È un
titolo provocatorio che, senza traumatizzare, ha comunque “preso per lo
stomaco” le “responsabili” della vita consacrata a vario titolo: Madri
Generali, Provinciali, delegate e incaricate delle segreterie USMI
diocesane e di pastorale del Triveneto, riunite in Assemblea annuale
(10/11 maggio a Torreglia PD), presentando una realtà che c’è, che forse
un po’ si conosce e si teme, ma non è certamente letta e compresa in
tutto il suo spessore…
Ma, andiamo con ordine.
La prima provocazione è venuta da Fratel Giovanni Dal Piaz, monaco
camaldolese, che con altri esperti religiose/i e sociologi
dell’Università di Padova stanno portando avanti l’Osservatorio sulla
Vita consacrata nel Nord-Est.
Dopo aver conclusa la ricerca sugli
“abbandoni” di chi già era entrato nella vita religiosa, sta cercando di
individuare quale sia la percezione dei giovani e delle giovani del
nostro territorio proprio riguardo alla vita consacrata.
Il quadro che si profila, anche se
solo abbozzato, dato che la ricerca è in itinere, è deludente se non
desolante: se la visibilità non è più immediata, la significatività lo è
ancora di meno.
Fr. Dal Piaz ha illustrato le prime
fasi del lavoro da poco avviato, ma che già rivela una “percezione
sociale” inaspettata, tale da sorprendere gli stessi ricercatori.
Giovani universitari, maschi e
femmine, che vivono nelle nostre strutture di accoglienza, alla
richiesta di che cosa evochi in loro la parola persona religiosa non
associano immediatamente ad essa frati e suore, ma solo dopo molti
stimoli. Questo induce a pensare che siamo fuori dal campo percettivo...
(estranei non solo semanticamente ma anche come rappresentazione
psicologica). Dobbiamo accettare, o almeno renderci conto, che per
l’uomo d’oggi, l’immagine, soprattutto quella mediatica, diventa più
reale della realtà stessa: «Io ero diventato reale perchè ero comparso
in televisione, non perché mi vedeva ogni giorno».
Se poi si entra nel merito della
concezione valoriale della vita religiosa che essi esprimono,
naturalmente mediata dalle loro esperienze di vita, ci si accorge che
sono fermi ai ricordi della scuola materna e che, comunque, riescono ad
esprimere una valutazione molto superficiale, certamente poco
incoraggiante (es. infantilismo, ipocrisia…) anche se non del tutto
negativa…
Un esempio: di fronte alle
provocazioni del film Magdaleine sisters, essi oppongono un certo
rifiuto: «Questo ambiente», dicono, «non c’entra niente con le suore…»
Emerge intanto non solo una “non
conoscenza” della persona consacrata, percepita per quello che fa e non
per quello che è o per le motivazioni che animano il suo agire, ma anche
una “non conoscenza” della vita comunitaria, che rimane totalmente
estranea dalla loro percezione.
Lo studio dell’Osservatorio sulla
vita consacrata si articolerà in altre direzioni e sarà utile seguirlo
con attenzione, proprio per non intraprendere vie di comunicazione e
iniziative di pastorale che siano completamente “fuori” della
comprensione e/o della visione che i giovani hanno della vita, della
fede cristiana, dei valori…
Si prevede anche un incontro
“alto”, nel senso di comunicazione significativa, di approfondimento e
studio, aperto alle Superiore Maggiori, per domandare a “figure robuste”
della carta stampata, della TV, della pubblicità se è un caso o una
scelta, la loro, di presentare un certo tipo di immagini riguardati
persone religiose, ossia:
- quale
immagine di consacrati e consacrate si veicola nelle riviste, nei
programmi televisivi, nei mezzi nuovi (internet o altro…)?
- quale
percezione si può avere attraverso la pubblicità (v. fraticelli che
rubano patatine, il grassone, le suore che fanno da mangiare), negli
inviti alle varie trasmissioni, sportive, di studio? …
- quali canali potenziali sono da
sfruttare? Le chat, piuttosto che i siti? O che altro?
Il cantiere dell’Osservatorio è
proprio aperto!
Quali sono le domande focali che
interpellano la vita consacrata?
Abbiamo riflettuto e ci siamo fatte
provocare da alcuni spunti presi dall’Istruzione Ripartire da Cristo. Ha
introdotto la riflessione la Dr. Cristina Simonelli che molto
concretamente, e in maniera convincente, se ce ne fosse stato ancora
bisogno, ha affermato che la vita consacrata non è assolutamente “altro”
dalla vita cristiana vissuta nell’oggi.
Un “oggi” da vivere con passione
nonostante le fatiche, anche perché certamente non c’è mai stato un
presente facile… e questa è la terra di Vangelo, il tempo che ci viene
dato per vivere e testimoniare la nostra fede.
Un dubbio può e deve assalirci, o
inquietarci, di fronte ai cambiamenti che constatiamo nella nostra vita
ordinaria, e di fronte a quelli ancora più radicali che emergono dalla
riflessione e dallo studio. E’ la gente che non ci capisce, non ci vede
o cosa altro?... Se è così, allora basta cambiare in qualche modo la
nostra maniera di presentarci al mondo… oppure occorre che cambiamo il
nostro punto di vista per capire di più la realtà da vivere come
cristiane e consacrate e diventare così compagne di viaggio nella vita
quotidiana dei nostri fratelli e delle nostre sorelle?
Un’immagine biblica tratta dal
libro dei Numeri (cap 22-24) attira la nostra attenzione: il re Balak
teme gli Israeliti accampati nelle steppe di Moab e manda a chiamare
Balaam perché le maledica… (vv.23,8), ma questi replica: «Come
imprecherò se Dio non impreca. Come inveirò se Dio non inveisce?…». Per
arrivare al cap 24,5: «Come sono belle le tue tende Giacobbe, le tue
dimore, Israele».
Interrogarci sul come servire Dio,
i fratelli e le sorelle che incontriamo sul nostro cammino comporta
discernimento, occorre scrutare quale può essere il pensiero di Dio
sull’umanità, assumere la Sua prospettiva…
La vita cristiana, e la vita
religiosa seria, deve uscire dagli schemi consolidati di giudizio, che
forse danno ancora sicurezza ma, poiché i tempi sono cambiati, non sono
più adatti a costruire dialogo e a testimoniare l’avvento del regno di
Dio.
Se ci abituiamo a interrogarci, a
porci domande di fronte ai fatti di vita, a non voler trovare le
soluzioni per tutto, – tanto meno secondo i nostri punti di vista –
allora, forse, diventeremo capaci di stare di fronte alla realtà in
maniera positiva.
Una concretezza esistenziale, anche
se caotica è il campo nel quale dobbiamo seminare il bene… impareremo a
benedire perché comprendiamo che la realtà è amata da Dio; a non
maledire, nel senso di dire-male, quando ci prende l’ansia, lo
smarrimento di fronte al caotico agitarsi della gente, al linguaggio
strano della gioventù, stipata in un tram di periferia, o presa dai
problemi di orario e di traffico in una stazione ferroviaria.
Balaam è chiamato dal re, che ha
paura, a maledire le tende di Giacobbe, ma il profeta afferma che le
tende sono belle... una bellezza non certo estetica… come potrebbe
essere bello un accampamento in mezzo al fango o al deserto?... Il
profeta vede il futuro, vede la vita, vede il bene che non si legge al
primo sguardo.
Se coltiviamo uno sguardo positivo,
una visione di speranza di fronte alla complessità, se superiamo la
sindrome dell’assedio di fronte al diverso, ai problemi degli immigrati,
della pace che non decolla, dell’indifferenza verso i problemi che non
riteniamo nostri... saremo donne capaci di far “precipitare
l’accusatore”, donne capaci di dire con libertà quello che il Vangelo ci
ispira: per esempio, che non ci sono e non possono mai esserci bombe
cristiane buone e che le altre sono cattive... Mostreremo di essere
donne capaci di avere idee, di essere propositive, di fare la nostra
parte, anche in politica, per il superamento delle differenze. Questo
avverrà se supereremo per prime anche una visione “gerarchica delle
persone”, per cui automaticamente si considera una persona migliore di
un’altra… E’ ormai tempo di superare timori reverenziali…
Ci è chiesto di lavorare e di
impegnarci come donne che operano nella libertà, perché coscienti di
servire la Chiesa e l’umanità nel promuovere speranza e diffondere
consolazione, nel costruire comunità di vita… Forse siamo frenate perché
non sappiamo come partire, ma se aspettiamo a partire quando avremo
chiaro dove arrivare non lo faremo mai… e allora diamoci da fare…
Camminando si apre il cammino
*
Sentire che è bello essere in un certo luogo anche se non lo vediamo...
siamo lievito
*
Fare i passi possibili... cambiare la testa... OK, ma la testa è
legata ai piedi : se non viviamo una certa realtà, non incontreremo mai
alcune persone e… non saremo mai provocate a cambiare la testa.
*
Sentirsi in ricerca, e… provare un po’ di disagio di fronte alla
missione ci aiuta a stare sulle domande.
L’estraneità della vita religiosa
di fronte alla società è sempre relativa, perché noi «siamo nel mondo ma
non siamo del mondo»…
Nel dibattito che abbiamo avuto con
don Giuseppe Laiti, in qualità di facilitatore, siamo state invitate a
fare chiarezza sui concetti che sentiamo sovente ribadire. Poiché questo
può interessare tutte, riportiamo alcuni interrogativi che ci siamo
poste:
Siamo estranei come religiosi/e, o
come cristiani/e?
L’estraneità più seria – quella che
ci deve interpellare – non è quella della vita consacrata più o meno
riconosciuta, apprezzata, ma quella della fede cristiana che è
fondamento del vivere... Il resto si relativizza.
Come religiose dobbiamo stare
attente a non lasciarci abbagliare o gratificare dai consensi, né
lasciarci scoraggiare dai dissensi, dalle critiche e/o difficoltà che
possiamo incontrare nel nostro cammino missionario.
Non sentiamoci legittimate, a
posto, perché c’è il consenso attorno a noi, alle nostre attività.
Domandiamoci piuttosto: «Quali sono
i motivi del consenso... e quali quelli del dissenso?»
I cambiamenti avvenuti nella nostra
realtà socio-ecclesiale ci chiedono una riflessione seria, non la
ricerca dei compromessi.
Bisogna cercare un equilibrio di
significato.
Agli Apostoli che chiedevano:
«Signore è questo il tempo nel quale costituirai il Regno di Israele?»
(At 1,6) Gesù rispose: «Riceverete lo Spirito santo e mi sarete
testimoni…»
Discernere qual è il nostro punto
di vista. Quali sfide raccogliamo, per quali motivazioni... Vangelo,
carisma .. interessi dell’opera...?
Come procediamo cercando di
rispondere con verità? O come ci giustifichiamo? I problemi ci sono, ma
bisogna riconoscerli, non nasconderli e domandarci, come fecero i giudei
con Pietro, «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37).
E’ ovvio che non possiamo più agire
come prima. Dobbiamo cambiare mentalità non per adeguarci al mondo ma
per essere fedeli a Dio e alla Storia e riconoscere i segni dei tempi…
Se non possiamo più agire come
prima, però, questo non vuol dire che sia un segno negativo. Come del
resto, il fatto che occorra intraprendere altre vie, altre modalità di
vita non significa che il cammino percorso finora sia stato sbagliato,
sono soltanto cambiati i tempi…
Inoltre, dobbiamo porre
un’attenzione particolare nell’aver cura del buon clima ecclesiale.
Quest’attenzione ci fa capire non solo come muoverci oggi, ma ci fa
anche valorizzare il passato. Ci mette nell’occasione di creare coerenza
tra persone, comunità e struttura... non preminenza di una sull’altra,
ma coerenza; una struttura santa non salva nessuno, ma una struttura che
non funziona rovina molti... aiutare le persone e non far saltare le
relazioni... far vedere che siamo qualcosa di positivo e di alternativo,
diverso dal modello proposto dalla società di oggi, che valorizza solo
il forte, il bello, l’efficiente, ecc.
Occorre in definitiva rischiare il
carattere evangelico della vita consacrata: è più facile essere
“religiosi” che “cristiani”! Noi siamo chiamate ad essere l’eco della
buona notizia da parte di Dio!
- un Dio per gli uomini in Cristo;
- a creare fraternità e sororità
che valorizzano la qualità delle relazioni;
- ad assumere criteri di
valutazione/giudizio ispirati al Vangelo e che il funzionamento della
istituzione tende a far circolare o a incrementare (maturazione delle
persone che così superano l’ipocrisia).
Che
cosa dobbiamo rischiare?
In formazione, costruire
“mentalità”, stile di vita. Incrementare nelle persone il raccordo tra
ispirazione, competenze, condizioni storiche.
In “ambienti di vita” in cui è
evidente la qualità delle relazioni: comunità di sororità e fraternità,
passando da comunità funzionali a comunità segno che non vuol dire
comunità “comode”/borghesi, ma comunità che vivono ed elaborano la vita
cristiana che propongono, fanno esperienza delle relazioni che vivono
nella fede, nel perdono, nella festa.
In un modello di vita alternativo
che non vuol dire contro, ma possibilità altra, suggestione per “altro”.
Lo possiamo esplicitare in tre parole:
- compassione, quella
evangelica, che denuncia ciò che è dis-umano per restituire
simultaneamente “l’umano mancante”;
- benedizione alternativo
alla nostalgia e alla fuga. È dire: «anche questo presente è terra di
evangelo»;
- condivisione che è
alternativa alla chiusura in gruppo omologo e/o all’adattamento. E’
offerta, disponibilità.
Da
dove cominciare?
Due buone domande per stare agli
interrogativi:
Che cosa domandiamo alla fede: come
vorremmo che la fede ci rendesse oggi, in questo mondo e per questo
mondo? Nel nostro ambiente e nella situazione in cui ci troviamo a
vivere e operare?
Che cosa la fede chiede a noi oggi,
alla vita consacrata nella sua forma storica ed evangelica?
La strada per risignificare la vita
consacrata è aperta, la Storia infatti impone dei mutamenti, provoca
scelte…
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