dal gettarsi avidamente su
qualsiasi cosa alienandosi a se stessi. Bisogna imparare ad “uscire”
alla scoperta di ciò che è bello, che nutre l’anima e
l’intelligenza, che appassiona al nostro essere vivi e capaci di
comunicare. Ciò richiede la disciplina del desiderio, dell’avidità,
e d’altro lato la vittoria sulla pigrizia del già noto, dell’ovvio,
del ripetitivo che ci stanca ma da cui non sappiamo staccarci. Uscire può
costare fatica e sofferenza, ma dilata il cuore - come salire in
montagna è faticoso ma allarga gli orizzonti e lascia progressivamente
entrare in noi la bellezza.
E’ una questione di qualità, non di quantità.
Quanto tempo si perde in stupidità, e poi si ritiene di non aver tempo,
o non si ha più voglia di cose belle!
Ogni giorno abbiamo davanti scelte grandi e piccole
fra la stupidità e la bellezza. La stupidità di pettegolare
all’infinito sulle solite cose, di crogiolarci nei nostri malesseri e
nelle nostre autocommiserazioni, di lasciarci ipnotizzare dai colori e
dagli squallori della TV, di dedicarci devotamente all’inutile; contro
la bellezza di una conversazione intelligente e interessante, di una
buona lettura, di un momento con noi stessi. Sentiamo tanto il bisogno
di di-strarci e di di-vertirci, ma quanto è più bello fare compagnia a
noi stessi o ad altri senza bisogno di null’altro che della compagnia
stessa!
In quest’ottica, lo studio non è un atto di
egoismo o un acquisire strumenti di potere, ma un dono che riceviamo.
Avere la possibilità di leggere e di studiare è una ricchezza di cui
dovremmo sempre essere profondamente grati, così come siamo grati di
avere la vita, gli occhi, gli amici. E’ un “talento” prezioso che
ci permette di incontrare fratelli e sorelle nel loro modo di pensare,
di vivere, nelle loro esigenze. Di esplorare l’opera e la rivelazione
stessa di Dio nel creato, nella storia, nell’arte, nel mistero di ogni
esistenza umana.
Se ho ricevuto questo dono e lo accolgo, sono come
il contadino di Barisal, che ha pazientemente imparato a coltivare la
juta, a capire quando arriva la pioggia, a tessere la paglia per il
tetto della sua casa. A partire dai contesti diversi in cui ci troviamo,
ciascuno di noi due (il contadino e io) esplora il mondo in cui si
trova, lo ama, cerca di capirlo, di collocarsi in esso nel modo più
giusto e più ricco di possibilità di scoprirvi Dio. Se ho ricevuto
questo dono e non lo accolgo, sono come un contadino che non sa seminare
al tempo giusto, che spreca l’acqua, che con la sua pigrizia lascia la
famiglia nel bisogno, che non ha occhi per vedere l’opera di Dio.
Un secondo spazio interiore che si apre allo studio
potrebbe essere chiamato lo spazio dell’amore che serve.
C’è da vergognarsi per come certi missionari e
missionarie parlano (verrebbe da dire “sparlano”) la lingua del
posto, per l’approssimazione con cui si esprimono, per l’incapacità
di elaborare un minimo di riflessione sulle differenze fra la loro
cultura d’origine e quella del popolo a cui sono stati mandati.
Eppure, qualche volta, sono loro che conquistano il
cuore della gente. I semplici - ma non solo - hanno come un sesto senso,
un radar invisibile che li porta a simpatizzare e a fidarsi di loro, e a
stare alla larga da altri, anche se parlano bene, sono preparati, si
sforzano di adattarsi e di capire.
Questo è vero, verissimo. Tanto vero che alimenta
spesso una serie di luoghi comuni: “Basta un po’ di buona volontà…”;
“C’è poco da capire, tanto siamo tutti uguali…”; “Macché
cultura e cultura, quel che ci vuole è rimboccarsi le maniche e dare il
buon esempio…”.
Siamo fra due fuochi. Da una parte queste banalità
perniciose, e dall’altra la persuasione che quanto più aumentano i
corsi di specializzazione, i titoli di studio, le disquisizioni dotte
tanto più si è preparati a far missione.
Ciò non vale solo per i missionari che devono
entrare in altre culture, ma riguarda ogni tipo di servizio. Parole
orrende come “managerialità” e “professionalità” guardano
dall’alto in basso la pigra teoria del fare alla buona, del mettersi
d’accordo e rabberciare le cose in qualche modo. Si punta tutto sulla
preparazione tecnica e si fatica a conciliare il rispetto e
l’attenzione alla persona con la produttività, l’amore che cerca di
adattarsi e la preparazione che richiede rigore e non fa sconti.
Senza voler semplificare a tutti i costi, bisogna
dire che il dilemma è falso, male impostato.
Il credente che si pone a servizio degli altri in
forza della propria fede, si muove prima di tutto per amore, e l’amore
guarda la persona, si pone al suo servizio. Ma che amore è quello che
non cerca di dare il meglio? Come si può dire di amare se non ci si
interessa di capire, di dare spazio all’altro con la sua storia e le
sue esigenze, di trovare vie per farsi capire e per crescere insieme?
Torno a sr. Binita, quella suora infermiera molto
brava con la povera gente, e consapevole di avere una mamma analfabeta
ma più sapiente di Salomone e della Regina di Saba.
Una sera dovetti bussare alla porta della sua
comunità ad ora molto tarda, per un’urgenza. Mi fecero entrare, le
suore sedevano attorno al tavolo dove avevano cenato, e vidi con stupore
Binita intenta a consultare libri di medicina, a lume di lanterna. La
sua abilità di infermiera era così spontanea e convinta, così
appassionata per ogni ammalato, che non mi era mai passato per la testa
il pensiero che dovesse studiare, cercare, aggiornarsi. Invece lo
faceva, eccome!
Come un fotogramma un po’ sbiadito ma a cui sono
affezionato, m’è rimasta nella mente l’immagine di quella stanza
fiocamente illuminata, dei libri in penombra con la suora che li
leggeva, ed è per me l’icona della “professionalità” del
cristiano. Non un partire dalla scienza per riversarla sugli altri come
rimedio automatico ai loro mali (o alla loro ignoranza, o alla loro
impreparazione, ecc.) ma un partire dalla passione per l’altro, dalla
ricerca di ciò che può davvero portare vicino a lui o lei, ad aiutare,
e perciò studiare, prepararsi, acquisire conoscenza (scienza) che non
abbia nulla da invidiare a nessuno. Quella non è scienza che gonfia, ma
scienza umile, come l’arte di cuocere un buon pane, come la mano
attenta del contadino di Barisal quando trapianta le pianticelle di
riso.
Se crediamo questo, allora possiamo tornare a
chiederci come mai il missionario che non parla bene la lingua, che è
arruffone e di poco ingegno sia qualche volta quello più amato, quello
che tocca i cuori - molto più dell’altro, preparato e colto. E’
perché il sesto senso della gente ha percepito che quell’uomo, o
quella donna, danno tutto ciò che sono e che hanno. Il loro stare lì
è l’obolo della vedova. Mentre l’altro, il sapiente, si fida di ciò
che sa.
La loro impreparazione non è frutto di pigrizia,
di scarsa attenzione. Non sono amati perché impreparati, ma perché ce
l’hanno messa tutta.
Un mio confratello ebbe questa strana esperienza:
proprio alla sua prima Messa, al momento dell’omelia ebbe una totale
amnesia. Stette alcuni, aggiaccianti minuti muto davanti a tutti finché
suo padre s’alzò dal primo banco, lo prese per un braccio e lo
ricondusse all’altare dicendogli: “Vai avanti, stupido!”.
Ne restò segnato per sempre. L’omelia per lui
era un incubo. Iniziava il lunedì a leggere e rileggere i testi, teneva
davanti commenti e libri, scriveva e riscriveva con ansia crescente, che
raggiungeva il culmine il sabato sera. Così per tutta la vita.
Si riteneva un pessimo predicatore, ma ancora oggi,
anni dopo la sua morte, la gente ricorda le sue parole. Perché
sapendosi incapace si preparava, cercava parole semplici, esempi e
proverbi, ci soffriva sopra chiedendosi come meglio farsi capire…
Il sapiente gonfio di orgoglio è terribile, ma
peggio ancora è l’ignorante presuntuoso e pigro. Se alla base c’è
un amore umile, di lì nasce l’impegno e il risultato non manca, anche
quando le unità di misura soltanto umane ed efficientiste ci dicono che
invece non c’è o è troppo scarso.
Luogo dello stupore e luogo dell’amore che serve.
Che altro?
Abbiamo anche un orizzonte interiore, o se
preferite una profondità in cui addentrarci. E’ esattamente quello
spazio a cui cerchiamo di sfuggire quando accendiamo automaticamente la
radio appena ci troviamo soli, quando leggiamo qualsiasi cosa ci capiti
a tiro, quando ci troviamo sperduti a causa di un’imprevista
mezz’ora senza nulla da fare.
Servono, per questa esplorazione interiore, libri e
informazioni?
Se vado in libreria e mi guardo attorno direi di
no. Anni fa m’appassionavo, mi veniva voglia di leggere tutto. Adesso
mi viene il capogiro, e quasi sempre faccio una cosa che allora ritenevo
inimmaginabile: esco senza comprare nulla!
Non ne attribuisco la responsabilità alle librerie
o alle case editrici, ma alla mia età. Tuttavia anche l’età può
recare un suo messaggio (non è negativo essere giovani, ma nemmeno
l’esserlo già stati…).
In un mercato pieno di gente non riesco a trovare
un volto amico, tutto passa e sfugge, non si dialoga con una folla
eterogenea.
Cerco letture che mi dicano qualcosa, che mi
facciano pensare senza la pretesa di persuadere, stupire, assordare.
Cerco copertine e titoli che, senza volermi attirare, mi dicano
semplicemente che cosa c’è nel libro (ma ciò non significa che
cerchi solo libri “seri” o ponderosi!).
Ecco perché a volte riprendo un libro già letto,
o lo lascio a lungo e poi mi riaccosto, o vado avanti anche se non
capisco tutto. Se fa “risuonare” qualcosa dentro - fosse pure
un’inquietudine, una domanda neppure tanto chiara - allora diventa
amico, e con un amico si parla volentieri.
Non si parla con la carta, ma con chi c’è
dietro, e con ciò che evoca dentro di me.
E’ il “libro di meditazione”, non
necessariamente di tematica religiosa, il libro che nutre il silenzio di
cui abbiamo tanto bisogno, perché ciò che mi offre non distrae ma
accompagna.
Ne ho pochi, pochissimi di libri così, perché
quando li trovo li regalo. Quando sento il bisogno di parlarne con
altri, di offrirli ad un amico, è il segno che valeva la pena leggerli.
Ecco perché nel mio scaffale ci sono solo libri che non ho letto, o che
non mi sono piaciuti!
Parte di un impegno intellettuale che non sia
intellettualismo ma paziente coltivazione del giardino che il Signore ha
messo in noi e attorno è noi, è anche il comunicare, il condividere.
Le idee, le riflessioni, non si consumano, anzi si
irrobustiscono, si moltiplicano e diventano più belli quando li
condividiamo. Imparare a conversare è come e più dell’imparare una
metodologia di studio.
E imparare a domandare.
Ebbi la fortuna, anni fa, di incontrare un Vescovo
cinese che era stato nelle prigioni comuniste oltre vent’anni, dodici
dei quali vissuti in isolamento. Era ormai anziano, ma aiutava ad
amministrare le cresime, e un giorno pranzammo accanto proprio dopo una
lunga liturgia. Ero emozionato, e volevo chiedergli tante cose sulla
Cina, sulla sua esperienza.
Appena presentati, fu lui a portarmi sui discorsi
che facevo volentieri perché mi riguardavano da vicino, e allo stesso
tempo gli interessavano. Parlai dell’Europa, dei giovani, della
secolarizzazione, della chiesa in Italia, delle vocazioni, incoraggiato
dalle sue domande e dai suoi occhi vivi pieni di attenzione. Senza
accorgermi, non ebbi la possibilità di far domande. “Diavolo d’un
vecchietto! - pensai dopo - ti sei fatto voler bene e stimare senza
dirmi niente; mi hai dato coraggio senza fare esortazioni; mi hai fatto
sentire importante e utile senza dirmelo…”. Era un uomo che aveva
imparato a leggere la vita e le persone.
E l’importanza della formazione continua, la
necessità di stare al passo con la situazione del mondo che cambia, di
approfondire continuamente la teologia, di leggere i documenti pastorali
e le encicliche, l’indispensabile presenza della Chiesa nel mondo
della cultura… mamma mia, forse avrei dovuto scrivere di queste cose.
O avrei dovuto dire che è cultura anche vedere un
buon film.
E soprattutto, esortare ad approfondire
continuamente, nella Lectio divina, la Parola che dev’essere alimento
della nostra vita.
Ma queste cose le sapete già certamente, e allora
vi regalo, in quest’ultima parte dell’articolo, un momento di
silenzio.
Sarà la parte migliore.
1.
Far
Eastern Economic Review, Hong Kong November 9, 2000 pag.38 ss. (torna
al testo)
2.
Lasciatemi aggiungere una domanda: ma sarà vero che gli italiani
leggono poco? Chi ha stabilito “quanto” si “deve” leggere? Io so
soltanto che le statistiche sono sempre molto ambigue, pietrificano
situazioni fluide, eliminano le sfumature, valutano in base a criteri
prestabiliti ma spesso non dichiarati, e fanno il tutto con l’aria di
grande serietà scientifica e di indiscutibile autorevolezza…
(torna
al testo)
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