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La
vita è mistero che si svela progressivamente ai nostri occhi e al
nostro cuore. È promessa che viaggia lungo la strada della
pienezza e gradualmente si compie tra le nostre mani. È progetto
d’amore che ci precede e ci accompagna.
La vocazione, ogni vocazione, è
segreto arcano che lentamente si svela ai nostri occhi e dolcemente
abita il nostro cuore. È alleanza che viaggia lungo la strada
della pienezza e gradualmente si compie tra le nostre mani. È disegno
di Dio che ci attende e ci spinge in avanti.
La chiamata alla vita è chiamata a
camminare, ad essere pellegrini con lo zaino in spalla e nei
piedi la voglia di andare, con una canzone nel cuore e nelle mani una
scelta di vita, con l’orizzonte negli occhi e nel volto la gioia di
esserci.
«Pellegrini nel tempo», per camminare
nel qui e ora della storia, con il senso del frattempo
nel cuore. Non turisti, all’eterna ricerca di nuovi luoghi
da scoprire e nuove esperienze da vivere. Non vagabondi
senza un concreto punto di riferimento in cui centrarsi, da cui
partire, a cui arrivare1.
Il cammino del pellegrino sa
di terra e di cielo, di finito e di eterno, di ora e di
altrove. È un cammino che porta al centro di sé, fa scoprire il vero
centro della propria esistenza, allarga i confini di sé
all’incontro con l’altro. È un processo che svela e incarna, in
tutte le sue dimensioni, l’immagine di Dio che ognuno porta incisa, in
modo unico e inequivocabile, nel profondo del suo essere.
Per chi sceglie di fare di Dio
l’Assoluto della propria vita e della propria storia, questo cammino si
fa cammino nello Spirito radicato nel cuore dell’avventura
umana. È seguire Cristo in un movimento progressivo che
conduce gradualmente dall’intimità con Cristo, all’imitazione di Cristo
fino all’identificazione a Cristo. Un’identificazione che fa dire, con
convinzione e gioia: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»
(Gal 2,20). E fa esclamare, con decisione e speranza: «per me il
vivere è Cristo» (Fil 1,21).
Questo cammino è, innanzi tutto e
soprattutto, vita che implica azione e crescita:
un’azione e una crescita senza fine, senza sosta, senza
resistenze. Un movimento di crescita che sposta sempre più in là il
traguardo della propria vita, perché si è sempre in cammino… e non si
arriva mai!
Camminando s’apre cammino…
Per camminare, senza farsi male e
portando frutti, occorre maturare la consapevolezza che si cammina
gradualmente, compiendo un passo alla volta, senza impazienza, senza
fretta, senza salti… senza fermarsi mai! Il cammino è lento e
progressivo. Questo sembra scontato, ma in effetti non lo è!
Gli scalatori di montagna insegnano
che per arrivare in cima con un po’ di fiato, occorre
trovare il «passo giusto», né troppo lento, né troppo veloce. Quel
«giusto passo» adeguato alle proprie forze, che accompagna dall’inizio
alla fine.
Il cammino si compie un passo alla
volta, nella pazienza verso se stessi e nella comprensione di chi sa di
essere in cammino… un cammino in salita!
In ogni cammino c’è un piede fermo,
che sta indietro ed è saldo, e un piede in movimento, che va in
avanti ed è un po’ vacillante e sempre alla ricerca di nuovi passi.
Quando si percorre un sentiero di montagna – un sentiero in salita come
lo è il cammino nello spirito – il piede in basso è fermo
e solido; il piede che avanza, che sale, che apre
il cammino a nuovi passi è vacillante e alla ricerca di stabilità per i
nuovi passi da compiere... ma è questo piede, il piede che avanza,
che permette di andare oltre, sempre più su. È l’azione del piede che
avanza che consente di raggiungere la mèta.
Il piede in basso è solido
perché ancorato alla memoria del passato, al vissuto, allo sperimentato,
alle sicurezze costruite nel tempo, ai punti di riferimento scoperti e
sedimentati lungo il cammino... L’altro piede, il piede che avanza,
è vacillante perché spinge alla ricerca del nuovo, del cambiamento, del
«di più», del superamento di ogni mediocrità e mezze misure…
Il piede che avanza cerca la
verità di noi stessi e in noi stessi e fa la verità
di noi stessi.
Il cammino del piede che avanza
è faticoso e, a volte, per paura della fatica, ci si appoggia
eccessivamente sul piede in basso (sicurezze, certezze acquisite,
scelte sperimentate…) e non si lascia l’altro piede libero di andare e
scoprire nuovi orizzonti.
Il piede che avanza è ora
l’uno ora l’altro piede e il piede in basso è ora l’uno ora
l’altro piede: il piede in basso diventa poi il piede che
avanza e il piede che avanza diventa poi il piede in basso,
in una danza armoniosa e senza fine… e così si cammina e si giunge alla
vetta.
…e si scopre di
essere «in cordata»
Il cammino nello spirito non è
un «cammino in solitudine»… anche se io, io soltanto, posso mettere i
miei passi l’uno dietro l’altro. È un cammino in cordata,
in carovana con chi condivide con me il mio stesso sogno
di vita ed ha nel cuore la mia stessa canzone. È un cammino di
relazione: con me stessa, con Dio, con la mia comunità, con gli
altri, con il mondo intero. È un cammino in cui si ha un compagno
di viaggio speciale e unico: Gesù il Cristo, il Crocifisso e il Risorto,
il Signore della mia vita e della mia storia, il Maestro che sostiene
ogni mio passo e il Messia che porta a compimento il mio cammino.
Nella mia bisaccia di pellegrino, per
nutrirmi e crescere durante il cammino, non può mancare il
credere fino in fondo alla Parola che mi chiama e m’invita ad avanzare
lungo percorsi di essenzialità e radicalità, di amore condiviso e vita
donata. Non può mancare il fidarsi e l’affidarsi alla promessa di
Dio – Uno e Trino, comunione e relazione – che si fa Alleanza e
mi dona il coraggio di camminare contro corrente. Non può mancare
la scelta di mettersi, in modo integrale, a servizio del Vangelo per
annunciare a tutti la Parola che salva e costruisce, sin da ora e
da qui, il Regno di Dio. Non può mancare la decisione di un’opzione
fondamentale: il vivere decisi per… per il Vangelo
dell’amore! Non può mancare l’impegno a vivere la fedeltà quotidiana
alla comunità di cui «faccio parte» e, soprattutto, «prendo parte». Non
può mancare la responsabilità di una testimonianza autentica e
credibile, a partire dal mio «qui» e dal mio «ora».
Ad
ogni cammino la sua mappa
Ogni cammino, ogni percorso di
crescita, ogni azione orientata allo sviluppo di sé, ogni itinerario
formativo presuppone una o più «finalità» e degli «obiettivi» da
raggiungere attraverso un «progetto» adeguato al perseguimento delle
finalità e degli obiettivi scelti.
Il progetto mostra e descrive
il «come» raggiungere le finalità fissate e gli obiettivi
scelti.
Le finalità costituiscono il
«perché» si avvia un processo di crescita e indicano il «dove» si
intende arrivare attraverso un progetto che distribuisce nel
tempo gli obiettivi da perseguire.
Gli obiettivi illustrano il
«che cosa» s’intende concretamente raggiungere, nel breve, nel
medio e nel lungo termine, attraverso lo snodarsi di
un progetto che conduce alle finalità prescelte.
Finalità:
ampi ideali dal «lungo respiro» che fanno da sfondo
all’esistenza e sono orientati alla promozione di…
per la formazione religiosa,
iniziale e permanente, le finalità possono essere
orientate alla promozione… della crescita integrale della persona, dello
sviluppo di una personalità adulta e matura, dell’esperienza di fede,
della conversione del cuore, della vita di santità e di preghiera,
dell’amore al carisma e alla spiritualità d’Istituto…
Obiettivi:
scopi, mete, fini; traguardi possibili, concreti,
individuabili, visibili, verificabili;
per la formazione religiosa,
iniziale e permanente, gli obiettivi possono essere
orientati all’acquisizione… di una libertà equilibrata, di un’autonomia
che rende capaci di scelte decise e decisive, di un’apertura al
confronto, di un atteggiamento amabile, di uno stile di preghiera, di un
ascolto attivo, di una docilità alla Parola…
Gli obiettivi possono essere:
- finali:
costituiscono la mèta del percorso e rappresentano lo scopo
finale del processo formativo; la verifica del loro compimento si
effettua al termine dell’itinerario intrapreso; essi esigono la
traduzione in comportamenti concreti da raggiungere nel tempo e per
tappe;
- intermedi:
articolano gli obiettivi finali spalmandoli nel tempo e
rendendoli possibili, concreti, individuabili,
visibili, verificabili; costituiscono una sorta di gerarchia
da percorrere fedelmente allo scopo di raggiungere, nel tempo e per
traguardi successivi, gli obiettivi finali;
- immediati:
indicano l’azione da compiere qui-e-ora, nel breve termine;
segnalano le operazioni da attivare e suggeriscono i comportamenti da
assumere per raggiungere, per gradi, gli obiettivi fissati e
ottenere le finalità desiderate.
La finalità che intendo
raggiungere, per esempio con le suore in formazione, è il raggiungimento
di un’intensa vita di preghiera promuovendo personalità ben integrate.
Propongo, pertanto, un percorso formativo atto a promuovere l’essere
«donne» e «donne di preghiera» che portano la preghiera nella vita e la
vita nella preghiera, che insieme alla preghiera comunitaria vivono
anche la preghiera personale e il «cuore a cuore» con Dio, che incarnano
la Parola di Dio nella vita quotidiana e non vivono la preghiera come
rifugio e la spiritualità come spiritualismo.
L’obiettivo finale, che
traghetta verso il raggiungimento della finalità fissata, è il
conseguimento di una spiritualità incarnata che fa stare in perenne
atteggiamento di preghiera e fa guardare tutto con gli occhi di Dio.
Gli obiettivi intermedi, che
fisseremo insieme e verificheremo di volta in volta, possono essere i
seguenti: approfondire il senso di una spiritualità incarnata,
comprendere cosa significa la lettura «esistenziale» ed «esperienziale»
della Parola di Dio, sperimentare la preghiera del cuore, familiarizzare
con i metodi orientali di meditazione, apprendere nuove tecniche di
preghiera…
L’obiettivo immediato, il
punto di partenza del percorso, è dedicare almeno due ore al giorno per
prendere contatto con il proprio corpo e la propria sensibilità, per
familiarizzare con le tecniche di rilassamento e di meditazione, per
esercitarsi nella preghiera del cuore.
Per raggiungere una finalità
occorre tradurre la finalità in obiettivi concreti. Per
conseguire gli obiettivi fissati occorre stilare un progetto.
Progetto:
piano di lavoro ordinato e dettagliato, sistematico e
particolareggiato; insieme di elaborazioni ed esplicitazioni necessarie
a definire, in modo inequivocabile, gli obiettivi che si
intendono raggiungere (tempi e criteri) e le scelte da
attivare per raggiungere gli obiettivi fissati (strumenti).
Il progetto è in funzione del
raggiungimento degli obiettivi fissati e gli obiettivi
(specialmente quelli immediati) richiamano il comportamento.
Il progetto, pertanto, riguarda in modo prioritario il
comportamento da attivare, da assumere, da far proprio.
Il comportamento è costituito
da una serie di «operazioni» circoscritte, possibili, concrete,
osservabili, verificabili nei risultati. Queste operazioni si
riferiscono ad un’azione concreta del tipo «fare questo» (performance).
Un obiettivo non tradotto in
azione e in comportamento rischia di rimanere astratto e di trasformarsi
in illusione e in alibi. Un obiettivo tradotto in azione e in
comportamento diventa una «cosa da fare» e una «scelta da compiere» che
costringe all’azione, al cambiamento, al rimboccarsi le maniche.
L’azione del progettare,
nell’ambito della formazione religiosa, iniziale e
permanente, richiama il progetto personale di vita (p.p.v.)
Tale progetto ha implicanze con la crescita della persona, con le
dinamiche relazionali, con le esigenze dell’essere in situazione.
Non si tratta di un progetto
generico e fine a se stesso, ma di un progetto preciso, orientato
a vivere in pienezza la propria esistenza.
Il p.p.v., se ben formulato e
fedelmente seguito, si rivela un potente mezzo perché aiuta ad
entrare e a stare in un costante processo di crescita umana,
spirituale, relazionale, sociale.
Pro-gettare: accarezzare futuro
L’etimologia della parola «progetto»
è illuminante. Il termine «progetto» deriva dalla parola latina «proiectus»,
participio passato di «proicere» che significa «gettare».
È strettamente legato a «proiectare», pro + iectare =
gettare avanti.
La definizione di «pro-getto» e
«pro-gettare» allude all’azione del «gettare in avanti qualcosa». Questa
azione implica un movimento, fisico e non solo fisico, e richiama
l’apertura al cambiamento, al mutamento, alla trasformazione: quando
qualcosa (oggetto, idea, forza, concetto, pensiero…) è «gettata in
avanti» è, in un certo senso, «messa in libertà», liberata, sprigionata
e può assumere un’altra forma, portare verso un’altra realtà, spostare
su un altro piano.
Il termine «progetto» rende la
persona consacrata più consapevole del ruolo attivo e responsabile che è
chiamata a vivere nei confronti dell’impegno a «prolungare», nella sua
vita e nella sua storia esistenziale, la consacrazione di Cristo al
Padre. Progettare come essere spazio in cui Dio prende
dimora e continua, nello scorrere del tempo e della storia, a scrivere
il suo Vangelo d’amore. Come essere tenda della Parola.
Come essere manifestazione di Dio, del suo perdono, della sua
misericordia, della sua attenzione ai poveri. Come essere
collaboratore nella costruzione della «civiltà dell’amore» e di quel
Regno che è Regno di giustizia e pace, libertà e riconciliazione. Come
traghettarsi dal suggerimento-legge di «amare gli altri “come” se
stessi» (Lv 19,18; Mt 22,39) a quella misura smisurata consegnata da
Gesù di «amare “come” Lui stesso ha amato» (Gv 13,34).
Il progettare fa accarezzare
futuro: impregna di speranza l’oggi, colma d’amore il passato, colora di
attese il domani. Tutto ciò è possibile perché il progetto fa
riferimento a «quello» scopo, a «quel» fine, a «quel» disegno che la
persona sente di poter e dover dare alla propria vita. E,
così, la vita non si esaurisce e non si appiattisce sull’orizzonte
dell’oggi, ma si spalanca e accoglie sempre nuove «ragioni» per vivere e
si esercita nel «render ragione» della speranza che abita in lei (cfr.
1Pt 3,15).
Il progettare, stimolando a
stare nell’oggi e proiettando verso il futuro, educa a
pensarsi in un orizzonte di significati in cui ogni esperienza porta il
segno della ricerca, del desiderio, della pienezza di vita.
Nell’ottica del progettare,
nessuna esperienza passa inosservata e senza lasciare il segno, nessuna
esperienza è archiviata senza la dovuta verifica e senza la
registrazione di ciò che si è conquistato. L’impegno della verifica e
del riconoscimento di ciò che si è appreso, sprona a cercare la causa
e lo scopo degli avvenimenti che accadono e toccano
la propria vita e a dare loro un senso, un senso globale,
un senso nel tempo.
La
vita come progetto e un progetto per la propria vita
Il progettare, sempre, a
maggior ragione nella prospettiva della crescita nello spirito,
riguarda ogni segmento di vita, ogni età: nessuno escluso! Il
progettare riguarda la fase iniziale del cammino, nel nostro caso la
formazione iniziale, ma anche la fase centrale, nel nostro caso
la formazione permanente. La scusa dell’età, dell’essere «ormai»
avanti negli anni, del non poter più cambiare le proprie
abitudini, del «non avere più tempo» per pensare ai progetti... va a
cozzare con l’invito del Vangelo di essere «uomini nuovi», sempre; di
avere «vestiti nuovi», sempre; di essere «otri nuovi», sempre (cfr. Mt
9,16-17). Va a scontrarsi con il consiglio dato da Gesù, nel cuore della
notte, al vecchio Nicodemo: «Se uno non rinasce dall’alto, non può
vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). Nico-demo non si perde d’animo,
fruga nelle sue tasche e conta i suoi anni ed esclama: «Come può un
uomo nascere quando è vecchio?» (Gv 3,4). Può… se c’è di mezzo lo
Spirito che soffia dove vuole, quando vuole (qualsiasi segmento di
vita), come vuole (cfr. Gv 3,5-8).
La vita è progetto e,
pertanto, esige un progetto personale di vita.
Il p.p.v. è un valido
strumento perché aiuta a far emergere l’«io nascosto» e lo sostiene nel
divenire capace di orientarsi, di essere fedele a se stesso, di vivere
in pienezza.
Nell’ambito della vita consacrata, il
p.p.v. si rivela un potente mezzo perché «getta in avanti» e fa
atterrare sul suolo sacro dello Spirito e fa dimorare in
Cristo. Stimola a vivere un’autentica esperienza del mistero di Dio.
Sprona ad entrare e stare dentro quel costante processo di
docile conversione all’azione formativa di Cristo, il Maestro che è
la vita, la verità e la via (cfr. Gv 14,6). Vincola –
attraverso una profonda, sincera, costante revisione di vita – alle
decisioni prese, agli impegni assunti, ai propositi formulati.
Il p.p.v. non è passiva e
arida programmazione di cose da fare o non fare. Non è rigida
organizzazione oraria che regola e inscatola, nei minimi dettagli,
la vita, le scelte, i comportamenti. Non è cavillosa e asettica
registrazione di obiettivi da raggiungere e di interventi da compiere.
Non è sterile organigramma che pianifica le valutazioni periodiche per
accertare i risultati raggiunti.
Il p.p.v. è «risposta attiva»
che fa prendere in mano se stessi e fa avere una realistica
visione di sé. Non consente inutili «fughe in avanti». Non permette di
illudersi negando il passato. È sintesi della propria storia: la
memoria del passato s’incontra e s’intreccia con l’oggi
del proprio presente e costruisce un futuro che si offre
come «possibilità» di attuare le proprie potenzialità e dar compimento
alle strutture della personalità, donando un volto preciso alla propria
identità2.
Nella formazione religiosa,
iniziale e permanente, il p.p.v. è una «risposta
attiva» alla chiamata di Dio che invita a «prendere se stessi», ogni
giorno, per porsi attivamente e responsabilmente alla sequela Christi.
Accettare di formulare un p.p.v. significa lasciarsi coinvolgere
dal soffio dello Spirito che «getta in avanti», verso sempre nuove piste
di atterraggio.
Il p.p.v., come strumento e
percorso di continua crescita, è importante per costruire se
stessi, il proprio rapporto con Dio, le relazioni comunitarie, il
servizio agli altri, la missione.
Anche Gesù consiglia, prima di
avventurarsi in una nuova costruzione, di qualsiasi tipo e genere, di
approntare un progetto, di stilare un programma, di fare
bene i conti e valutare l’azione intrapresa: «Chi di voi, volendo
costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i
mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta
e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a
deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato
capace di finire il lavoro» (Lc 14,28-30).
Il p.p.v. stimola un
atteggiamento di continuo discernimento, monitorando la qualità della
risposta data alla chiamata alla vita (entusiasmo per la vita,
percezione della vita come dono, senso di lode per il dono della vita,
ricerca del positivo, ottica della «bottiglia mezza piena»…) e alla
chiamata all’amore di Dio (intimità con il Signore, spiritualità,
preghiera...), nonché all’invito di portare agli altri l’amore
sperimentato e la gioia di vivere per… (servizio, apostolato,
evangelizzazione, amore per gli altri...).
Il p.p.v. sprona a mantenere
viva e dinamica la bellezza originaria della novità del dono di Dio e
dell’avventura d’amore iniziata con Lui (primo amore, fase
dell’innamoramento, stadio dell’amore nascente). Avventura d’amore che
richiede di essere continuamente ravvivata (ri-innamoramento incessante)
per sprigionare tutta la ricchezza che racchiude.
Il p.p.v. è una sorta di
terreno fertile da coltivare per crescere in Cristo. Scaturisce
dall’incontro personale con il Maestro: un incontro vero, personale,
concreto; non studiato sui libri e conosciuto per sentito dire. È un
mezzo che libera energie positive, svela risorse nascoste, mostra ideali
da raggiungere, orienta la vita, motiva azioni e scelte.
Il p.p.v.
non è incentrato sul «dover fare qualcosa», ma sulla comprensione della
propria identità personale e si focalizza su due domande:
chi sono io qui
e ora?
chi devo essere
qui e ora per essere fedele a me stesso?
Queste domande richiedono risposte
globali, autentiche, vere, sincere. La vera comprensione di sé,
acquisita nel contatto con Dio e nutrita dalla preghiera, si trasforma
in accettazione sincera di sé, in capacità di entrare nel processo di
riconciliazione con la propria storia. Tale cammino implica il guardare
e il toccare la propria verità (la verità di ciò che si è) e accettarla
nell’amore.
Nella vita religiosa, in qualsiasi
segmento di vita e in qualsiasi età, l’obiettivo finale del
p.p.v. è legato all’opzione fondamentale e al vivere
decisi per… Nella fase iniziale, aiuta a costruire questa
opzione attraverso la scoperta della chiamata all’intimità e alla
comunione con Dio uno e trino: con il Padre amante, il Figlio amato, lo
Spirito amore... e divenire amanti, amati, amore.
Nella fase permanente aiuta a risvegliare continuamente questa
opzione e a tenerla desta.
Un p.p.v. ben elaborato
durante la formazione iniziale può accompagnare tutto il percorso
di crescita. In questo caso, il «volto globale» del p.p.v.
iniziale va progressivamente tradotto in micro p.p.v.
(annuali, biennali…) che focalizzano e concretizzano aspetti particolari
della propria fisionomia e fanno progredire nell’attuazione delle
finalità fissate e nell’acquisizione degli obiettivi scelti.
Un buon p.p.v. richiede
un’accurata formulazione e una puntuale elaborazione.
Innanzi tutto, richiede la chiarezza
delle finalità da raggiungere, la linearità del progetto
da seguire, la precisione degli obiettivi da perseguire nel
breve (obiettivi immediati), nel medio (obiettivi
intermedi) e nel lungo temine (obiettivi finali).
Richiede, inoltre, l’uso del pronome
personale «io» e il riferimento a se stessi: il soggetto del mio
p.p.v. sono io, non gli altri.
Richiede, infine, un’attenzione
particolare all’uso dei verbi: il verbo va utilizzato, sempre, al tempo
indicativo e alla prima persona singolare (io vedo le mie risorse con
occhi nuovi); mai al tempo infinito (vedere le mie risorse con
occhi nuovi) o al tempo futuro (vedrò le mie risorse con occhi
nuovi).
Le
mie risorse al centro del progetto
Io sono «io» qui (spazio) e
ora (tempo), con le mie risorse e i miei limiti, la mia storia e il
mio desiderio di futuro, i miei fallimenti e le mie conquiste, i miei
ideali e le mie resistenze, le mie aspirazioni e le mie paure… Per
elaborare un buon p.p.v., è necessario partire da ciò che sono
qui-e-ora e tracciare, con serenità e obiettività, il percorso
adeguato per raggiungere gli obiettivi desiderati.
Un p.p.v., inteso in questo
senso, non è statico, è necessariamente dinamico e si evolve in modo
armonico con lo sviluppo stesso della persona. Il p.p.v., per
questa sua dimensione di dinamicità, pur avendo chiara la direzione da
seguire, non sempre procede lungo una rigorosa linea retta,
spesso procede a zig-zag, con alti e bassi, con arresti e rush
finali.
Quando si adotta un p.p.v., le
scelte compiute e da compiere dipendono dai valori considerati «assi
portanti» del proprio p.p.v.. Ma bisogna prestare attenzione
perché tra questi valori si possono insinuare pseudo-valori
che disorientano e distraggono dalla vera realizzazione di sé.
L’elaborazione di un «buon» p.p.v.
esige:
*
una matura e crescente
conoscenza di sé e la tensione alla continua ricerca della propria
identità e ad un’obiettiva immagine di sé;
*
la consapevolezza di essere
«protagonisti» di un progetto e il desiderio di costruire un «io»
forte e maturo, equilibrato e responsabile, autonomo e libero, che sa
stare vicino, non è indipendente, e sa allontanarsi, non è
dipendente;
*
una matura ed equilibrata
conoscenza della realtà;
*
la scelta di un «principio
fondamentale» che ispira la propria vita e la propria storia;
*
la consapevolezza dei tempi di
maturazione e l’impegno di cominciare con l’esplorazione (mi
guardo intorno), per giungere all’orientamento (tra tante cose mi
concentro su questa) e, attraversano le ipotesi (posso fare…
posso dire… posso impegnarmi…), giungere all’opzione (scelgo
questo «polo di attrazione» attorno cui strutturare la mia vita).
Si
vive meglio con un «buon» progetto
Vale la pena «perdere» un po’ di
tempo nell’elaborare il proprio p.p.v.. Un «buon» p.p.v.
aiuta a vivere meglio perché incoraggia quell’atteggiamento di ricerca
che dà calore e colore al proprio vivere quotidiano e
quella positiva fiducia in se stessi e negli altri che fa guardare con
occhio diverso il mondo. Favorisce la crescita e il cambiamento, nella
fedeltà al nucleo dei valori portanti, sviluppando la gioia di vivere,
l’amore per ciò che si è, l’entusiasmo per ciò che si fa, la gratitudine
per ciò che si ha. Accresce l’effettiva capacità di amare e di lasciarsi
amare e libera l’affettività aiutandola ad esprimersi con equilibrio.
Fortifica il senso di responsabilità e caldeggia la disponibilità a
saper cercare aiuto e sostegno, senza creare dipendenze.
Il p.p.v.,
stimola a guardare oltre il presente e proietta in un
futuro gravido di speranza… proietta nel futuro di Dio!
*Consacrata laica della Missione
Chiesa-Mondo; docente di sociologia presso la Facoltà Teologica
dell’Italia Meridionale, sessione San Tommaso; agevolatrice nelle
relazioni di aiuto.
1.
Cfr. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle
persone, Laterza, Bari 2001; in particolare il Capitolo IV (pp.
87-112) dedicato alla categoria del turista vagabondo che
si muove con disinvoltura nell’attuale società dei consumi, vivendo solo
nel tempo perché lo spazio non conta più ed è diventato
senza limite.
2.
Identità come
«stabile senso di continuità interiore che rimane nel tempo e nelle
circostanze» (Erikson).
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