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Lungo i fiumi di Babilonia
là sedevamo in pianto, ricordandoci di Sion.
Sospesi ai pioppi di quella terra
tenevamo le nostre cetre.
Sì, là ci chiesero parole di canto quelli
che ci avevano deportati,
canzoni di giubilo quelli che ci avevano oppressi:
“Cantateci i canti di Sion”.
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
Così racconta e lamenta il
salmo 136.
Il poeta Byron – nei
versi riportati in quarta di copertina - cambia lo strumento; anziché di
cetre, egli parla di arpe. Jacques Maritain scriveva:
Io voglio cantar per te,
Signore,
canti d’amore canti di dolore
al suono dell’arpa.
Ma tant’è. Con arpe o
con cetre, con cembali sonanti o altro strumento (ma spesso la Bibbia parla di
arpe e di cetre) appese ai pioppi, quello era il tempo dell’esilio, della
lontananza angosciante dalla patria, dal tempio, nell’attesa spasmodica del
ritorno. Il regno di Israele e di Giuda erano stati spappolati e israeliti e
giudei erano stati deportati in Assiria o Babilonia. Un esilio durato 70 anni,
ripetutosi poi con un nuovo esodo. I profeti - soprattutto Isaia e Geremia -
aiutarono il popolo a prendere coscienza che quella situazione ingrata era
frutto della propria infedeltà
all’alleanza. Ritornarono, infatti, alla loro terra, e sotto la spinta delle
invettive o dei richiami, delle
denuncie o degli annunci
premonitori dei profeti inviati da Dio, ripresero a vivere in fedeltà la
sudditanza fatta d’amore e timore al Dio dell’alleanza.
La sensazione
dell’esilio, dell’essere in attesa, del vivere nella provvisorietà, nella
incompiutezza, non è estranea a nessun uomo e a nessuna donna. Forse per
quella passione d’infinito che gli brucia dentro. Per quell’arsura di cui
parla il salmo 62: “Dio, Dio mio, te cerco fin dall’aurora; di te ha sete
l’anima mia; verso di te anela la mia carne, come una terra deserta, arida,
senz’acqua”.
Ognuno vive le sue crisi
esistenziali che lo spingono alla ricerca, alla domanda, che gli pongono
interrogativi a volte lancinanti o che lo caricano di luminosa speranza, di
sicure aspettative. Ben lo sanno i mistici! Ma non è difficile né raro, nei
nostri ambienti, imbattersi con sorelle anziane che vivono nella letizia il
tempo dell’attesa e del raccolto ultimo, della vendemmia di una stagione
feconda, anche se faticosa e dura. San Bernardo parlava di “questo nostro
pellegrinaggio di esuli”.
Anche per Maria e
Giuseppe dalla terra d’esilio dove li aveva ‘confinati’ Colui che su di
essi aveva il supremo dominio - secondo Luca - è giunta l’ora del ritorno
perché è morto “chi vuol uccidere il bambino” e fanno ritorno a casa,
alla sinagoga, alle amicizie, ai parenti, alla loro terra. E’ quel ‘poi’,
è quel ‘ritorno’, che normalmente si fa “glorificando e lodando Dio”
come facevano i pastori tornando ai loro pascoli dopo essere stati alla grotta
di Betlemme.
Gli apostoli, prima della
risurrezione, scrive Marco, “erano in lutto e in pianto”. Non credettero
manco a Maria di Magdala, la donna - sempre secondo Marco - da cui erano stati
cacciati sette demoni. Ma quando vedono il Risorto e non possono più non
credere, la loro prospettiva di vita cambia. Ascoltano e accolgono l’invito
ad andare e annunciare.
Non è qui il momento né
il luogo per parlare dei molti personaggi, di grande pensiero o di forte
sentire, costretti all’esilio per motivi politici o tirannici, pur di
salvare la libertà di espressione nei vari aspetti. Morti i tiranni, mutate
le situazioni sociali o politiche, religiose o culturali, l’esiliato
normalmente torna… e si porta la “cetra” o l’“arpa”, - simboliche
- e riprende a cantare…
La vita consacrata stessa
sta vivendo da anni il suo tempo di esilio - almeno nei Paesi ad alto sviluppo
economico - in sintesi il suo tempo di ricerca, di interrogativi; che forse
tarderanno ad avere risposte precise; perché nessuno sembra averle in questo
momento. Si fanno tentativi; qua e là sorgono proposte ed esperienze nuove;
vengono poste suggestioni anche allettanti. Certo è che si parla – e si
scrive – dell’urgenza di relazionalità e di comunione vera all’interno
delle comunità, del bisogno di abitare e gestire il cambiamento, di vivere
una spiritualità cristologica autentica e incarnata, perché il solo
frenetico attivismo in cui sembra di essere caduti non salva nessuno: né le
persone, né la missione, né gli Istituti. Ma il tutto dovrà superare la
critica e il vaglio della storia.
In questo numero - come già
nei suoi 50 anni di storia - la rivista offre con semplicità la sua proposta
su vari fronti: della spiritualità e della psicologia, della vita
comunitaria, e apostolica. Siamo coscienti che alcuni articoli sono
particolarmente impegnativi. Si tratta di “leggere e soffermarsi”. Leggere
e, magari, ri-leggere. La lettura precipitosa, affrettata, pur di arrivare
alla fine, non serve. Sarebbe quel poco di rugiada posata sull’erba o quel
poco di nebbia che un po’ di sole o un po’ di vento facilmente disperdono.
“La molta religiosità,
scrive Benoît Standaert, animata dalle migliori intenzioni e da una grande
generosità, può indurre in errore molte persone; molti sacrifici eroici ma
privi di intelligenza possono far sprofondare nell’abisso”. Lo stesso
autore afferma che “l’arte della lettura si trova oggi in grave crisi in
mezzo ai tanti nuovi media”. Leggere, infatti, e un’arte, una pratica ben
precisa. Sant’Agostino, giunto a Milano in cerca di incontrare il grande
Ambrogio scrive di lui: “Non mi era possibile interrogarlo su ciò che
volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva
nell’angustia, si frapponevano fra me e le sue orecchie, tra me e la sua
bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a
ristorare il corpo con l’alimento indispensabile, o l’anima con la
lettura. Nel leggere i suoi occhi correvano sulle pagine e il cuore ne
penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano... Sovente lo
vedemmo leggere tacito, e mai diversamente. Ci sedevamo in un lungo silenzio:
e chi mai avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa?”.
Sappiamo che in molte
comunità o Istituti la rivista è valorizzata per la lettura spirituale, per
l’orientamento formativo; che superiore la utilizzano per l’animazione
comunitaria; alcuni laici la valorizzano per l’insegnamento nella scuola di
religione e ciò ci sorregge.
E come succede da quasi 10
anni, anche stavolta il numero 2 è accompagnato da un supplemento. Il titolo
è: I volti della donna consacrata. E’ un omaggio, un semplice gesto
d’amore e di gratitudine per chi ci segue con fedeltà. Era giusto che, nata
per la formazione e l’animazione della vita religiosa apostolica femminile,
riprendesse in sintesi i temi che la contraddistinguono: come vogliamo che sia
la suora del terzo millennio? Sono alcune suggestioni. Non tutto è detto. Ci
auguriamo - almeno questo - di viverle in pienezza. Bello sarebbe se ogni
suora l’avesse a… portata di mano e di occhi per una consultazione, per
una rilettura non superficiale, per una maggiore consapevolezza della propria
identità e della propria missione.
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