Una
inquietudine mai placata, dimora di fango, consueta per il nostro tempo,
scopre nella cenere il suo fondamento. Proteso in un andare gravido di
barcollanti certezze, sazio di dubbi, a stento l’uomo si espone, come
argilla, alla morsura del silenzio, alle strettoie dell’attesa per
scoprire in sé la stabilità della terracotta, della maturità nello
Spirito. L’ansia che gonfia il grembo di vento1
è il sintomo più evidente di questo malessere interiore a cui pochi
sanno dare un nome. Rumori, luci, agitazione, smania, sofferenze come
scintille planano in alto, mentre i nostri sensi si ritrovano tutti in
prossimità degli scogli della frenesia della vita quotidiana. Chi non
riesce a star dietro al suo lazzo e migrando da un sentire all’altro
lega o separa deboli pensieri viene da essa imperiosamente respinto. È
necessario trovare il coraggio di smentire una realtà fatta di
apparenza, di vuoto, di barche di giunchi che non tengono la veemenza
dei flutti. Urge recuperare tutto ciò che fa dell’uomo il signore del
tempo e non lo schiavo di mode, di costumi, di scontate tradizioni,
paglia secca spazzata via in un frangente dal vento di novità
esasperate. In questo vortice di turbamento l’uomo ha paura del
silenzio, paura dell’ignoto, paura di fermarsi, paura di sostare. Ha
paura, paura di ciò che non è in grado di dominare, di controllare e di
gestire, come l’attesa e la solitudine. Paura del non conosciuto,
dell’inafferrabile che fascia la mente. Quando avverte qualcosa che lo
sovrasta, cibo di tormento per ogni giorno della sua vita, per non far
crescere l’ansia, insieme a farmaci di tranquillità, si protende alla
ricerca di Qualcuno che sa e può dargli la pace. Si apre allora un varco
sul bivio esistenziale. Può scegliere. Spesso ha inizio una ritualità
esatta, fatta il più delle volte di brevi sgranate preghiere, di
medaglie e immaginette, di candele accese che si sommano agli amuleti;
la Bibbia a portata di mano e i segni della croce scandiscono giudizi di
caligine per tutto ciò che ruota intorno a momenti di panico che
afferrano senza pietà. In tal caso l’ansia, il timore, la paura, sono
fruscio dell’agire giornaliero. Ma… più raramente, se tende l’orecchio,
entra in contatto con il ricordo di Dio.
Mi sono
ricordato di Dio e ho gioito
L’uomo intravede la
propria debolezza, la sperimenta e impara a conoscerla. Sant’Isacco
proclama costui beato2
e aggiunge: «L’uomo che è giunto a conoscere la misura della propria
debolezza, è giunto alla perfezione dell’umiltà»3.
È disposto all’ascolto dello shofar, che per tutti risuona, del
ritorno al dialogo con Dio, del richiamo alla preghiera4,
della memoria Dei.
Nell’arsura di serenità,
approdati ai bacini dell’angoscia, avverte pungente la necessità di
lasciarsi affascinare dall’Assoluto e di concedersi momenti di vita
solitaria per ritrovare l’equilibrio interiore nella quiete, in quella
tranquillità che non è più uno stato d’animo passeggero, bensì un modo
di vivere, uno stato di vita, precisamente è il passare “dentro” il
turbamento, l’agitazione, l’avvilimento, dentro il sentire per entrare
in contatto con la ricerca appassionata di ciò che ci abita, della sola
quiete: la pace in Dio. Risuona allora l’invito a sostare:
«Fermatevi! e sappiate che io sono Dio» (salmo 46).
Sii silenzioso e avrai la
quiete in qualsiasi luogo abiterai
La ricerca della quiete,
dell’esichia è importante per la preghiera. I padri del deserto
raccomandano il silenzio: non labbra chiuse, ma mente a riposo per non
lasciarsi inondare dai rumori, dalle tante voci, dalle eco delle
distrazioni. Mente solitaria, poiché solo nella solitudine è possibile
che il silenzio parli e operi meraviglie. E la solitudine ha un suo
luogo che è figura concreta della custodia di una dimensione interiore:
la cella, la stanza più intima in cui ci si dispone all’incontro con
Dio. Il ricordo di Dio costante e abituale, l’orazione hanno la loro
scaturigine dal sostare assiduo nel luogo del silenzio.
Teresa di Lisieux
racconta: «Da bambina andavo dietro al mio letto, in un cantuccio che
potevo facilmente chiudere con una tenda e là pensavo, cercavo Dio»5.
Il “vacare Deo”, il percepire la sua assenza e il cercarlo nella
preghiera è in sé risposta a una chiamata, ascolto incessante e vigile
che non frappone i diaframmi immobili della durezza di udito, ma schiude
alla voce che ci abita nel profondo: Padre nostro6.
.
L’ascolto invoca
vigilanza e umiltà
Non ogni uomo calmo è
umile, ma ogni uomo umile è calmo.
L’uomo dei nostri tempi invece è agitato, parla fino al logorio delle
parole, non comprende e non tollera l’ascolto, spazio di libertà al
parlare altrui. E il suo non ascolto lo porta a usare il linguaggio
degli astuti che crea conflitti, incomprensioni, ingiustizie, pensieri
tormentosi, drammi profondi, ad accamparsi ai margini del suo cuore
diroccato e della sua mente priva di senno, a rodersi in
quell’implacabile smania che sommerge e perseguita… Appare difficile e
duro raggiungere il silenzio di tutti i pensieri. La custodia del cuore
richiede vigilanza e umiltà. La custodia della mente un duro esercizio.
Vigilanza nel proprio territorio, perché il sentire non sommerga
l’intendere né il volere, e i progetti di argilla siano fondati sulla
roccia.
Umiltà per accogliersi
come creta impastata di spirito, aderente alla terra, ma portata dal
soffio dell’eterno su sentieri di verità. Privato di questo habitus,
l’uomo sorseggia l’iniquità come acqua fresca, non trova più il suo
volto e affannosamente ricerca pozzanghere in cui specchiarsi nella
speranza di ritrovarsi. L’umiltà fa dell’uomo una creatura serena, che
non ha bisogno di mettersi in mostra, una creatura che dà pace in quanto
rappacificata con la vita e con se stessa, una creatura capace di
ascolto e quindi di pronunciare parole sagge, una creatura capace di
pregare.
L’umiltà fa sì che
l’altro circoli tra le mie idee e vi aggiunga le sue, che entrando lasci
spalancata la porta della mia stanza segreta invitandomi a vivere a
cuore aperto, e io mi scopra predato e donato nel dialogo dell’amore,
della preghiera, del raccontarmi e farmi raccontare da Dio, dall’uomo,
nella terra della mia nudità7.
Senza umiltà la
preghiera svilisce in un monologo, precipita nell’abisso delle
incongruenze quotidiane e nella sclerosi della pochezza che siamo. Solo
respirando l’humus del nostro peccato possiamo accostarci a Dio.
Attraverso l’umiltà sperimentiamo la distanza tra noi e Lui, e dopo aver
vagato a tentoni, come ubriachi barcollanti, fino all’alba, iniziamo a
comprendere attraverso un dire semplice l’amore di Dio per l’uomo.
Allora ci accostiamo al Mistero lasciando le nostre solitudini senza
strada, le nostre veglie trascorse in un tormento privo di speranza,
abbacinati dalla notte della presunzione. Ricorda Isacco di Ninive:
«Quando nella preghiera ti metterai davanti a Dio il tuo pensiero
diventi semplice… Dio vedendo i tuoi desideri, la purezza dei tuoi
pensieri che riposano in Lui e non in te, la tua speranza fiduciosa,
farà scendere in te questo potere inscrutabile e tu avrai coscienza di
possederlo. La coscienza di questo potere ha permesso ad alcuni di
affrontare senza paura le fiamme, ad altri di camminare sulle acque con
la certezza di non affondare»8.
Questo potere
straordinario, l’umiltà, è al tempo stesso origine e frutto di
preghiera. Apre a Dio e all’uomo. Apre alla pro-esistenza, all’esserci
per l’altro, ad offrire la speranza di un amore che sappia farsi
presenza. Ciò avviene non solo con coloro che incontriamo e con cui
viviamo, ma con quanti “frequentiamo” spiritualmente nel segreto della
preghiera.
Saltem frequenter in vita
Quante volte la nostra
preghiera è un lasciar sostare lo sguardo sul male del mondo, dimentichi
della croce di Cristo: ci si consegna alla disperazione. Solo il non
senso possiamo incontrare se, accovacciati alla sponda del male, come
spettatori sprovveduti, spezziamo le reti della delusione nella pesca di
una beneficenza spicciola. Dalla sponda del male non giunge altra
risposta che pianto e lamento. La lontananza da Dio, la ribellione
dell’intelligenza ostinata dell’uomo, la rivendicazione d’autonomia da
lui, hanno solcato di male la storia degli uomini che dalle profondità
di un sentire trasceso si fa «voce che grida all’uomo fino al suo
ultimo respiro: oggi convèrtiti»9.
Si ha la presunzione di
poter pregare per il male che ci affligge, ci schiaccia, ci divora,
senza considerare la croce di Cristo, provvisti solo del nostro dolore.
Se impariamo a pregare davanti al Crocifisso intravediamo l’amore di Dio
per l’uomo, Cristo diventa la nostra preghiera, è il cuore della
preghiera.
Impariamo a ringraziare
per ogni cosa10:
per il tribolare e il patire, per tutto ciò che ci accade e che accade
alla sorella, al fratello, perché noi dobbiamo entrare nel regno
attraverso molto soffrire11,
confortati dalla fede che ci consente di vedere «le prime luci
del sabato» (Lc 23,54). Memore di quelle parole: «Tuo fratello
risorgerà» (Gv 11,23), l’uomo di ogni tempo potrà costruire
accampamenti di amore nella fatica delle attività più ordinarie, nello
svolgimento dei compiti di ogni giorno, nella santificazione della
ferialità, in quella preghiera dell’oggi e dell’attesa che non ha più
parole.
Oggi, convèrtiti (Eb 4,7)
In un mondo fatto di
ombre e di silenzio, in cui le voci – una dietro l’altra – terminano la
loro corsa affannosa, in quel mondo interiore che assale, carpisce e
insidiosamente intrappola il pensiero in un sentire mostruoso, la
bellezza dell’integrità umana non può che narrare l’invito cocente della
liberazione dai ceppi di sé, per ripercorrere il sentiero
dell’allontanamento e tornare alla fonte. Oggi convèrtiti. La
metanoia è dono di Dio, origine e frutto delle opere della fede, prima
fra tutte la preghiera.
A volte il dolore lascia
segni indimenticabili che solo la frequentazione assidua della preghiera
può sanare. Tornare indietro è più facile che andare avanti, perché la
memoria dei fallimenti, delle angosce, delle paure è esperta di
precisione. «Io mi sono schiantato sui tempi di cui ignoro l’ordine,
e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati
da molteplici tumultuosità». Esperienza di un uomo simbolo,
Agostino, che ha letto il segreto di Dio sugli scogli di una vita che si
è scoperta preghiera, sui sentieri della sua interiorità, dopo essersi
disperso in una ricerca estranea al suo essere. È l’esperienza dell’uomo
di tutti i tempi. Incredibile quest’uomo che non si finisce mai di
scoprire! Mistero di pienezza e fragilità, parabola di un cammino che lo
porta via da se stesso alla scoperta del suo significato. Vive, ma non
può definire la sua vita, se non scrivendo pagine di storia, pagine
sacre o pagine maledette, pagine che strappa e pagine che ricostruisce.
Il percorso
dell’esistenza, questo ricucire oggi ciò che sembra essersi
lacerato per sempre è l’avventura meravigliosa della preghiera.
Restituire l’uomo a se stesso, quale compito più alto? Restituirlo alla
bellezza, al bene, a ciò che è vero e non tramonta. È un cammino di
ricerca in cui l’uomo chiede di non andare solo per non smarrirsi
ancora, un cammino in cui l’uomo si fida di un altro uomo, fragile come
lui in quanto figlio dell’uomo, Salvatore per lui in quanto Figlio di
Dio: un uomo che può indicargli la strada del ritorno. Anche questo
esperire è preghiera. L’orante guarda, osserva, acquisisce la capacità
di vedere. È la preghiera a trasformare lo sguardo, ad aprire la
coscienza alla precarietà della vita, alla pienezza della comunione con
i viventi e Dio. Pensiero purificato, occhio limpido, mente desta. Colui
che non si sottrae alla conversione, ma persevera nell’orazione, sa
vedere Dio, sa riconoscerlo nelle Scritture, nella mensa della Parola e
del Pane, in ogni cosa. «L’anima purificata dalle passioni e
illuminata dalla contemplazione delle cose ultime dimora in Dio e la sua
preghiera è vera»12.
Chi prega, somiglia a un
esploratore
«Dio ha creato l’uomo
come un “esploratore”
(Qo 1,13) perché cammini verso la verità e nulla lasci di intentato
nonostante il continuo ricatto del dubbio» (FR 21). Chiamato
a valicare i limiti di una conoscenza naturale e sensoriale, attraverso
la fede e le opere della fede13,
l’uomo smarrito, scettico e incredulo può ritrovare la fiducia nella sua
capacità di riflettere14
criticamente sui dati del reale e sul senso della vita: Chi sono? Da
dove vengo? Dove vado? Perché il male? La capacità metafisica dell’uomo
fa di lui un orante per sollevare lo sguardo e volare in alto verso la
verità15.
Motore di questo volo è la preghiera.
Per rispondere
all’inquietante domanda di senso che si annida nel suo vivere, la
persona umana tenta di acquisire una conoscenza profonda e realistica di
sé, delle proprie potenzialità e dei propri limiti, unitamente a una
certa consapevolezza della propria personalità, al fine di orientare al
raggiungimento dei suoi ideali, in modo costruttivo, tutte le energie a
sua disposizione16.
Attraverso la preghiera
assidua, la persona si scopre orientata verso il bene assoluto, questo
tendere «sorge dall’intuizione e dall’esperienza della creaturalità e
dai limiti della persona che anela a trascendersi per giungere alla
pienezza della propria personalità»17.
La preghiera consente di assimilare progressivamente i valori,
liberamente scelti, ordinati a cercare la trascendenza di sé e non la
propria gratificazione, tende naturalmente al suo fine ultimo, Dio, Bene
desiderabile in se stesso, degno di essere amato, cercato, Libertà
infinita in cui ritrova la sua libertà di figlio nel Figlio: «Noi
riceviamo da Lui, che è la norma concreta e perfetta di ogni attività
morale, la libertà di compiere la volontà di Dio e di compiere il nostro
destino di figli liberi del Padre»18.
Libero e fragile, aperto
all’Assoluto ma tentato dal relativo, l’uomo che prega, interiorizzando
i valori eterni in vista di una sempre più ricca risposta personale
all’amore del Signore, assume la responsabilità della sua vita mediante
scelte libere e consapevoli in risposta all’appello che Dio rivolge a
ciascuno. Infatti «Dio non ha voluto creare un museo, ma un universo
vivente e libero che si crea o si discrea. Ciascuno è fonte di un potere
creatore, fonte di un superamento possibile, capace di mancare alla sua
dignità»19.
Orante per vocazione
Chiamata a trascendersi,
la persona umana può disperdere questa spinta vitale profonda in una
orizzontalità di possesso e di appagamento immediato che la ingabbia nel
recinto di risorse scontate e le preclude la possibilità di attingere
forze nuove da potenzialità per lei ignote, ma pur suo patrimonio
costitutivo. Eletto per vocazione a ruminare nel cuore la parola
che come seme che germoglia alla contemplazione è forza invocante lo
Spirito e parola con cui Dio parla alla Sua creatura, l’orante è colui,
o colei, che si applica alla lettura amorosa delle Scritture. L’uomo,
se, «dopo aver purificato il suo cuore, riceve la parola di Dio e
dimora in essa (cfr. 2Gv 9), emette pensieri buoni, così
che i comandamenti di Dio dimorano in lui»20.
È la fecondità della preghiera autentica. Nel segreto di una vita in
abbondanza, scandita dal ringraziamento e dalla domanda, dalla supplica
fino alla contemplazione, la preghiera porta al raggiungimento della
propria completezza, della maturità, all’essere ciò per cui siamo nati:
uomini e donne unificati dal dono dello Spirito.
Un modello di sviluppo
di una vita di preghiera che orienta l’agire può essere quello della
spirale: a ogni fase si assorbono le fasi precedenti e si procede verso
un più alto livello di integrazione. Un modello che esprime continuità
dinamica. È un cammino “intelligente”, tracciato dalla grazia che trova
disponibilità interiore e apre a una vita senza fine, il volto di Dio in
noi, un’acqua viva che mormora il proprio nome proveniente dalle
sorgenti pure dell’essere. Allora potremo rendere visibile il “nostro
uomo”. Lo scriveva Teofilo di Antiochia nel suo dialogo con il pagano
del suo tempo: «Se tu mi dici: “Mostrami il tuo Dio”, io potrei
risponderti: “Mostrami il tuo uomo, e io ti mostrerò il mio Dio”»21.
Il volto dell’uomo ha in sé i tratti del suo creatore. La preghiera
consente di vedere con occhi luminosi il volto di Dio nei
fratelli e nelle sorelle.
Il rapporto in cui ogni
persona trova la pienezza del proprio essere è quello con il divino,
quindi con un tu che non sia alla pari, ma che sia all’origine della sua
esistenza, la fonte da cui riceversi, Colui che egli/ella prega. Non è
l’alterità orizzontale l’ambito in cui la creatura trova il proprio
accesso a Dio, ma quello verticale. Solo dopo aver delineato i
confini della propria autonomia da Colui che lo ha creato, solo
pregando, l’uomo può decifrare, nel volto del fratello e della sorella,
l’immagine di Dio22.
A questo punto possiamo
capire dove sia andato a nascondersi un uomo che non ha messo in opera
il suo essere dominus dei propri pensieri, sentimenti,
esperienze, ma ne è rimasto soggiogato, imbrigliato in una preghiera di
parole, suoni e poco cuore… dove sia andato a ritrovarsi una persona che
si è specchiata nella pozzanghera del possesso e della fuga da un
impegno di giustizia… dove sia andato a cadere un essere umano che
invece di custodire il creato, i suoi fratelli e le sue sorelle, ha
tentato di espropriarli della loro dignità per sentirsi padrone.
Pienezza di vita
Il comandamento
dell’amore, sintesi mirabile della shekinah (presenza) di Dio,
realizzato in Cristo, verbum salutis, sarà sempre l’oggetto
attraente della volontà dell’orante, il fascino irresistibile che lo
porta al telos del suo cammino: la comunione perfetta con Dio,
con i fratelli e con le sorelle. «La natura intelligente della
persona umana può e deve raggiungere la perfezione. Questa, mediante la
sapienza, attrae con dolcezza la mente a cercare e ad amare il vero e il
bene; l’uomo che se ne nutre è condotto attraverso il visibile
all’invisibile» (GS 15 ). Nella follia della croce è racchiuso il
segreto del Mistero lì, dove il paradosso dell’Amore che disarma parla
del Padre di misericordia, e ci conforta nel sentiero della vita per
affidarci a Lui, sapendo che «restiamo nella notte, ma sotto le
stelle».
Al di là di tutti gli
enigmi, le incognite, le tortuosità, le curve della sorte umana nel
mondo, la verità sull’uomo che Dio ha scritto nelle pagine di una storia
straordinaria di salvezza si afferma nell’esperienza di un’umanità
nuova, quella di Cristo, in cui ogni persona è chiamata a partecipare in
pienezza alla vita di Dio (2Pt 1,4). Nell’inquietudine creativa
dell’uomo, generata dalla consapevolezza del limite della temporalità,
pulsa ciò che è più profondamente umano: il desiderio del ritorno alla
Fonte della propria immagine, la nostalgia di ricongiungersi con Colui
da cui ha ricevuto l’impronta dell’essere. Questa nostalgia è preghiera.
La persona umana è
davvero un essere visitato, una dimora aperta all’ospitalità in nome di
quella somiglianza con Dio che la rende capace di custodire
l’autenticità della vita, diventando per le cose, gli eventi, le
persone, icona di preghiera. La biografia dell’uomo è una
crescita fino a quando non si identifica con la parola che Dio ha
pronunciato a suo riguardo, Parola di vita che non tramonta. La persona
umana resta l’ambito privilegiato per l’incontro con l’Essere.
…a mo’ di conclusione
L’esperienza del sonno che porta via ogni
notte ci ricorda che si può andare dalla imperfezione al compimento, per
essere specchi di Lui, non annullando la notte, ma riposando in essa,
non più come homo dormiens, colui che non si interroga mai, che
vive senza interessi, che non vuole vedere né sentire, che non si lascia
toccare, che vive nella paura, superficialmente più che in profondità, e
per paura quantifica preghiere, che negli eventi si confronta restando
in posizione orizzontale, sonnecchiando… bensì come homo vigilans,
il vero orante, colui che è sempre presente a se stesso e agli
altri, al proprio lavoro e servizio, colui che responsabilmente non si
esaurisce nell’immediato, ma sa misurarsi nella lunga e paziente attesa,
colui che esprime il tutto che è in ogni frammento della sua vita, colui
che non ha più paura di sentirsi vulnerabile, perché sa che le ferite
della sua umanità possono trasformarsi in feritoie attraverso le quali
la Vita giunge nel fluire del tempo, una Vita che, potendo realizzare
finalmente il suo Fine, canta all’Amore con il suo «cuore piagato»,
avvolto in una «fiamma che consuma e non dà pena» e pur di
incontrarlo definitivamente è disposta a «rompere la tela». La
sofferenza non è più un peso del disordine, ma un peso ordinato, il
dolce peso del limite, protetto dalla «deliziosa piaga» e sempre
aperto al «dolce incontro»: «L’Amato è le montagne, le valli
solitarie e ricche d’ombra… è come notte calma, molto vicina al sorger
dell’aurora, musica silenziosa, solitudine sonora… Chi potrà sanarmi
questo mio cuor piagato?… è fiamma che consuma e non dà pena! O Amato,
al dolce incontro rompi la tela».