n. 5 maggio 2001

 

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Davanti ai volti odierni della povertà
di Zelia Pani
 

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Alcune cifre

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L’ultimo Rapporto annuale delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano è spietato, con la sua precisione: nel 1999 le 200 (duecento) persone più ricche del mondo hanno contato nelle proprie casse complessivi mille miliardi di dollari; mentre l’insieme dei redditi dei 582 milioni di persone che vivono nei 43 paesi tra i più poveri del mondo ha raggiunto la somma di appena 146 miliardi di dollari: ciò significa che un miliardo e 200.000 persone sono costrette a vivere con meno di un dollaro al giorno. E il presidente della Banca Mondiale - che nel 1998 riunì a Londra gli esponenti di diverse religioni diffuse sul pianeta per discutere insieme sulla crescente povertà mondiale - segnalava in concreto che 2 miliardi di persone non hanno elettricità, 1,5 miliardi non hanno acqua, 115 milioni di bambini non hanno scuola e sono esposti a tutto il corollario di conseguenze di cui la cronaca quotidiana ci informa. E ancora, a precisare ancor meglio a proposito dei bambini, il Rapporto UNICEF fa sapere che ne muoiono ogni giorno oltre 30.000, un bimbo ogni 3 secondi: naturalmente muoiono soprattutto di fame o di malattie prodotte dalla denutrizione.

     Sono cifre che ci lasciano senza parole. Quando non rischiano anzi di non colpirci affatto, come dice commentandole Enzo Bianchi(1) che riporta l’osservazione del filosofo Umberto Galimberti: «Il “troppo grande” ci lascia indifferenti». Sono tanto colossali, quelle cifre, che non ci aiutano a dare un nome a tutte quelle povertà, né a localizzarle in modo che ci provochino da qualche parte a guardarle sui volti delle persone che le soffrono e di quelle che ne muoiono

      E’ più facile localizzare i duecento più ricchi del mondo: molti dei  loro nomi spiccano più o meno altisonanti, con le loro storie “inimitabili”, e i loro volti sorridono da tutti i mass-media che ne raccontano ogni giorno fasti e nefasti; piccola cifra, duecento persone, i cui mille miliardi di dollari divisi e distribuiti ai poveri di quell’altro grande numero...: un sogno impossibile, non realizzabile neppure con gli sbandierati vantaggi della globalizzazione economica; la quale, al contrario, scava più profondo l’abisso tra ricchi e poveri.

     Eppure, si può rimanere “indifferenti” come ci lascia il “troppo grande”?

     La vita consacrata nella Chiesa e noi religiose in particolare rispondiamo no. Piuttosto, ci può frenare un senso di reale inadeguatezza, ci può disorientare la difficoltà di formulare criteri di scelte operative per risposte a urgenze nuove come a situazioni di indigenza inveterata e dimenticata, che non fanno più notizia ma alle quali è dovere imprescindibile rispondere, per umana solidarietà e per l’onore del Vangelo di Cristo.

Frequentare i volti della povertà

     In un mondo «costituito di uomini e donne poveri e oppressi», il vescovo martire Oscar Arnulfo Romero aveva trovato addirittura «la chiave per comprendere la fede cristiana» e l’agire di una Chiesa incarnata in un mondo «senza volto umano, che pure è l’attuale sacramento del servo sofferente di JHWH»: la sua concreta chiesa di vent’anni fa in Salvador, dove peraltro da allora, come in tante altre parti del mondo più povero, poco è cambiato.

     «Il fatto di constatare queste realtà e di lasciarci toccare da esse, lungi dall’allontanarci dalla nostra fede, ci ha rimandato al mondo dei poveri come al nostro vero luogo. In esso abbiamo incontrato i volti concreti dei poveri di cui Puebla ci parla (cf.nn.31-39). Lì abbiamo incontrato i contadini senza terra e senza lavoro stabile, senz’acqua né luce nelle loro povere abitazioni, senza assistenza sanitaria quando le madri partoriscono, e senza scuole quando i bambini iniziano a crescere. Lì ci siamo incontrati con gli operai, che sono senza diritti sindacali e che vengono scacciati dalle fabbriche non appena provino solo a reclamarli, che sono alla mercé dei freddi calcoli dell’economia. Lì ci siamo incontrati con le madri e le spose dei desaparecidos e dei prigionieri politici. Lì ci siamo incontrati con gli abitanti dei tuguri, la cui miseria supera ogni immaginazione e che sperimentano l’insulto permanente rappresentato dalle dimore vicine»(2).

     Uscire in tal modo da una considerazione della povertà e dalla “scelta dei poveri” in senso generico, per entrare direttamente nelle specifiche povertà che segnano spesso per sempre la vita di innumerevoli persone umane create a immagine del Creatore di tutti: nella storia della vita consacrata questa è operazione antichissima e nota a chiunque conosca le grandi e piccole istituzioni sorte in occidente per l’assistenza ai malati più indigenti, per l’accoglienza e la cura di bimbi abbandonati, per l’alfabetizzazione, l’istruzione e l’avviamento al lavoro di ragazzi e bambine in pericolo di finire allo sbando, per l’educazione delle giovani e l’elevazione culturale e spirituale delle lavoratrici, per il conforto a carcerati/e, per l’accompagnamento degli emigranti e delle loro famiglie sulle rotte dei mari e nella pena di ogni giorno.

     Sono le opere nelle quali sono stati espressi miriadi di carismi personali e di congregazioni religiose, benemerite per secoli in ordine a impegni volontari e di vasta portata delle loro componenti, con la collaborazione diretta e il contributo economico di migliaia di persone motivate al soccorso dei più poveri.

     Storia reale, storia di cui la vita religiosa apostolica può anche gloriarsi, quella delle opere e dell’immenso bene da esse compiuto per le mani di religiosi e religiose che vi si sono impegnati non di rado fino all’eroismo, anticipando di gran lunga l’intervento degli stati sociali e aprendo proprio a questi, sui vasti campi della povertà, strade da nessuno prima percorse. Questa, oggi, è storia di opere costrette a venir meno, nella misura grandiosa e nelle forme che hanno avuto in passato: sia perché gli stati, attrezzati ormai di strutture, mezzi e metodi avanzati per l’assistenza, non hanno più bisogno se non in via eccezionale e transitoria delle loro prestazioni; sia perché, in quanto coincidenti con le comunità religiose votate a un servizio necessariamente attento più ai compiti che alle persone, perdono all’interno di forza motivante e all’esterno di mordente testimoniale nonché di fascino che attragga alla vita. consacrata. Da tempo se ne constata, quale binomio entrato fortemente in crisi, un “arrivo al capolinea” (3), da dove potrà ripartire soltanto se ridimensionato nella struttura e forse anche nella pretesa di incidere molto sulla storia, animato di spirito nuovo, al ritmo del respiro mondiale contemporaneo e con lo sguardo ai volti delle persone concrete con i loro nomi e le loro storie di vita.

     E se si trovasse proprio nella povertà, il punto di avvio che si sta cercando per un “nuovo ritorno"?

Raccogliendo una provocazione

     Il cammino del rinnovamento postconciliare percorso ci ha portato da tempo a concludere che la povertà di cui abbiamo fatto voto a Dio non può più coincidere con la semplice dipendenza - benché, per la verità, questa non abbia mai escluso la responsabilità personale nel vivere questo voto - e che da parte delle congregazioni religiose non si è vista una reale capacità di esprimere, secondo la lezione del Concilio, una credibile «testimonianza collettiva di povertà» (PC 13); ci ha portato anzi a intuire che i due livelli di testimonianza di povertà, individuale e comunitaria, di cui al PC 13, non che rimanere distinti debbano essere o diventare uno solo. 

Non sembrerà troppo utopistico, pertanto, ipotizzare proprio nel segno della povertà quella svolta innovativa da tutti avvertita necessaria alla vita religiosa; la quale, tra l’altro, con il «continuo ritorno alle fonti di ogni forma di vita cristiana" (PC 2), e quindi ispirandosi in primo luogo ai Vangeli, dovendo darsi modelli concreti adeguati ai segni dei tempi attuali dovrà forse riferirsi a esperienze storiche meno lontane nel tempo di quella della “prima comunità cristiana.

      A ragion veduta un esperto come p.Luigi Guccini scrive che «la vita religiosa apostolica ha bisogno di ritrovare le sue radici monastiche» (4) come luogo di ispirazione e di attuazione di un rinnovamento che ne esprima in modo più leggibile l’identità; quella identità  che in altri tempi, col concorso di circostanze storiche che ne favorivano l’affermazione, ha pure affascinato tanti e tante giovani. Una vera “provocazione”, come egli la chiama, che è come un ulteriore invito a riflettere sull’attuale fase discendente della parabola percorsa dai “nuovi istituti” religiosi, sorti nell’Ottocento con un coraggio che oggi donne non meno motivate e più preparate delle fondatrici di allora non trovano per intraprendere la cosiddetta rifondazione.

     Certo non si dice - come fa rilevare p. Guccini, che porta gli esempi eloquenti della visione francescana e di quella ignaziana - di radici monastiche in relazione a  ordinamenti strutturali non consoni alla vita religiosa apostolica (che tuttavia, solo per poter esistere, specialmente sul versante femminile ha dovuto adottarli  per tanto tempo, e tuttora impropriamente ne è segnata)  ma di quella  «identità profonda» nella quale le due forme, monastica e no, si incontrano e si riconoscono in se stesse e reciprocamente.

      Ritrovare le radici monastiche della vita religiosa potrebbe portare a svariati esiti, tra cui quello non del tutto fantasioso dell’affermazione, un bel giorno, di un solo modello che potrebbe dirsi monastico-aperto, senza più differenze discriminanti tra quello femminile e quello maschile, non appiattito su una omogeneità amorfa bensì fervido di vitalità “missionaria” e così feconda da elevare il tono spirituale e culturale della vita religiosa nel suo insieme; e al servizio, con modalità ispirate a carismi propri e in fedeltà all’identità fondamentale, delle povertà materiali e spirituali raggiungibili nei “primi mondi” e negli “ultimi” delle classiche missioni.

     Esperienze anche consolidate di un “nuovo monachesimo” già esistono, con diverse impostazioni (5); e non sembrano impossibili comunità che sulle antiche radici monastiche (primato della Parola, preghiera liturgica e contemplazione personale in tempi distesi, relazioni primarie autentiche, lavoro finalizzato al semplice sostentamento senza opere proprie né edifici che incutano soggezione) impostino una vita apostolica essenzialmente povera e come tale immediatamente riconoscibile dai poveri; comunità religiose che, avendo riscoperto nel mondo dei poveri, secondo la citata espressione del martire Romero, il proprio vero luogo ne assumono in qualche modo lo status di veri ultimi: servendoli alla pari e, più che “facendosi come loro”, portandoli con naturalezza a “farsi come noi”, che qualche “bene” più di loro inevitabilmente avremo sempre. Poiché è vero che chiunque anche di estrazione sociale modesta abbia risposto a una chiamata alla vita religiosa qualcosa non solo ha “venduto” o “lasciato”, evangelicamente, ma qualcosa ha pure “portato”. Nessuno infatti può lasciare a casa la propria intelligenza, la propria cultura ed educazione, la propria esperienza di vita: in altre parole, i talenti personali, i “doni di natura e di grazia” che pure in campo femminile abbiamo imparato ormai ad apprezzare e a potenziare anche in funzione di una più efficace missione presso i fratelli.

Curare il nostro volto povero

     Che fare nel frattempo? Che fare mentre, come ci fa osservare ancora oggi la parola di Gesù, i poveri li abbiamo sempre con noi, visibilizzazione di lui che si è reso invisibile tornando risuscitato al Padre?

     Non ci potrà essere una rivoluzione, questo è certo: troppa e troppo pesante eredità del passato sarà giocoforza portare forse a lungo da parte di tante istituzioni religiose nel loro cammino storico. Eredità del passato la cui immagine offusca, senza che alcuno lo voglia, quella testimonianza di povertà che anche come corpo sociale nella Chiesa si vorrebbe dare e si cerca di dare. Ma già ci sono congregazioni che si alleggeriscono gradualmente di pesi anacronistici e di orpelli inutili, escludono spese non giustificate dalla prioritaria evangelizzazione dei poveri oppure attuano scelte come quelle, per fare almeno un esempio, delle suore Orsoline di M.V.Immacolata che alla luce di un «sapiente discernimento» hanno deciso di «evitare la costruzione di grandi edifici e continuare gli sforzi per liberarsi da strutture onerose» (6).

     Non verrà meno, intanto, la cura individuale di quel  nostro volto povero che effettivamente contrasta - e molti in verità lo riconoscono - col volto di una società circostante opulenta, proiettata verso l’effimero più costoso e alienante, provocatorio specialmente presso i giovani.

     Sempre potrà essere luogo di contestazione all’eccesso insensato (nella sola Italia durante le ultime feste dette purtroppo natalizie sono state spese per cenoni, viaggi e regali 11.000 miliardi di lire), all’ostentazione di un lusso che offende tante famiglie senza un reddito dignitoso o alle prese con salari da fame, all’oblio dei poveri che dappertutto nel mondo muoiono di stenti o sono usati per un briciolo di pane a fini di ignobili piaceri, una vita religiosa che quale espressione di Chiesa abbia il coraggio di rispondere - citiamo ancora Enzo Bianchi - all’«imperativo inderogabile per le chiese: sottoporre sempre al vaglio critico dell’Evangelo la propria situazione finanziaria, l’uso dei beni e la preoccupazione per il denaro che le abita»(7); una vita religiosa che nella sua base più semplice a contatto col popolo persevera nella scelta dell’essenziale, vivendo con serenità uno stile di vita sobrio, alieno dalle futilità del superfluo e dall’ossequio ai poteri che umiliano i poveri e di cui all’occorrenza denuncia i soprusi; e nello stesso tempo coglie nel silenzio di tanti sfortunati anche la povertà di parola e di capacità di usare l’intelligenza, la povertà di cultura e di visibilità nella storia, di essere e di contare presso qualcuno; promuove l’amore fraterno, educa all’onesto lavoro, forma alla fiducia in Dio Padre di tutti e sensibilizza al diritto-dovere per ognuno dell’equità e della giustizia.

     Sono alcuni degli atteggiamenti e azioni che possono dare un’immagine anche collettiva di vita povera con i poveri, ma che nascono in realtà dal cuore e dall’operosità di singole persone che nel mondo dei poveri hanno “trovato il proprio vero luogo” e in esso avvertono sprizzare scintille di inedita creatività. Nomi e volti di questa “povertà creativa” delle religiose d’oggi vengono in mente numerosi: il nome

- di sr Nancy Pereira, che ha inventato in India un sistema di piccoli prestiti ai poveri, rendendoli consapevoli della loro originaria dignità e restituendo il sorriso alle loro famiglie;

- di sr Marta Citterio, che in Kenya mette in piedi una cooperativa artigianale di donne già prostitute o ragazze madri povere rifiutate dalla parentela;

- di sr Laura Girotto che riscatta ragazzine e bambini dal “dover” vendere per fame i loro piccoli corpi fra le truppe di passaggio per Adua, in Etiopia;

- di sr Cecilia Pepe, che in Italia ha fondato, e dirige aiutata da specialisti e volontari, una Casa per bambini e ragazze madri, un Nido per neonati senza famiglia e un Centro per bimbi e famiglie in difficoltà varie, e ha ricevuto di recente - come pure la citata sr Nancy - il premio “Marisa Bellisario” per la sua intraprendenza incontro ai dimenticati e oppressi d’oggi che hanno in prevalenza volti di bambini e di donne (8).

     Suore di frontiera, come tante altre che sarebbe troppo lungo citare; ma con alle spalle istituti che pur alle prese con i problemi del calo vocazionale ne sostengono gli sforzi e la perseveranza. Fanno parte di quella base della vita religiosa che pur vedendosi indebolire non si arrende, sapendosi inadeguata non smette di fare ciò che ancora è in grado di fare, e se non può mettere in campo forze fresche mette in campo idee, moltiplicabili e realizzabili.

     Ma guardare più lontano e più in profondità, mentre maturano progetti di forme molto semplici e di immediata presa sulle povertà, rimane oggi nella vita religiosa compito indilazionabile di tutti, alla base come al vertice.

 

1. E.BIANCHI, editoriale del n.42 di Parola Spirito e Vita sul tema Denaro, ricchezza, uso dei beni, Bologna luglio-dicembre 2000, p.5.

2. Testo del vescovo O.A.ROMERO tratto da La voz de los sin voz, riportato in J.I.GONZALEZ FAUS, Vicari di Cristo, Bologna 1995, p.594.

3. Cf G.PEGORARO, Comunità e opere: binomio al capolinea? in Dove va la vita consacrata, supplemento a Testimoni 4/1996, pp.33-42. Il tema è ripreso su varie prospettive in L. GUCCINI(a cura), Una comunità per domani, Bologna 2000.

4. L.GUCCINI, Ritornare ai fondamenti, in Testimoni 3/15.2.2001, pp.24-25.

5. Sulle nuove forme di vita monastica si attende la pubblicazione di un libro del salesiano M. TORCIVIA, che ha commentato la situazione su Testimoni 8/30.4.2000, Verso un nuovo monachesimo, pp.23-29.

6. Z.P., Ravvivare il senso del carisma, in Testimoni 1/15.1.2001, p.15.

7. E.BIANCHI, edit.cit., p.8.

8.Sull’attuale volto femminile della povertà nel mondo, cf G.P.SALVINI, Violenze e discriminazioni sulle donne in La Civiltà Cattolica, quad.3613/16.1.2001, pp.79-86.

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