n. 11
novembre 2003

 

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Stare criticamente e responsabilmente di fronte alle critiche mosse alla vita consacrata
di Sr. Carla Giacometti e Sr. Luciana Sattin
Usmi Triveneto

 

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È un titolo provocatorio che, senza traumatizzare, ha comunque “preso per lo stomaco” le “responsabili” della vita consacrata a vario titolo: Madri Generali, Provinciali, delegate e incaricate delle segreterie USMI diocesane e di pastorale del Triveneto, riunite in Assemblea annuale (10/11 maggio a Torreglia PD), presentando una realtà che c’è, che forse un po’ si conosce e si teme, ma non è certamente letta e compresa in tutto il suo spessore…

Ma, andiamo con ordine.
La prima provocazione è venuta da Fratel Giovanni Dal Piaz, monaco camaldolese, che con altri esperti religiose/i e sociologi dell’Università di Padova stanno portando avanti l’Osservatorio sulla Vita consacrata nel Nord-Est.

Dopo aver conclusa la ricerca sugli “abbandoni” di chi già era entrato nella vita religiosa, sta cercando di individuare quale sia la percezione dei giovani e delle giovani del nostro territorio proprio riguardo alla vita consacrata.

Il quadro che si profila, anche se solo abbozzato, dato che la ricerca è in itinere, è deludente se non desolante: se la visibilità non è più immediata, la significatività lo è ancora di meno.

Fr. Dal Piaz ha illustrato le prime fasi del lavoro da poco avviato, ma che già rivela una “percezione sociale” inaspettata, tale da sorprendere gli stessi ricercatori.

Giovani universitari, maschi e femmine, che vivono nelle nostre strutture di accoglienza, alla richiesta di che cosa evochi in loro la parola persona religiosa non associano immediatamente ad essa frati e suore, ma solo dopo molti stimoli. Questo induce a pensare che siamo fuori dal campo percettivo... (estranei non solo semanticamente ma anche come rappresentazione psicologica). Dobbiamo accettare, o almeno renderci conto, che per l’uomo d’oggi, l’immagine, soprattutto quella mediatica, diventa più reale della realtà stessa: «Io ero diventato reale perchè ero comparso in televisione, non perché mi vedeva ogni giorno».

Se poi si entra nel merito della concezione valoriale della vita religiosa che essi esprimono, naturalmente mediata dalle loro esperienze di vita, ci si accorge che sono fermi ai ricordi della scuola materna e che, comunque, riescono ad esprimere una valutazione molto superficiale, certamente poco incoraggiante (es. infantilismo, ipocrisia…) anche se non del tutto negativa…

Un esempio: di fronte alle provocazioni del film Magdaleine sisters, essi oppongono un certo rifiuto: «Questo ambiente», dicono, «non c’entra niente con le suore…»

Emerge intanto non solo una “non conoscenza” della persona consacrata, percepita per quello che fa e non per quello che è o per le motivazioni che animano il suo agire, ma anche una “non conoscenza” della vita comunitaria, che rimane totalmente estranea dalla loro percezione.

Lo studio dell’Osservatorio sulla vita consacrata si articolerà in altre direzioni e sarà utile seguirlo con attenzione, proprio per non intraprendere vie di comunicazione e iniziative di pastorale che siano completamente “fuori” della comprensione e/o della visione che i giovani hanno della vita, della fede cristiana, dei valori…

Si prevede anche un incontro “alto”, nel senso di comunicazione significativa, di approfondimento e studio, aperto alle Superiore Maggiori, per domandare a “figure robuste” della carta stampata, della TV, della pubblicità se è un caso o una scelta, la loro, di presentare un certo tipo di immagini riguardati persone religiose, ossia:

- quale immagine di consacrati e consacrate si veicola nelle riviste, nei programmi televisivi, nei mezzi nuovi (internet o altro…)?

- quale percezione si può avere attraverso la pubblicità (v. fraticelli che rubano patatine, il grassone, le suore che fanno da mangiare), negli inviti alle varie trasmissioni, sportive, di studio? …

- quali canali potenziali sono da sfruttare? Le chat, piuttosto che i siti? O che altro?

Il cantiere dell’Osservatorio è proprio aperto!

Quali sono le domande focali che interpellano la vita consacrata?

Abbiamo riflettuto e ci siamo fatte provocare da alcuni spunti presi dall’Istruzione Ripartire da Cristo. Ha introdotto la riflessione la Dr. Cristina Simonelli che molto concretamente, e in maniera convincente, se ce ne fosse stato ancora bisogno, ha affermato che la vita consacrata non è assolutamente “altro” dalla vita cristiana vissuta nell’oggi.

Un “oggi” da vivere con passione nonostante le fatiche, anche perché certamente non c’è mai stato un presente facile… e questa è la terra di Vangelo, il tempo che ci viene dato per vivere e testimoniare la nostra fede.

Un dubbio può e deve assalirci, o inquietarci, di fronte ai cambiamenti che constatiamo nella nostra vita ordinaria, e di fronte a quelli ancora più radicali che emergono dalla riflessione e dallo studio. E’ la gente che non ci capisce, non ci vede o cosa altro?... Se è così, allora basta cambiare in qualche modo la nostra maniera di presentarci al mondo… oppure occorre che cambiamo il nostro punto di vista per capire di più la realtà da vivere come cristiane e consacrate e diventare così compagne di viaggio nella vita quotidiana dei nostri fratelli e delle nostre sorelle?

Un’immagine biblica tratta dal libro dei Numeri (cap 22-24) attira la nostra attenzione: il re Balak teme gli Israeliti accampati nelle steppe di Moab e manda a chiamare Balaam perché le maledica… (vv.23,8), ma questi replica: «Come imprecherò se Dio non impreca. Come inveirò se Dio non inveisce?…». Per arrivare al cap 24,5: «Come sono belle le tue tende Giacobbe, le tue dimore, Israele».

Interrogarci sul come servire Dio, i fratelli e le sorelle che incontriamo sul nostro cammino comporta discernimento, occorre scrutare quale può essere il pensiero di Dio sull’umanità, assumere la Sua prospettiva…

La vita cristiana, e la vita religiosa seria, deve uscire dagli schemi consolidati di giudizio, che forse danno ancora sicurezza ma, poiché i tempi sono cambiati, non sono più adatti a costruire dialogo e a testimoniare l’avvento del regno di Dio.

Se ci abituiamo a interrogarci, a porci domande di fronte ai fatti di vita, a non voler trovare le soluzioni per tutto, – tanto meno secondo i nostri punti di vista – allora, forse, diventeremo capaci di stare di fronte alla realtà in maniera positiva.

Una concretezza esistenziale, anche se caotica è il campo nel quale dobbiamo seminare il bene… impareremo a benedire perché comprendiamo che la realtà è amata da Dio; a non maledire, nel senso di dire-male, quando ci prende l’ansia, lo smarrimento di fronte al caotico agitarsi della gente, al linguaggio strano della gioventù, stipata in un tram di periferia, o presa dai problemi di orario e di traffico in una stazione ferroviaria.

Balaam è chiamato dal re, che ha paura, a maledire le tende di Giacobbe, ma il profeta afferma che le tende sono belle... una bellezza non certo estetica… come potrebbe essere bello un accampamento in mezzo al fango o al deserto?... Il profeta vede il futuro, vede la vita, vede il bene che non si legge al primo sguardo.

Se coltiviamo uno sguardo positivo, una visione di speranza di fronte alla complessità, se superiamo la sindrome dell’assedio di fronte al diverso, ai problemi degli immigrati, della pace che non decolla, dell’indifferenza verso i problemi che non riteniamo nostri... saremo donne capaci di far “precipitare l’accusatore”, donne capaci di dire con libertà quello che il Vangelo ci ispira: per esempio, che non ci sono e non possono mai esserci bombe cristiane buone e che le altre sono cattive... Mostreremo di essere donne capaci di avere idee, di essere propositive, di fare la nostra parte, anche in politica, per il superamento delle differenze. Questo avverrà se supereremo per prime anche una visione “gerarchica delle persone”, per cui automaticamente si considera una persona migliore di un’altra… E’ ormai tempo di superare timori reverenziali…

Ci è chiesto di lavorare e di impegnarci come donne che operano nella libertà, perché coscienti di servire la Chiesa e l’umanità nel promuovere speranza e diffondere consolazione, nel costruire comunità di vita… Forse siamo frenate perché non sappiamo come partire, ma se aspettiamo a partire quando avremo chiaro dove arrivare non lo faremo mai… e allora diamoci da fare…

 

Camminando si apre il cammino

* Sentire che è bello essere in un certo luogo anche se non lo vediamo... siamo lievito

* Fare i passi possibili... cambiare la testa... OK, ma la testa è legata ai piedi : se non viviamo una certa realtà, non incontreremo mai alcune persone e… non saremo mai provocate a cambiare la testa.

* Sentirsi in ricerca, e… provare un po’ di disagio di fronte alla missione ci aiuta a stare sulle domande.

L’estraneità della vita religiosa di fronte alla società è sempre relativa, perché noi «siamo nel mondo ma non siamo del mondo»…

Nel dibattito che abbiamo avuto con don Giuseppe Laiti, in qualità di facilitatore, siamo state invitate a fare chiarezza sui concetti che sentiamo sovente ribadire. Poiché questo può interessare tutte, riportiamo alcuni interrogativi che ci siamo poste:

Siamo estranei come religiosi/e, o come cristiani/e?

L’estraneità più seria – quella che ci deve interpellare – non è quella della vita consacrata più o meno riconosciuta, apprezzata, ma quella della fede cristiana che è fondamento del vivere... Il resto si relativizza.

Come religiose dobbiamo stare attente a non lasciarci abbagliare o gratificare dai consensi, né lasciarci scoraggiare dai dissensi, dalle critiche e/o difficoltà che possiamo incontrare nel nostro cammino missionario.

Non sentiamoci legittimate, a posto, perché c’è il consenso attorno a noi, alle nostre attività.

Domandiamoci piuttosto: «Quali sono i motivi del consenso... e quali quelli del dissenso?»

I cambiamenti avvenuti nella nostra realtà socio-ecclesiale ci chiedono una riflessione seria, non la ricerca dei compromessi.

Bisogna cercare un equilibrio di significato.

Agli Apostoli che chiedevano: «Signore è questo il tempo nel quale costituirai il Regno di Israele?» (At 1,6) Gesù rispose: «Riceverete lo Spirito santo e mi sarete testimoni…»

Discernere qual è il nostro punto di vista. Quali sfide raccogliamo, per quali motivazioni... Vangelo, carisma .. interessi dell’opera...?

Come procediamo cercando di rispondere con verità? O come ci giustifichiamo? I problemi ci sono, ma bisogna riconoscerli, non nasconderli e domandarci, come fecero i giudei con Pietro, «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37).

E’ ovvio che non possiamo più agire come prima. Dobbiamo cambiare mentalità non per adeguarci al mondo ma per essere fedeli a Dio e alla Storia e riconoscere i segni dei tempi…

Se non possiamo più agire come prima, però, questo non vuol dire che sia un segno negativo. Come del resto, il fatto che occorra intraprendere altre vie, altre modalità di vita non significa che il cammino percorso finora sia stato sbagliato, sono soltanto cambiati i tempi…

Inoltre, dobbiamo porre un’attenzione particolare nell’aver cura del buon clima ecclesiale. Quest’attenzione ci fa capire non solo come muoverci oggi, ma ci fa anche valorizzare il passato. Ci mette nell’occasione di creare coerenza tra persone, comunità e struttura... non preminenza di una sull’altra, ma coerenza; una struttura santa non salva nessuno, ma una struttura che non funziona rovina molti... aiutare le persone e non far saltare le relazioni... far vedere che siamo qualcosa di positivo e di alternativo, diverso dal modello proposto dalla società di oggi, che valorizza solo il forte, il bello, l’efficiente, ecc.

Occorre in definitiva rischiare il carattere evangelico della vita consacrata: è più facile essere “religiosi” che “cristiani”! Noi siamo chiamate ad essere l’eco della buona notizia da parte di Dio!

- un Dio per gli uomini in Cristo;

- a creare fraternità e sororità che valorizzano la qualità delle relazioni;

- ad assumere criteri di valutazione/giudizio ispirati al Vangelo e che il funzionamento della istituzione tende a far circolare o a incrementare (maturazione delle persone che così superano l’ipocrisia).

 

Che cosa dobbiamo rischiare?

In formazione, costruire “mentalità”, stile di vita. Incrementare nelle persone il raccordo tra ispirazione, competenze, condizioni storiche.

In “ambienti di vita” in cui è evidente la qualità delle relazioni: comunità di sororità e fraternità, passando da comunità funzionali a comunità segno che non vuol dire comunità “comode”/borghesi, ma comunità che vivono ed elaborano la vita cristiana che propongono, fanno esperienza delle relazioni che vivono nella fede, nel perdono, nella festa.

In un modello di vita alternativo che non vuol dire contro, ma possibilità altra, suggestione per “altro”. Lo possiamo esplicitare in tre parole:

- compassione, quella evangelica, che denuncia ciò che è dis-umano per restituire simultaneamente “l’umano mancante”;

- benedizione alternativo alla nostalgia e alla fuga. È dire: «anche questo presente è terra di evangelo»;

- condivisione che è alternativa alla chiusura in gruppo omologo e/o all’adattamento. E’ offerta, disponibilità.

 

Da dove cominciare?

Due buone domande per stare agli interrogativi:

Che cosa domandiamo alla fede: come vorremmo che la fede ci rendesse oggi, in questo mondo e per questo mondo? Nel nostro ambiente e nella situazione in cui ci troviamo a vivere e operare?

Che cosa la fede chiede a noi oggi, alla vita consacrata nella sua forma storica ed evangelica?

La strada per risignificare la vita consacrata è aperta, la Storia infatti impone dei mutamenti, provoca scelte…

 

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