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In
lingua spagnola (nel dulce idioma de Castilla) la parola
amable, magari preceduta dal rafforzativo muy (= molto), è
normalmente usata come espressione di gratitudine; potrebbe essere
tradotta con il nostro grazie, ma è e dice qualcosa di più. La persona
che si sente rivolgere tale apprezzamento, infatti, specie se abituata a
un’espressione convenzionale più semplice, riceve come un messaggio di
stima che s’estende a tutta la persona e le lascia in cuore la
sensazione molto gradevole non solo di un atto di cortesia grata, ma
della sua personale dignità di essere amato/a, o della sua capacità di
meritare l’amore. Come si sentisse dire: “sei buono/a…, sei bello/a…,
sei degno/a di essere benvoluto/a…, è giusto e doveroso, ma pure facile
e naturale volerti bene…”.
E sentirsi dire questo
vuol dire rispondere a un’esigenza profondamente radicata nel cuore
umano, spesso relegata nei recessi oscuri dell’inconscio, e pure sempre
presente, come un’attesa o domanda cui è indispensabile dare risposta.
Sarebbe davvero molto bello che le relazioni umane fossero sempre
portatrici di questo messaggio, anche nelle nostre comunità!
Ma che vuol dire
amabilità? E come metter insieme l’amabilità di sé e dell’altro/a?
L’amabilità in sé (e
di sé)
L’amabilità è la
propria dignità affettiva, è percepirsi meritevoli di essere amati.
Potremmo dire che è l’equivalente, sul piano della maturità affettiva,
del concetto di stima-di-sé: se stimarsi vuol dire avere una percezione
sostanzialmente e stabilmente positiva dell’io, avere il senso della
propria amabilità significa cogliere la propria persona come degna di
essere benvoluta e, di fatto, amarla, cogliendone bellezza e mistero. E
come la stima di sé giunge al termine di un percorso in cui la persona
ha identificato la propria positività essenziale (quella che la
costituisce nella sua essenza), così la coscienza della propria
amabilità è la risultante di un processo non proprio scontato, e che
invece dovrebbe essere oggetto di attenzione formativa sia nel periodo
della formazione iniziale sia successiva, fino alla morte, cioè al
momento dell’abbraccio e del bacio del Signore, che suggellerà
un’amabilità per sempre, o renderà definitivamente amabile la nostra
persona.
Vediamone alcune tappe.
Pre-diletti
Secondo un’elementare
legge psicologica, l’essere umano riceve il primitivo senso della
propria amabilità (la cosiddetta fiducia-di-base) dai genitori. In tal
senso possiamo dire che tutti, più o meno, siamo stati amati da genitori
buoni e volenterosi, ma certamente limitati, non perfetti, lungo un
percorso esistenziale in cui bene e male, slanci d’amore e chiusure
meschine, generosità ed egoismi… si sono continuamente mescolati tra
loro e di cui siamo in qualche modo il frutto. Nulla di strano. Non
esiste alcun diritto alla vita perfetta, a genitori perfetti, a
un’infanzia senza problemi, ad educatori e amici ideali, a contesti ed
esperienze ottimali. Anche la nostra amabilità sembra legata a questo
intreccio personale storico di positivo e negativo. Con il risultato che
ci sentiremo più o meno amabili, a seconda che prevalga il primo o il
secondo, con l’eventualità che qualcuno sia meno fortunato di altri.
Detto così, sembra che
tutto sia già stato scritto nel nostro destino, con poco margine per la
nostra libertà, oltre la possibilità di accettare quanto già è successo
o di… rassegnarci di fronte a ciò che non si può più cambiare.
In realtà il passato
non si limita alle vicissitudini delle nostre esperienze infantili. C’è
un dato primordiale che va colto nella sua straordinaria ricchezza di
senso e che anticipa tutto ciò, anzi, ne diviene come una chiave di
lettura senza la quale rischiamo davvero di distorcere il senso della
vita e della nostra storia. È quel dato che viene dalla fede, nel quale
è inscritta una volta per tutte la nostra amabilità radicale: siamo
figli di Dio, venuti all’esistenza per un suo sovrano atto d’amore,
da Lui preferiti alla non esistenza, dunque amabili, considerati degni
di esserci: pre-diletti (= amati prima). Così Guardini: «Io...
ho ricevuto me stesso. Al principio della mia esistenza… non sta
una decisione di essere, presa da me stesso. Tanto meno semplicemente ci
sono, senza che necessiti di alcuna decisione d’essere... Bensì al
principio della mia esistenza sta un’iniziativa, un Qualcuno, che ha
dato me a me stesso. In ogni caso sono stato dato, e dato come
quest’individuo determinato»1.
Gratitudine
Gli fa eco Von
Balthasar: «solo una cosa è esclusa: che io consideri la mia
esistenza… come una cosa ovvia, dovuta, necessaria...; ora importa
soltanto che il mio intimo venga compenetrato dalla consapevolezza che
nulla di ciò che sono e che mi viene continuamente donato mi è dovuto,
né la vista della luce, né il sorriso di un altro uomo, né il poter
amare situazioni, cose, amici, ecc.; in tutto questo vi è un momento di
dono, che esige e suscita uno spontaneo ringraziamento»2.
La gratitudine per
tutto ciò è tutt’uno col senso della propria amabilità, che ci viene… da
lontano, da prim’ancora di esistere. Ecco ov’è radicata e nasce la
nostra amabilità, e in definitiva anche la stima di noi stessi, prima di
essere affidata alle eventuali fortune della vita terrena.
Ma questo non sminuisce
certo l’importanza delle stesse esperienze terrene e la loro incisività
sul nostro equilibrio psichico e maturità generale, semplicemente il
dato della fede è qualcosa che non potrà mai essere smentito da nessuna
di esse, e che dunque continua lungo la vita, più forte di ogni
sfortuna, indistruttibile. Come infatti continua Von Balthasar: «L’atto
che mi dà a me non è accaduto all’inizio per poi interrompersi ed
abbandonarmi a me stesso: esso continua ad accadere,
accompagnandomi, così come da una fonte zampilla nuova acqua e tuttavia
sempre la stessa. Io vengo essenzialmente accompagnato dall’origine, che
mi porta in modo tale che posso rivolgermi a lei in ogni momento»3.
Libertà affettiva
In questo dato delle
origini non c’è solo la psicogenesi della nostra amabilità, ma da esso
deriva una conseguenza molto importante anche sul piano psicodinamico,
ovvero la libertà affettiva. Che consiste in due certezze: la
certezza di essere già stato amato/a, da sempre e per sempre, e
la certezza di poter amare, per sempre. Ora è proprio il dato
credente delle origini che mi dà entrambe queste certezze, e me le dà
come nessun’altra realtà mondana me le può dare, solo Dio mi ama da
sempre e per sempre! Al tempo stesso l’essere figlio o figlia di Dio
comporta l’essere stato creato/a a immagine e somiglianza sua, ovvero
capace d’amare alla maniera divina, col suo cuore e la sua libertà, e
dunque di stabilire relazioni altrettanto libere e liberanti, come
vedremo ora.
Integrazione della propria storia
Altra conseguenza
preziosa del dato credente: l’integrazione della nostra storia.
Porre l’amore di Dio all’inizio della vita vuol dire assumere un preciso
criterio di lettura della vita stessa, che è l’amore stesso divino. E
allora avviene un fatto estremamente importante sul piano della
integrità psichica: diveniamo capaci di leggere la nostra storia, di
riconoscervi l’amore giunto a noi attraverso le mediazioni sia pur
limitate degli eventi terreni, dei nostri genitori, ecc., perché solo
l’amore sa leggere l’amore.
È come se la certezza
dell’amore divino divenisse il criterio ermeneutico della vita, ciò che
consente di riconoscere, al di là e pure dentro le fragilità, le
contraddizioni e le ferite terrene, la presenza di un amore più grande
di tutto questo e che pure, al tempo stesso, giunge a noi anche
attraverso questi limiti4. Mistero grande! L’amore perfetto sopporta la
mediazione imperfetta. Anzi, questa scoperta riempie il cuore di
gratitudine commossa per l’amore ricevuto, sempre più grande di quello
meritato, consente di riconciliarsi profondamente con le situazioni
incresciose della propria storia e con chi le può aver determinate, fa
sentire in cuore l’esigenza di rispondere all’amore ricevuto con il
proprio amore donato.
Amabilità nelle
relazioni (o dell’altro)
La nostra amabilità
viene dunque da Dio, ma non un Dio qualsiasi, bensì il Dio-Trinità, il
Dio-Padre che genera il Figlio nello Spirito, ovvero il Dio-relazione.
Che ci rende capaci di aprire la nostra vita all’altro/a, capaci di
relazioni amabili, ove l’amabilità dell’uno/a si estende all’altro/a. A
immagine della dinamica trinitaria.
Solo la Trinità,
infatti, fa spazio veramente all’altro/a, perché la Trinità è
questo spazio, è lo spazio abitabile dall’altro/a; solo un Dio
che non sia monolitico né pura onnipotenza autosufficiente (e dunque
chiusa in se stessa), ma che sia relazione, esodo da se stesso, avvento
d’una eterna relazione di dialogo, di dono, di amore ricevuto e
restituito, dà anche lo spazio e la possibilità all’altro/a di esistere
in sé. Noi esistiamo perché Dio è Trinità, dimora accogliente, grembo
materno, spazio relazionale. Solo perché Dio è tale spazio («l’alterità
originaria in relazione»5), anche noi esistiamo. Ed esistiamo affinché,
inseriti per grazia in questo circolo d’amore, possiamo stabilire
“relazioni amabili”, di piena accoglienza dell’altro.
Che vuol dire in
concreto?
Accoglienza incondizionata
Significa, anzitutto,
assenza di condizioni o restrizioni nella relazione con l’altro/a, o
libertà di amare perché unicamente attratti dalla sua dignità e verità
d’essere, perché l’altro/a lo merita. L’amore, in tal senso, è
«l’accoglienza incondizionata dell’altro/a»6, e il bene è l’offerta
ospitale dei propri spazi all’altro/a, perché l’altro/a vi possa
abitare, cogliervi la sua positività e realizzarla; così come il singolo
ha sperimentato l’accoglienza da parte del Dio-Trinità nei suoi
confronti.
Straordinaria
l’intuizione di Florenskji circa la natura del male, definito con
stringata e felice sintesi come «l’autoaffermazione inospitale»7,
come «un’autosufficienza che rende inetti al dono e a ogni
accoglienza, fino a portare la persona alla frantumazione del suo nucleo
interiore»8. Male è dunque la pretesa di stabilire la relazione
solo a determinate condizioni, la pretesa d’imporre all’altro/a un modo
d’essere, quasi di omologarlo/a a sé e ai propri criteri o gusti.
Sarebbe come far violenza all’io e al tu, che conduce alla frantumazione
d’entrambi.
Amabilità oggettiva
Accogliere l’altro/a in
modo incondizionato significa accoglierlo/a nella totalità del suo
essere, nel suo mistero. E proprio raggiungendo la persona nel suo
mistero si può coglierne l’amabilità radicale, come uno zoccolo puro e
duro che non potrà essere scalfito da alcunché, destinato a durare per
sempre, al di là del peccato e di ogni contraddizione. È quell’amabilità
che deriva all’essere umano dal fatto di essere creato da Dio e a
immagine sua: in forza di ciò l’uomo è amabile per quello che è, non
necessariamente per quello che fa; e viceversa può essere
rifiutabile per quel che fa, mai per quel che è. Come Gesù ci mostra
nell’episodio dell’adultera, da lui accolta e riconosciuta nella sua
intatta amabilità oggettiva, e liberata dagli schemi
percettivo-interpretativi negativi di cui era stata oggetto fino a quel
momento.
Allo stesso modo saper
intercettare nell’altro/a la sua amabilità oggettiva vuol dire fargli
dono della stima come d’un giudizio limpidamente positivo sulla sua
persona, non come “sforzo” della mente che chiude gli occhi sulle
magagne altrui; significa forse fargli scoprire per la prima volta la
sua positività radicale, e dunque farlo/a rinascere a vita nuova,
infondergli fiducia, provocarlo/a a diventare quel che in qualche modo è
già o si porta dentro il cuore: quel seme di somiglianza di Dio in cui è
nascosta la sua verità e che è condizione della sua felicità9. Vuol dire
amarlo “in Dio”, più che “per amore di Dio”…
Laddove non c’è stima,
non vi può essere amore, né relazione amabile.
Responsabilità reciproca
Conseguenza
inevitabile: io sono responsabile di te. Mi sta a cuore la tua
vita, la tua persona, la tua crescita, la tua realizzazione di quel seme
di positività…, e non per un atto di carità, o per uno sforzo (ancora) o
per una concessione benevola, ma perché «l’epifania dell’altro è ipso
facto la mia responsabilità nei suoi confronti: la visione del tu è
fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti… La coscienza è l’urgenza
di una destinazione che porta all’altro/a, non l’eterno ritorno su di
sé»10.
Vivere in comunità e
costruire relazioni amabili vuol dire dunque farsi carico della vita
dell’altro/a, nel bene e nel male, senza sentirsi scontatamente dalla
parte del bene. Inquietante e illuminante, a tal riguardo, è la
“visione” di Berdjaev. Il quale immagina che alla fine dei tempi Dio
rivolgerà, stranamente, ad Abele la stessa domanda rivolta a Caino
all’inizio dei tempi: «Cos’hai fatto di tuo fratello Caino?»11, quasi
per chiedere al bene, e a chi si sente buono, quanto si senta
responsabile del male altrui, quanto se lo sia caricato sulle spalle, o
cos’abbia fatto (o omesso di fare) per prevenire quella caduta o per
capirla, o se si sia accontentato di pregare per lui e perdonarlo…, per
coprire quella che è stata chiamata «la sottile violenza dei giusti».
Chiunque voglia davvero
essere responsabile deve aver il coraggio di lasciarsi scaraventare
addosso da Dio una domanda così… a punta.
Il bisogno dell’altro
C’è chi lo chiama “il
complesso di Atlante”, e sarebbe la sindrome di chi pensa di dover
portare tutto il peso del mondo sulle spalle, o il peso della comunità e
dei peccati altrui. No, sarebbe pericoloso, oltreché impossibile,
rischierebbe non solo una brutta artrosi (spirituale), ma soprattutto
quel senso narcisistico di sé, che è molto diverso dall’autentica
amabilità e non consente di stabilire relazioni amabili, per un motivo
preciso: Narciso non comunica stima all’altro/a, se la tiene… tutta per
sé, solo lui è buono e financo eroico, né ha bisogno di nessuno.
E invece, affermiamo
chiaramente che se da un lato è necessario sentirsi responsabili
dell’altro/a, allo stesso modo è fondamentale sentire il bisogno
dell’altro/a. Poiché l’altro/a, chi mi vive accanto, è la via sicura
- proprio perché non ci siamo scelti tra noi - lungo la quale Dio ha
deciso di venire a me e io posso giungere a lui. Il fratello o sorella,
coi suoi limiti e problemi, rappresenta la mediazione normale, ancorché
misteriosa, della presenza e della volontà di Dio; io dunque ho bisogno
della sua persona, della sua parola, della sua presenza… per incontrare
il volto di Dio nella mia vita al di là delle mie fantasie soggettive.
Allora si crea quella simmetria entro la quale scorre la reciprocità
dello scambio, ma anche la reciprocità dell’affetto e della stima, e si
cresce tutti insieme. Così le relazioni divengono amabili12.
C’è una bella icona
evangelica che dice in sintesi tutto ciò. È la scena che ritrae alcuni
mentre portano sul lettino un paralitico, addirittura scoperchiando un
tetto per condurlo a Gesù (cfr. Lc 7,17-26). Del paralitico non sappiamo
nulla, neanche quanto credesse in Gesù, il quale interviene – sottolinea
Luca – «vista la loro fede», la fede degli altri, di chi lo portava a
spalla. Così è una comunità religiosa (al di là dell’immagine un po’…
clinica): una comunità di fratelli, o sorelle, che si fan carico del
fratello o della sorella debole, nello spirito o nel corpo, e lo/la
portano a Gesù perché lo/la guarisca. Ma senza sentirsi degli eroi e
senza dimenticare una cosa: che ognuno di loro, tante altre volte, è
stato portato sulle spalle dagli altri. Anche quando non se n’è
accorto/a e non ha ringraziato nessuno.
Vivere da fratelli e
sorelle relazioni amabili significa vivere insieme le due cose: portare
e lasciarsi portare.
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