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Dialogo,
una parola amata
e tanto diffusa oggi anche se o forse proprio perché la realtà a cui si
riferisce è ancora latitante.
Del dialogo la nostra
cultura ha trasmesso due diverse accezioni: il dialogo
didattico-persuasivo di derivazione platonica, in cui chi sta più avanti
cerca di persuadere o convertire l’altro, e il dialogo-incontro in cui
gli interlocutori mirano soprattutto a conoscersi e a entrare in
rapporto, cercano di far crescere la reciproca accettazione e stima,
eliminando i pregiudizi. In questo senso oggi si parla di dialogo tra le
religioni o tra le civiltà (con buona pace di chi preferisce invece
parlare di ‘scontro di civiltà’); oppure di dialogo all’interno della
Chiesa.
Il dialogo come
profezia incompiuta
Nella Chiesa il dialogo
è divenuto un tema e un valore fondamentale dichiarato a partire dal
Vaticano II. Non solo perché il concetto vi è molto presente, ad esempio
costituisce l’idea centrale nel n. 92 della costituzione Gaudium et
Spes e in tutta la dichiarazione Nostra Aetate, che verte sul
dialogo con le religioni non cristiane, ma per l’evento conciliare in
sé; il dialogo non è una novità dottrinale, non è solo un ingrediente
sia pure essenziale, ma proprio la cifra di un nuovo modo di “essere
Chiesa” e di “fare Chiesa”: un modo caratterizzato dall’attenzione
all’altro e ai valori di cui l’altro è portatore, anziché dalla
persuasione anticipata della propria superiorità e quindi dal giudizio
(nel senso inteso da Gesù quando dice ai suoi discepoli “non giudicate”:
condanna previa ed emarginazione del diverso).
Nella fase preparatoria
del Vaticano II (1960-62) filtravano all’esterno solo scarne notizie sui
temi che dovevano essere dibattuti e sul previsto lavoro delle
commissioni: l’ambiente di curia aveva imposto il silenzio, come se non
il “dialogo” con il mondo (di cui ancora non si parlava), ma la semplice
comunicazione costituisse un elemento di debolezza. In questa fase,
com’è noto, una parte dei padri conciliari, che avevano il loro capofila
nel card. Ottaviani, avrebbe voluto un concilio dogmatico che ribadisse
con chiarezza la verità cattolica tradizionale, mentre un’altra parte,
di cui era portavoce il card. Bea, aspirava a stabilire quantomeno le
premesse per un dialogo autentico con il mondo, con i cristiani non
cattolici e con i credenti di altre religioni.
Il Vaticano II si
realizzò ben al di là delle proprie premesse: fu un concilio ecumenico,
pastorale, deliberatamente non dogmatico-definitorio, e soprattutto
riuscì a generare una prassi di dialogo e libera discussione sulle
questioni emergenti, su quanto via via era proposto e discusso al
Concilio (non solo quindi su ciò che veniva approvato, come avrebbero
voluto i Padri di orientamento tradizionalista), e non solo a Roma ma
nelle chiese locali. In molti casi (pensiamo alla riforma liturgica) lo
spirito del Concilio si spinse profeticamente molto più avanti rispetto
alla lettera.
Oggi nessuno potrebbe
negare in via di principio che la diversità sia una ricchezza e che
l’unità sia altra cosa dall’uniformità. Eppure la situazione di oggi
evidenzia segni di stanchezza e di immobilismo rispetto alla “primavera
conciliare” così rimpianta da molti che ebbero la fortuna di viverla. La
Chiesa parla ancora e molto spesso di dialogo, ma di preferenza
rivolgendosi a quelli che sono fuori, senza avvertire l’esigenza
parallela di un vero dialogo al proprio interno. I laici, di cui nessuno
disconosce in teoria importanza e dignità, non hanno voce né spazio
operativo all’interno della Chiesa istituzionale, e mancano gli stessi
canali per comunicare, i luoghi del dialogo e del confronto.
Non mancano le parole,
anzi abbondano; né mancano i “grandi eventi” ecclesiali, che risultano
di straordinaria visibilità e suscitano l’interesse dei mass-media; ma
non sono luoghi di dialogo. La comunicazione che ha luogo in questi casi
non può chiamarsi dialogica, in quanto predisposta e unidirezionale.
Nell’immediato
postconcilio si verificavano conflittualità violente e talvolta poco
equilibrate, ma nell’insieme vi era un forte senso del proprio essere
Chiesa. Oggi forse non altrettanto. Le spinte contestative si sono
affievolite e disperse, e questo non è necessariamente un segnale di cui
rallegrarsi: può infatti significare che non si spera più molto, che non
si ha più desiderio o forza di impegnarsi attivamente, che si è smarrita
la fiducia nell’interlocutore e nelle sue possibilità di ascolto.
Molti hanno
“privatizzato” impegno e dissenso; in certi casi fino a determinare
quello che talvolta viene giustamente definito uno scisma sommerso.
Molti si sono di fatto allontanati dalla comunità ecclesiale, senza
sbattere la porta. È una grave emorragia silenziosa che continua a
sottrarre alla Chiesa una parte delle sue migliori energie ma che,
proprio perché silenziosa, può facilmente venire ignorata.
Questa situazione
interpella la Chiesa tutta, in tutte le sue componenti, a ricercare
spazi e tempi e strumenti per il dialogo, anche inediti; e a valorizzare
quelli che possono già esistere. Il dialogo non è un metodo, una
strategia, un fatto episodico. È un modo di essere e in esso si
manifesta l’identità stessa della Chiesa. Lo stesso magistero della
Chiesa non si può comprendere se non nella dinamica di una Chiesa in
cammino nella storia.
L’evangelo, la “buona
notizia” è affidata agli esseri umani che hanno la responsabilità di
proclamarla e trasmetterla. La “comunicazione” non è estranea alla buona
notizia.
Un Dio in dialogo
Per un credente il
dialogo non è solo un metodo, non è un evento circoscritto, piuttosto
uno stile di vita e potremmo quasi dire un imperativo etico, radicato
nella logica stessa della creazione/redenzione. Certo, come fu
sottolineato da molte voci tradizionaliste all’indomani del Concilio, la
parola dialogo nella Bibbia non si trova, e nemmeno la tecnica
corrispondente; ma non si può dire che vi manchi la realtà, l’etica del
dialogo. L’Alleanza si fonda sull’idea di un Dio in dialogo, in
cerca degli uomini: un Dio vicino, un Dio capace di ascolto, un Dio
capace di “ritirare” in parte il proprio infinito per fare spazio alla
finitezza delle sue creature. Creature che sono limitate certo, non però
cristallizzate nel proprio limite, bensì in cammino di evoluzione
permanente.
La vicinanza di questo
Dio ci viene portata in modo speciale e definitivo da Gesù di Nazaret,
uomo del dialogo in un senso inedito, profondo e anzi “fontale”
proprio in quanto in lui abbiamo accesso alla vicinanza dialogica di
Dio. Certo Gesù si pone come profeta e maestro, dunque dal nostro punto
di vista è uno che insegna, uno che “parla” ad altri che “ascoltano”;
eppure prende estremamente sul serio i suoi interlocutori, compresi i
più immaturi e maldisposti. Interpella a fondo, ma si lascia anche
interpellare. Cambia la vita di quelli che incontra, ma anche lui
reagisce nel profondo alle persone che si trova davanti, fino a cambiare
in certi casi i propri programmi messianici, come nell’episodio della
sirofenicia.
Anche le sue parabole
sono uno strumento di dialogo talvolta sorprendente e paradossale: un
modo per incontrare nel concreto della vita l’interlocutore che a un
discorso più teorico potrebbe reagire con la chiusura. A volte una
parabola, più che a “far capire” con chiarezza, tende a sconcertare; e
anche questo è dialogo, comunicazione intensificata che nasce dall’amore
e tende all’amore.
Ospitare l’altro in
sé
Ancora una volta
l’amore è la chiave di tutto. Nel senso cristiano-personalistico il
dialogo non è un fatto formale, un parlare alternato, a botta e
risposta. Vi è infatti un parlare a turno che non è dialogo affatto
(pensiamo a certi dibattiti televisivi!). Il dialogo vero è
essenzialmente relazione; si esprime in parole, ma non solo, e avviene
nel riconoscimento, nel rispetto dell’identità dell’interlocutore come
“altro”. Ciò vuol dire non come nemico da vincere, ma neppure come
prolungamento di me né cassa di risonanza del mio pensiero. Una
relazione radicata in una comunione fondamentale che già esiste nel
progetto di Dio e nelle comuni strutture di umanità, ma che dev’essere
esplicitata e resa vivente: tende a un avvicinamento e a un’unione più
profonda, a un bene reciproco più grande anche di quello delle persone o
dei gruppi in dialogo.
Cioè, quando due
(persone o gruppi) riescono ad assumere tra loro un autentico
atteggiamento di dialogo, non è solo la loro relazione a giovarsene, ma
tutto il tessuto dei rapporti fra le persone, l’intera comunità umana.
Per dialogare non basta
parlare insieme, anche se parlare insieme è comunque importante, un
agire “umano” per eccellenza. Dialogare richiede la consapevolezza del
proprio limite da tutt’e due le parti. Essere in dialogo significa
aprirsi all’altro, ospitarlo in sé e trasformarsi interiormente, anche a
prescindere dall’esito dialettico (insomma da chi avrà ragione alla
fine, cosa spesso non chiara); significa, anzi, accettare di diventare
un po’ “altro” in seguito al confronto con l’altro, senza smarrire per
questo la propria identità, che diviene, anzi, più forte e feconda,
purificata dalle opacità difensive. Invece, troppo spesso ascoltare è
solo un silenzioso affilare le armi, in attesa che arrivi il proprio
turno di parlare per “vincere”...
Bello è, a questo
proposito, il verbo con-vincere, che evoca un “vincere insieme”:
vince chi ha ragione, ma anche l’altro in quanto cresce, superando
almeno in parte una posizione che lo limitava.
Laddove sussistesse
l’ipotetico possesso pieno della verità, effettivamente il dialogo non
avrebbe niente da offrire, nemmeno come esercizio intellettuale. Invece
scopriamo che risvolti insospettati e frammenti preziosi dell’unica
Verità che siamo chiamati a servire possono rivelarsi a noi attraverso
vie insolite; che la parola stessa di chi non crede può dischiudere
autenticità nuova e risonanze inaspettate alla nostra fede. Tutti
abbiamo il dovere di servire la Verità, ma nella consapevolezza che
pretendere di possederla e ridurla a un dato immutabile, o identificarla
con le “nostre” verità più o meno illuminate ma sempre parziali,
contestuali, provvisorie (almeno quanto alla formulazione e alla
traduzione nel vissuto), significherebbe per ciò stesso tradirla.
Per essere in dialogo
occorre uno spirito di fede vigile e critico, sostenuto da una certa
conoscenza storica che serve a evitare la sacralizzazione indebita di
quanto è semplicemente un prodotto di vicende e mentalità umane. Questo
consente di illuminare molti conflitti, aiutandoli a evolvere in
“confronto”. E occorre fede autentica e vissuta nello Spirito santo e
nella sua opera.
Donne credenti per il
dialogo
Forse è troppo poco
parlare di “dialogo nella Chiesa”, forse si tratta proprio di edificare
la Chiesa in dialogo, che esiste finora quasi solo come intuizione
profetica, come sogno di Chiesa. Le donne hanno in questo un ruolo e una
responsabilità particolari. Da sempre, anche se o proprio in quanto
erano escluse dal potere, hanno sviluppato una sensibilità particolare
alle dinamiche dell’ascolto e della relazione interpersonale. Queste
dinamiche devono essere avvalorate, non considerate incombenza o pascolo
riservato delle donne, qualificare tutte le relazioni umane sia nella
Chiesa sia nella società secolare, non solo le relazioni di natura
privata o intima ma, per quanto possibile, anche le realtà più allargate
e le stesse istituzioni – sempre esposte al rischio di perdere anima, di
diventare fine a se stesse e di sopravvivere in funzione della propria
sopravvivenza,
Per diventare
ispiratrici, protagoniste, autrici del dialogo intraecclesiale e
inter-ecclesiale (crediamo ben difficile che uno solo dei due versanti
possa fiorire da solo: riteniamo che simul stabunt simul cadent),
le donne sono interpellate da doveri precisi: il desiderio generico, la
generica disponibilità non bastano. Il primo dovere è quello di
studiare, sperando che questa istanza non si faccia recepire in senso
piattamente mentale. È così: se non si impara a comprendere la lingua
dell’altro fino a parlarla, occorrendo, è difficile saperla “smontare”
per diagnosticarne il limite, è difficile poter realizzare qualcosa di
diverso e migliore, è difficile edificare insieme una teologia integrale
al servizio di una Chiesa fraterna. Studiare è indispensabile affinché a
una Chiesa tuttora maschile e celibataria non sia troppo facile ignorare
le donne come interlocutrici; è indispensabile anche per sé, per
affrancarsi da ogni sudditanza spirituale e intellettuale nei confronti
del clero. Non può esserci comunione finché c’è sudditanza, non può
esserci dialogo finché i due interlocutori non sono alla pari.
Inoltre le donne devono
occupare tutti gli spazi ecclesiali che sono loro aperti nel momento
presente, pur riconoscendo senza mezzi termini la loro insufficienza, e
occuparli con grande generosità, “qualità”, efficacia, ma ricordando
sempre che vi è altro da fare.
In questo momento
storico, più che in ogni altro forse, esercitare il ministero profetico
del dissenso è una responsabilità che non si può eludere: occorre farlo
senza lasciarsi neutralizzare, ma anche il proprio dissenso deve essere
sottoposto a discernimento e purificazione permanente: consapevoli del
fatto che manifestare lealmente il proprio dissenso quando occorre, con
amore autentico e in piena parrhesìa, è un modo qualificato e
necessario di servire la Chiesa.
A questo punto sembra
quasi superfluo ricordare la terza istanza, fondamentale per ogni
credente quale che sia la sua condizione: crescere nella fede, nella
speranza e nell’amore. La fede non svaluta ma illumina l’esercizio
dell’intelligenza, della coscienza e della critica; la speranza non è
facile ottimismo e non è generica, ma tende a incarnarsi nell’impegno
storico; l’amore teologale, risposta a quell’amore infinito con cui Dio
ci ama per primo, è un amore che chiama a vivere e trasfigura, un amore
esigente e pieno di tenerezza, paziente e sfidante, dialogico sempre –
anche negli spazi inquietanti dell’apparente silenzio di Dio. – Infatti,
i momenti in cui Dio sembra tacere sono i momenti in cui Dio si pone in
attesa di una nostra parola autonoma: il vertice del dialogo.
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