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E’ una meta ardua da conseguire. Se
non ambiziosa. L’epoca che viviamo è caratterizzata dalla proliferazione
dei saperi e delle scienze. E’ dominata dal forte potere della tecnica
che, mentre avvolge il mondo in rete, penetra nel nucleo sorgivo
dell’esistenza. Si sta allontanando da consolidati modi di pensare e,
all’orizzonte, appaiono nuovi paradigmi. Assiste alla caduta di alcuni
stili di vita, che sembravano carichi di significatività e valore, e ne
vede nascere altri: per ora deboli e fragili. Verrebbe da dire: sono
valori quasi da accudire. Pressante, quindi, l’interrogativo: come
abitare gli orizzonti culturali della nostra epoca?
1.
Abitare il mondo
Siamo posti nel mondo. Per chi
crede, dal braccio paterno-materno di Dio in collaborazione con i
genitori. Per chi non ha una visione soprannaturale della vita, dalla
vita stessa, anche con l’aiuto della tecnologia. Non basta esservi
posti. Noi abitiamo il mondo. E lo abitiamo grazie all’apertura
teoretica ma anche tecnica che è nel nostro essere, vivere, sentire e
conoscere. Il rapporto con il mondo è strutturato dalla cultura intesa
come plasmazione della natura; risveglio, potenziamento, sviluppo,
esplicazione delle risorse di cui ciascun essere umano è dotato;
condizione e obiettivo di “fusione degli orizzonti” delle persone, per
usare un’espressione cara a Gadamer. Forse il concetto di cultura è
meglio espresso con il linguaggio, un poco ossimorico, di “fusione
estensiva degli orizzonti”: perché la mia visione del mondo, per quanto
ampia, rimane parziale fino a quando non si apre alla visione degli
altri soggetti che, con il loro apporto, allargano il mio orizzonte
culturale. Qui la cultura non può non ricorrere all’antropologia.
Un’antropologia che non prescinda, però, dalla dualità uomo-donna e
dalla problematicità/ricchezza dell’intersoggettività. Grazie alla
corrente filosofica della fenomenologia di Husserl e, fra altri, agli
studi sull’empatia compiuti dalla Stein, ci siamo educati a tematizzare
l’intersoggettività e, consequenzialmente, ad affermare la necessità di
uscire dal narcisismo dell’ego. Un’antropologia, quindi, fondata
sull’irriducibilità e irrepetibilità dei soggetti in relazione
empatizzante e dialogante fra di loro. Molteplici i significati
di cui il fra è carico. E’ un intervallo che distingue e unisce. Uno
spazio, che apre all’orizzonte della politeia, che in senso
aristotelico è pluralità. Una brevissima parola, che parla di
differenze, di culture, di mondi interrelati e legati
insieme dal destino comune che, per la persona credente, ha quale
riferimento ultimo il Principio trascendente.
2.
Oltre la modernità
Più esattamente: oltre certi
aspetti della modernità del mondo occidentale, quali ad esempio il
potere della razionalità e dei progetti scientifico-tecnici ritenuti e
imposti quasi come assoluti a cui sacrificare «l’arcaica cultura della
terra, le sue tradizioni religiose, i suoi riti familiari, la sua
identità umanistica»1.
L’illusorietà ha connotato
il trionfalismo di una certa razionalità. Di quella per cui incrollabile
era la certezza che il controllo scientifico della natura e gli esiti
delle analisi puramente scientifiche, effettuate in ambito economico e
sociale, avrebbero realmente liberato l’essere umano dalla povertà e dal
bisogno; lo avrebbero emancipato dal potere politico; non avrebbero più
favorito l’"alienazione" nella religione. Liberazione e libertà da ogni
limite. Anche dal Principio trascendente.
Il Novecento, con le sue follie
distruttive attuate con la Shoah, i gulag, le foibe e le fosse comuni,
con i bombardamenti atomici e la continua paura di un generale
annientamento nucleare, i colonialismi e il loro contrario, ha
frantumato l’ottimismo ingenuo e arrogante della razionalità
strumentale. Dopo i totalitarismi dei vari Hitler e Stalin ha compreso
che la ragione ha sì orientato il cammino di liberazione, sviluppo e
benessere dei singoli e dei popoli, ma si è anche tramutata in una
logica di oppressione e di dominio2.
Di questo calice abbiamo bevuto tutto. Fino in fondo. «Fino al disastro
ecologico, al terrorismo estremista, alla tragedia atomica, e solo alla
fine ci siamo svegliati senza ideologie e senza rivoluzioni, fermi su un
baratro al quale siamo incredibilmente scampati»3.
Remo Bodei, sulla modernità,
esprime riflessioni preoccupanti ma meno catastrofiche: «I progetti
prometeici della modernità assomigliano alle fiabe in cui il
protagonista torna a casa dopo una serie di peripezie. Così le idee
moderne della storia progettano il ritorno a una nuova innocenza, la
società senza classi, il regno della libertà eccetera. Secondo i teorici
del postmoderno, bisogna rendersi conto del carattere casuale della
nostra esistenza storica, che non è indirizzata a un fine prestabilito,
è piuttosto l’essere esposti a forze difficilmente controllabili. Un
grande economista, John Maynard Keynes, diceva che l’inevitabile non
accade mai, l’inatteso sempre.
Il ruolo della tecnica ha subito
anch’esso variazioni [...]. Come dice Aristotele, si dà scienza di
quelle cose che non possono essere diversamente da ciò che sono, mentre
il mondo umano della praxis è un mondo in cui le cose possono
essere differenti. Il meccanico (da mechanè, “astuzia”) ha un
sapere pratico: è come Odisseo che inganna la natura potente, ma
stupida, come Polifemo. In età moderna, con Galilei, c’è l’applicazione
dell’esattezza al mondo del pressappoco e la meccanica diventa
“razionale”. Dal momento in cui le macchine da strumenti astuti
diventano applicazioni esatte, comincia il dominio del mondo.
Nel Novecento la tecnica ha avuto
uno sviluppo enorme perché sono state conquistate nuove zone
dell’esistenza, fino – ed è questa la novità – a incidere sulla materia
vivente. Quindi il potere della tecnica è cresciuto ed è cresciuta
contemporaneamente la possibilità di controllarlo. Nel XXI secolo, la
filosofia dovrà riflettere su questo grande cambiamento della tecnica,
che propone problemi non solo conoscitivi, ma anche etici»4.
Nella modernità non tutto è
negativo: in essa pulsa ancor più vivacemente una forza. E’ la forza
critica della ragione. Che è tale «anche in relazione alle
istituzioni di ogni specie, e ciò determina un rapporto critico tra le
società segnate dalla modernità e le loro tradizioni e tutto ciò che in
esse si produce. Noi siamo, diceva il filosofo Eric Weil (1904-1977),
“la tradizione che non è soddisfatta della tradizione”. Questo potere di
critica permanente, indubbiamente costitutivo della civiltà occidentale
da costituirne la matrice sempre feconda, suppone spiriti idonei a
giudicare e a prendere in mano il proprio destino, in particolare
attraverso la democrazia, ma certamente senza abbandonarsi a qualsiasi
fatalità»5.
Paradossalmente, neppure a quella
della ragione totalitaria. Nella postmodernità la razionalità è
considerata un aspetto del reale: non ne è più l’unico metro. Da questa
correzione di visione nasce l’urgenza di rivedere quel particolare ente
che dell’essere, nelle sue dimensioni e profondità, ha la comprensione
ed ha coscienza di sé come uno che c’è, esiste, sta, anche se sull’orlo
del baratro. In modo ineludibile appare all’orizzonte dell’umanità la
questione antropologica.
3. Il
neoumanesimo nell’orizzonte della globalizzazione
Nel postmoderno, di cui già si
vedono elementi di dissoluzione, la storia appare come il «kronos dai
torti pensieri»6
che frantuma e divora i propri figli, quali le metastorie, le metateorie,
la geopolitica ... Spazza via vecchie istituzioni e sradica persone e
popoli dalle proprie culture e dai propri valori.
Con la frantumazione del passato,
anche recente, l’importanza data all’episodicità e alla accettazione
quasi passiva della discontinuità non dovremmo parlare di
globalizzazione. E, invece, le prove sono alla portata di tutti.
Sono sotto gli occhi incantati di chi vede, finalmente, il mondo non più
diviso ma come un grande villaggio, in cui l’uno non è senza l’altro, in
un orizzonte di pariteticità. E sono sotto gli occhi anche di quelle
persone braccate dal timore della riduzione all’uniformità tecnologica e
della relativizzazione delle culture e delle religioni. Peggio ancora,
immobilizzati dagli angoscianti interrogativi: «Non si stanno
sostituendo agli uomini reali, radicati in determinate culture e
religioni, degli uomini virtuali, talmente mobili da non avere più un
ancoraggio e da diventare oggetti inconsapevoli delle manipolazioni più
subdole perché invisibili?»7.
Davvero il nostro futuro sarà post-umano, come tematizza Francis
Fukuyama, il teorico della “fine della storia”?8.
Alla globalizzazione, di impronta
per lo più capitalistica, connotata in modo neoliberistico, si stanno
contrapponendo movimenti umanitari, sociali, religiosi finalizzati alla
costituzione di mondi e società alternativi in cui tempo, denaro e
ambiente hanno valore umanizzante. L’esperienza della frantumazione,
inoltre, «ha favorito la rinascita del bisogno religioso. Essa va di
pari passo con la nostalgia per una verità eternamente valida che
diventi l’ormeggio nel magma del postmoderno, con la ricerca di valori
simbolici, con il bisogno di dare un senso alla domanda sull’autenticità
dell’uomo»9.
3.1. La
persona umana è un tutt’uno. - Nella presentazione di Sofia
Vanni Rovighi, Il Sapere filosofico, chi scrive evidenziava come uno dei
punti di attenzione e riflessione della donna filosofa (1908-1990) sia
sempre stata l’antropologia. «Il discorso antropologico della Vanni
Rovighi prende l’avvio proprio dall’io che “mi è dato immediatamente
come corporeo”. E fa sua l’affermazione del Sartre di L’être et le
néant: “La coscienza del corpo si identifica con l’affettività
originaria” [...]. Gli stati affettivi, quali la gioia e il dolore, il
benessere fisico o la stanchezza, sono miei, connotano il mio
io [...]. Una superficie rettangolare c’è, è presente, ma non
fa parte di me. Tale proposta è avanzata partendo dall’attenzione a
tutto ciò che è umano, compreso alla luce dell’Incarnazione, e dal
profondo umanesimo del pensiero tomista. “L’io che si coglie come
corporeo negli stati affettivi (in certi stati affettivi) è lo stesso io
che, riflettendo, ha coscienza di conoscere, di contemplare la bellezza,
di fare metafisica, ...L’uomo si coglie come uno”»10.
L’enunciazione che la persona è
sostanzialmente un tutt’uno è la risposta che la studiosa ha dato ai
problemi sollevati dalla filosofia moderna occidentale e correlati
all’antropologia. Utilizzando gli esiti di studi rigorosi, soprattutto
la via dell’esperienza con cui afferriamo l’unità della nostra persona,
ha evidenziato che Cartesio con i suoi dualismi - in particolare con il
dualismo corpo-mente - ha sollevato pseudo-problemi che per secoli sono
stati ripresentati11.
Sommessamente ma decisamente con
l’affermazione dell’unità dell’io - ossia: l’io che si afferra come
corporeo negli stati affettivi è lo stesso io che pensa, conosce, vive
della bellezza e della verità, e contempla Dio, - si è contrapposta
anche agli altri dualismi di origine cartesiana, quali ragione e
passione, conoscenza e sensibilità. Per cui, nonostante tutta
l’attenzione anche per il pensiero di Hegel, che aveva dimostrato che
tutto ciò che è reale è razionale e viceversa, la sua tesi era: non
tutto il reale rientra nelle maglie della ragione. E completava la sua
visione della persona con un pensiero di Pascal: «L’ultimo passo della
ragione è quello di riconoscere che vi è un’infinità di cose che la
sorpassano» (Pensées, n. 267). Ad esse si accede attraverso la
porta del cuore.
Anche per Carlo Maria Martini la
persona è un tutto. Ne parla da biblista e pastore in Sul
corpo, Milano 2000, dove con lo stile e il genere letterario
“degli appunti, delle annotazioni, degli aforismi” fa balzare dalle
pagine bibliche la corporeità dell’essere. «Secondo la Sacra Scrittura
l’uomo è considerato come un tutto e il corpo umano è imparentato con la
terra e il cielo, è argilla che vive con il soffio vitale di Dio: “Il
Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue
narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7).
«Il corpo vivente è chiamato in
genere “carne” - in ebraico basar - carne che vive per lo
“spirito” - in ebraico ruah.
«L’uomo dunque è composto di terra
e di soffio vitale, e ambedue sono da Dio, creati dalla sua parola.
Mentre di ogni vivente è scritto che è creato “secondo la sua specie”,
dell’uomo non è detto a quale specie appartenga. E’ infatti di specie
divina, creato a “immagine e somiglianza” di Dio anche nella sua
corporeità (cfr. Gn 1,27).
«Terra e soffio sono
indissolubilmente uniti e insieme in tensione, perché lo spirito ha
bisogno della carne per esprimersi e la carne, il corpo, senza il soffio
vitale non potrebbe trascendersi»12.
In questo frangente culturale
scienziati di varie discipline, siano essi biologi, filosofi, biblisti,
teologi..., pare si stiano dando una mano per salvare l’essere umano.
Basti scorrere le pagine di qualche volume di rassegna bibliografica.
Frequenti sono i titoli riguardanti l’identità personale e la
scienza della mente, la ragione e il sentimento, la
razionalità delle emozioni, i fondamenti neurobiologici delle
emozioni, l’intelligenza emotiva. Il pensiero femminile
dedica attenzione alla vita e titola le produzioni con Il problema
dell’empatia, Vita activa, Vita della mente, Cuori pensanti, Verso un
sapere dell’anima...
3.2. Il pensiero femminile. -
Finalmente ne possiamo parlare. In quest’epoca di crisi della ragione,
delle scienze, in cui «la narrativa della crisi celebra la scomparsa di
una grande tradizione»13,
«ha fatto irruzione il pensiero femminile o pensiero della differenza
sessuale, cioè un sapere nuovo, un parlare diverso, una riflessione in
precario equilibrio tra un dire e un detto, tra parola e silenzio [...].
E’ pensiero pensato da donne che fanno del loro essere donne il punto di
partenza della loro esperienza pratica e teoretica»14.
E, poiché l’esperienza femminile è finalizzata all’armonizzazione di
cuore-pensiero-vita, come insegna E. Stein, pensare con il cuore
è, per lo più, una connotazione della donna. Ma dovrebbe essere anche
dell’uomo. Nessuno dei due dovrebbe farne a meno, perché nel cuore l’io
si sente a casa propria. Abitandolo, «i contenuti assorbiti non
rimangono solo patrimonio della memoria, ma si possono trasformare in
carne e ossa. Possono così diventare fonte di forza, che è dispensatrice
di vita»15.
Cuore, quindi, come grembo di gestazione del pensiero e dei suoi
contenuti con cui plasmare la vita, orientarsi in essa, viverla e
aiutare a viverla. In modo umano. Sì, verrebbe da gridare: giù le mani
da tutto ciò che è umano. E, per non far morire la civiltà occidentale,
ripartiamo dall’umano.
3.3. Il
nuovo paradigma: umano-disumano. - Nel dialogo a più voci
dell’intellighenzia cattolica che legge lo scenario della
globalizzazione, l’incontro-scontro di civiltà, il rapporto con
l’Occidente e le altre culture, la costruzione dell’Europa, Pierpaolo
Donati sostiene: «La cultura occidentale si sta ripensando – o comunque
dovrà farlo - ma non sulla scorta delle categorie che hanno segnato la
modernità nella gestione di Stato e mercato (liberali-laburisti, oppure
destra-sinistra). Ormai ci stiamo allontanando da quelle categorie per
confrontarci con un nuovo paradigma, e cioè umano-disumano; siamo
infatti in presenza di un processo di neoumanesimo, esaltato e reso ogni
giorno più urgente dalla globalizzazione. A partire dal Paese “egemone”,
gli Stati Uniti, si pone infatti il problema di una tecnologia pervasiva
che ha un carattere disumanizzante. Penso all’eugenetica liberale (con
le applicazioni alla procreazione umana e alla biologia) fino alle nuove
reti massmediali e ai rischi di manipolazione e controllo che esse
comportano. Nel colmare questo divide [n. trad. spartiacque]
la cultura cattolica ha un compito primario che non riguarda
direttamente la politica, ma i principi fondamentali della cultura e
dell’identità umana»16.
Alla luce del mistero
dell’Incarnazione che trova compimento in quello della Risurrezione, i
cristiani esaminano gli aspetti del paradigma. Con l’intelligenza
illuminata dalla fede, con il discernimento spirituale supportato e
affinato dall’ascolto e accoglienza della parola di Dio, con la
professionalità da acquisire e perfezionare, oserei dire, con
“ascetismo”, esplorano gli orizzonti dell’umano, ne analizzano le forze,
le potenziano ma non le manipolano, e le difendono da ogni asservimento.
Perché sono consapevoli che ogni attentato alla persona umana è un
attentato all’ “archetipo” di ogni umanità che è l’uomo Gesù Cristo (cfr.
1Tm 2,5).
Giù le mani dalla persona umana,
ripetiamo, perché «molte cose sono mirabili al mondo, ma l’uomo le
supera tutte»17.
E ancora: «L’uomo è il culmine e quasi il compendio dell’universo e la
suprema bellezza dell’intera creazione»18.
Perché questa bellezza si mantenga tale, è necessario che anche
l’ambiente e gli spazi siano salvaguardati, le città vivibili, il lavoro
umanizzato. Ogni tipo di lavoro. Nessuno escluso.
3.4. Le diverse culture delle
società pluraliste - Interrogativi forti solleva questo
sottotitolo: nell’epoca dell’onnipotenza della tecnologia, che mirerebbe
all’uniformità globale, e delle frequenti migrazioni di persone si può
ancora parlare di culture, di religioni? Non si tende piuttosto alla
loro relativizzazione? O già stiamo subendo la cosiddetta “terza
cultura” che fa da supporto al “nuovo paradigma” della bioetica?
Suscita inquietudini la lettura
dell’articolo Per una visione cristiana della ricerca
biomedica di G. Marchesi S.I. Dopo aver fatto sapere che
l’arcivescovo Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio
Consiglio per la Pastorale della Salute, ha titolato New Paradigm.
Roots, Proposals la relazione introduttiva alla IX Assemblea
generale della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), che si è tenuta
in Vaticano il 24-26 febbraio 2003, spiega da quale humus culturale è
alimentato il “nuovo paradigma” della bioetica. Dimostra che è l’esito
«della “nuova cultura” o “terza cultura” che caratterizza la medicina,
soprattutto, nell’ultimo quarantennio [...]. I suoi presupposti sono
basati sullo sviluppo globale e sostenibile, sulla qualità della vita
(salute fisica e psichica, tenendo conto dell’industrializzazione e del
degrado ambientale, dell’inefficacia delle istituzioni,
dell’inquinamento dell’ambiente e della produzione del cibo), sulla
giustizia sociale, sulla necessità di combattere forme di estremismo
religioso e ogni altro genere di estremismo. Lo stesso “nuovo paradigma”
propugna, come sesto punto, una nuova “spiritualità” che trascende ogni
altra spiritualità e religione. Valori, quali la libera impresa, la
sovranità nazionale, le religioni, i dogmi, la legge naturale e i valori
tradizionali dovrebbero essere rigettati, poiché sarebbero irrilevanti e
avrebbero creato un vuoto etico. Conseguentemente andrebbero creati
nuovi valori, gli unici che permetterebbero alla gente di vivere in
pace, in libertà, nella giustizia e nella bellezza, nel mutuo rispetto e
nell’integrità.
Un presupposto di questa “nuova
spiritualità”, il cui traguardo è il benessere dell’individuo
nell’orizzonte della prosperità globale e dello sviluppo sostenibile -
aspetti in sé condivisibili - è quello relativo alla natura: la natura o
terra, chiamata “Gaia”, è “divina e inviolabile”. Si tratta, quindi, di
una spiritualità volta unicamente alla vita terrena, senza Dio; anzi, si
vorrebbe accettare un nuovo “dio”, costituito appunto dalla terra
divinizzata e a cui è assoggettato l’uomo. Ovviamente, secondo tale
visione scientista e materialista, lo stesso essere umano, uomo o donna,
embrione, feto o concepito, è visto, in quanto vivente, alla stregua di
un filo d’erba o di qualunque altro essere vivente, senza nessuna
distinzione di qualità»19.
Sarà pervasiva questa visione della
persona umana e del mondo? Non avverrà che, dopo aver subíto il fascino
delle attuali divinità qui presentate, le culture, con l’apporto delle
religioni purificate da incrostazioni e da idoli, ridisegneranno i loro
orizzonti perché hanno ritrovato la propria vitalità e specificità? Non
torneranno a dialogare fra di loro, anche attraverso la comunicazione
globale eticamente condotta, «nella fondamentale prospettiva
dell’unità del genere umano, dato storico e ontologico
primario, alla luce del quale è possibile cogliere il significato
profondo delle stesse diversità»20,
e dell’essenziale riferimento al Trascendente? Le culture non sono
facilmente “biodegradabili”: poiché non hanno la durata dell’usa e
getta, sfuggono, per lo più, all’uso utilitaristico e consumistico del
mondo degli oggetti, e trasmettono alle generazioni il senso della vita.
A volte in modo intelligente e vivace, a volte in modo appannato o
prossimo allo spegnimento. Ma, chissà perché, con qualche residua tenue
fiammella pronta a ravvivarsi per illuminare.
Un caso emblematico è il dialogo,
in corso in Italia, fra laici e credenti. Se non vado errata, una delle
basi d’incontro è stata posta da Carlo Maria Martini con la “Cattedra
dei non credenti” istituita nel 1987. E’ stata «una provocazione forte
per le coscienze e uno scossone agli schemi culturali consolidati. Non
si sarebbe trattato di “conferenze sulla fede”, né di un dibattito o di
considerazioni apologetiche, bensì di un “esercizio dello spirito”, un
“dialogo interiore”, perché ciascuno di noi “ha in sé un non-credente e
un credente”»21.
La risonanza dell’iniziativa è andata oltre i confini della diocesi di
Milano e dell’Italia, per cui ha detto bene Giovanni Paolo II: «A lungo
ne resterà il ricordo»22.
Gli editorialisti fanno partire il
dialogo qualche anno dopo: con il crollo dei muri. Paolo Conti, sul
Corriere della sera del 24 maggio 2003, titolava il suo articolo -
posto nella sezione “Cinema e Libri” alle pp. 1 e 22 - La nuova
stagione della cultura cattolica. «La cultura cattolica sta per
prendersi in Italia una spiccata rivincita storica? Il sospetto viene da
Cannes. “L’uomo ha attraversato un momento di ebbrezza in cui ha pensato
di poter dare a se stesso risposte sufficienti. Ma la razionalità ha
deluso perché non può offrire soluzioni agli interrogativi
fondamentali...”, dice Pupi Avati». Per Andrea Riccardi, le ragioni, fra
altre, dell’attenzione alla cultura cattolica sono: “Il tramonto della
grande stagione della psicologia come rimedio per tutto. Ecco il ritorno
alla spiritualità, al mondo degli umili, della pietà”. A questo
materiale Riccardi aggiunge “la paura per la globalizzazione e il
terrorismo, il silenzio delle grandi città”. Si può dire che la cultura
cattolica offre soluzioni? “Sicuramente degli itinerari da percorrere”».
Nella pagina 21 di «Agorà» di
Avvenire del giorno dopo, 25 maggio 2003, Roberto Righetto
rispondeva con un editoriale dal titolo Laici e credenti, la cultura
non ha steccati. «E’ finito il tempo dell’isolamento totale, a volte
compiaciuto, della cultura cattolica, ma anche il complesso di
superiorità della cultura laica [...]. Il contributo dei credenti al
mondo della cultura, per esempio davanti alle scelte etiche o alle sfide
della scienza e della tecnica, o ancora sui temi della pace e della
democrazia, non è più ritenuto un optional».
Qualche anno fa ha preso l’avvio
anche il Progetto Culturale della CEI. Lo scopo: far dialogare
l’esigenza culturale con l’esigenza pastorale. Pur avendo entrambe una
propria autonomia e metodologie differenti, esse si incontrano in quelle
persone in cui la fede permea la vita e la vita è irradiazione della
cultura che attinge la linfa del sapere anche dalla fede. Perché il
Progetto sia accolto, la CEI invita alla conversione culturale, «in
modo che il Vangelo sia incarnato nel nostro tempo per ispirare la
cultura e aprirla all’accoglienza integrale di tutto ciò che è
autenticamente umano»23.
4.
La vita religiosa femminile e le condizioni di abitabilità degli
orizzonti culturali
Quest’ultima parte dell’articolo è
particolarmente indirizzata alle donne consacrate, che vivono in
comunità religiosa dentro quella ecclesiale, locale e universale, e
quella del proprio popolo e dei popoli in cui sono inviate.
E’ finalizzata a loro anzitutto in
quanto donne. Consapevoli che per «un’adeguata ermeneutica dell’uomo,
ossia di ciò che è “umano”, è necessario ricorrere a ciò che è
“femminile”»24;
devono essere poste in condizioni di accostare e approfondire tematiche
di antropologia culturale, filosofica, teologica, nella dimensione
uni-duale, in cui sia messa in evidenza la radice unitaria di
sentimento-pensiero-fede. Così il sentire della donna,
orientato dal pensare, illuminato dalla fede pensata e vissuta, diverrà
un saper sentire, che si radica nell’humus del mondo vitale e
delle esperienze di vita, si affina all’ascolto della propria
interiorità in cui incontra Dio e i volti amati o anche indifferenti e,
con l’intuitività, si orienta alle cose e al mondo che vive come casa
propria. Abitandolo, ne afferra la corporeità attraversata dal respiro
profondo dall’anima. Come creatura, lo accudisce e protegge da ogni
disumanizzazione dei già citati kronos divoratori, compreso
quello il cui sforzo è di cancellare o ignorare le tracce della presenza
di Dio in esso... Con il suo saper sentire la vita, naviga in
orizzonti culturali aperti al Trascendente e ne coglie anche le dense
tenebre del mistero di iniquità. Le culture «hanno bisogno
anch’esse di purificazione e di salvezza. L’autenticità di ogni cultura
umana, il valore dell’ ethos che essa veicola, ossia la solidità
del suo orientamento morale, si possono in qualche modo misurare dal suo
essere per l’uomo e per la promozione della sua dignità a ogni livello e
in ogni contesto»25.
Fra gli “interlocutori privilegiati
e sapienti” nel «dialogo tra fede e vita, cultura e Vangelo, storia e
salvezza»26,
Bruno Secondin pone anche le donne consacrate. Dal solco tracciato
dall’Esortazione Apostolica post-sinodale Vita consecrata,
evidenzia: «Il risveglio della coscienza femminile ha mostrato sia la
fondatezza delle rivendicazioni (VC 57a) e l’urgenza di eliminare ogni
discriminazione (VC 59c), sia la necessità per l’uomo di cambiare i
propri schemi mentali e di organizzazione sociale (VC 57a), per una
autentica reciprocità (VC 58a): così “il genio femminile” darà davvero
vita a un “nuovo femminismo” positivo e liberante per l’umanità intera
(VC 58c)»27.
Forse che, in questi tempi, il messaggio del femminismo,
evangelicamente pensato e vissuto nella reciprocità dei doni e dei
carismi, sia lo specifico delle donne consacrate per salvare l’umano?
Non lo è stato, prima ancora e in modo originale ed eccelso, di Maria di
Nazaret, nel cui grembo il divino si è congiunto sponsalmente con
l’umano?
Per abitare il mondo, che presenta
i colori delle differenze etniche, culturali e religiosi e le sfumature
del pluralismo, per amarlo alla luce dell’Incarnazione-Redenzione-Risurrezione,
e comunicare ad esso il Vangelo, è necessario essere donne mature,
adulte nella fede e culturalmente preparate. Di per sé lo status stesso
di communitas, quale luogo di relazionalità, è condizione di
crescita umana, culturale e spirituale: l’intersoggettività dinamica,
arricchente, terapeutica aiuta a cogliere del sé e del reale i vari
livelli. E non é poco. Nel nostro caso, essendo la communitas
convocata dallo Spirito del Signore Gesù, in forza del carisma di
consacrazione e dell’ispirazione originaria di fondazione, è o dovrebbe
essere una comunità pentecostale, in cui ogni persona e ogni
cultura parlano la propria lingua e sono comprese dalle altre. E’,
questo, un dono dall’Alto da invocare ogni giorno nella preghiera e da
realizzare mediante la comunità stessa, dinamicamente configurata come
laboratorio di studio e di dialogo. Mediante la ricerca supportata dal
discernimento personale, e comunicata alle consorelle, si creano momenti
di attenzione ai problemi dell’operare apostolico, di rettifica di
impostazioni, di contenuti e di metodologie, di condivisione attorno
alle finalità da perseguire e ai valori da trasmettere. Di conseguenza
il laboratorio di studio diviene laboratorio di dialogo e di cultura,
perché «la comunicazione genera cultura e la cultura si trasmette
mediante la comunicazione»28.
Effettivamente in comunità, come in ogni ambiente, piccolo o grande che
sia, non si può non comunicare. O parliamo insieme o moriamo insieme. Il
dilemma, che è di tutto il pianeta, come sostiene Zygmunt Bauman29,
è anche delle comunità religiose.
Le comunità pentecostali sono
sollecite «ad ampliare i loro orizzonti nell’interpretazione dei
carismi, come risposta alle sfide culturali [...]. Il carisma esprime la
nostra modalità di entrare nella storia, di assumerci una parte del
compito ecclesiale, di dare forma alla forza salvifica della memoria
Christi. Deve essere una memoria che scuote, che apre sentieri nuovi,
che sollecita a una nuova fraternità, sempre più ampia. Dobbiamo avere
il coraggio di non isolarci al di là del Giordano, a piangere la
perdita, ma di scendere alla riva e attraversarlo sempre di nuovo, con
l’audacia dei nostri padri e madri»30.
Attraversarlo con la forza critica, o discernimento spirituale,
acquisita e alimentata dall’attenzione al mondo guardato ad occhi
aperti, plasmata dalla parola di Dio, permeata dal carisma di
consacrazione e di fondazione a cui armonizzare i carismi personali. Con
la testimonianza del nostro essere soggetti di comunità multiculturali e
internazionali: per abitare il mondo come comunità alternative alla
disumanizzazione, all’uniformità tecnologico-economica che tende a
sradicare gente dalle proprie radici culturali e religiose, e
all’appiattimento su orizzonti che si chiudono nello scientismo e
materialismo. Comunità alternative che, nello slancio della dimensione
profetica, si riappropriano dell’orizzonte escatologico. Tendono alla
casa del Dio Tri-unità in cui è l’umanità assunta dal Signore Gesù, che
è la Sapienza.
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