n. 4
aprile 2006

 

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VIVERE IL DIALOGO NELLA CHIESA

di Lilia Sebastiani

 

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Dialogo, una parola amata e tanto diffusa oggi anche se o forse proprio perché la realtà a cui si riferisce è ancora latitante.

Del dialogo la nostra cultura ha trasmesso due diverse accezioni: il dialogo didattico-persuasivo di derivazione platonica, in cui chi sta più avanti cerca di persuadere o convertire l’altro, e il dialogo-incontro in cui gli interlocutori mirano soprattutto a conoscersi e a entrare in rapporto, cercano di far crescere la reciproca accettazione e stima, eliminando i pregiudizi. In questo senso oggi si parla di dialogo tra le religioni o tra le civiltà (con buona pace di chi preferisce invece parlare di ‘scontro di civiltà’); oppure di dialogo all’interno della Chiesa.

 

Il dialogo come profezia incompiuta

Nella Chiesa il dialogo è divenuto un tema e un valore fondamentale dichiarato a partire dal Vaticano II. Non solo perché il concetto vi è molto presente, ad esempio costituisce l’idea centrale nel n. 92 della costituzione Gaudium et Spes e in tutta la dichiarazione Nostra Aetate, che verte sul dialogo con le religioni non cristiane, ma per l’evento conciliare in sé; il dialogo non è una novità dottrinale, non è solo un ingrediente sia pure essenziale, ma proprio la cifra di un nuovo modo di “essere Chiesa” e di “fare Chiesa”: un modo caratterizzato dall’attenzione all’altro e ai valori di cui l’altro è portatore, anziché dalla persuasione anticipata della propria superiorità e quindi dal giudizio (nel senso inteso da Gesù quando dice ai suoi discepoli “non giudicate”: condanna previa ed emarginazione del diverso).

Nella fase preparatoria del Vaticano II (1960-62) filtravano all’esterno solo scarne notizie sui temi che dovevano essere dibattuti e sul previsto lavoro delle commissioni: l’ambiente di curia aveva imposto il silenzio, come se non il “dialogo” con il mondo (di cui ancora non si parlava), ma la semplice comunicazione costituisse un elemento di debolezza. In questa fase, com’è noto, una parte dei padri conciliari, che avevano il loro capofila nel card. Ottaviani, avrebbe voluto un concilio dogmatico che ribadisse con chiarezza la verità cattolica tradizionale, mentre un’altra parte, di cui era portavoce il card. Bea, aspirava a stabilire quantomeno le premesse per un dialogo autentico con il mondo, con i cristiani non cattolici e con i credenti di altre religioni.

Il Vaticano II si realizzò ben al di là delle proprie premesse: fu un concilio ecumenico, pastorale, deliberatamente non dogmatico-definitorio, e soprattutto riuscì a generare una prassi di dialogo e libera discussione sulle questioni emergenti, su quanto via via era proposto e discusso al Concilio (non solo quindi su ciò che veniva approvato, come avrebbero voluto i Padri di orientamento tradizionalista), e non solo a Roma ma nelle chiese locali. In molti casi (pensiamo alla riforma liturgica) lo spirito del Concilio si spinse profeticamente molto più avanti rispetto alla lettera.

Oggi nessuno potrebbe negare in via di principio che la diversità sia una ricchezza e che l’unità sia altra cosa dall’uniformità. Eppure la situazione di oggi evidenzia segni di stanchezza e di immobilismo rispetto alla “primavera conciliare” così rimpianta da molti che ebbero la fortuna di viverla. La Chiesa parla ancora e molto spesso di dialogo, ma di preferenza rivolgendosi a quelli che sono fuori, senza avvertire l’esigenza parallela di un vero dialogo al proprio interno. I laici, di cui nessuno disconosce in teoria importanza e dignità, non hanno voce né spazio operativo all’interno della Chiesa istituzionale, e mancano gli stessi canali per comunicare, i luoghi del dialogo e del confronto.

Non mancano le parole, anzi abbondano; né mancano i “grandi eventi” ecclesiali, che risultano di straordinaria visibilità e suscitano l’interesse dei mass-media; ma non sono luoghi di dialogo. La comunicazione che ha luogo in questi casi non può chiamarsi dialogica, in quanto predisposta e unidirezionale.

Nell’immediato postconcilio si verificavano conflittualità violente e talvolta poco equilibrate, ma nell’insieme vi era un forte senso del proprio essere Chiesa. Oggi forse non altrettanto. Le spinte contestative si sono affievolite e disperse, e questo non è necessariamente un segnale di cui rallegrarsi: può infatti significare che non si spera più molto, che non si ha più desiderio o forza di impegnarsi attivamente, che si è smarrita la fiducia nell’interlocutore e nelle sue possibilità di ascolto.

Molti hanno “privatizzato” impegno e dissenso; in certi casi fino a determinare quello che talvolta viene giustamente definito uno scisma sommerso. Molti si sono di fatto allontanati dalla comunità ecclesiale, senza sbattere la porta. È una grave emorragia silenziosa che continua a sottrarre alla Chiesa una parte delle sue migliori energie ma che, proprio perché silenziosa, può facilmente venire ignorata.

Questa situazione interpella la Chiesa tutta, in tutte le sue componenti, a ricercare spazi e tempi e strumenti per il dialogo, anche inediti; e a valorizzare quelli che possono già esistere. Il dialogo non è un metodo, una strategia, un fatto episodico. È un modo di essere e in esso si manifesta l’identità stessa della Chiesa. Lo stesso magistero della Chiesa non si può comprendere se non nella dinamica di una Chiesa in cammino nella storia.

L’evangelo, la “buona notizia” è affidata agli esseri umani che hanno la responsabilità di proclamarla e trasmetterla. La “comunicazione” non è estranea alla buona notizia.

Un Dio in dialogo

Per un credente il dialogo non è solo un metodo, non è un evento circoscritto, piuttosto uno stile di vita e potremmo quasi dire un imperativo etico, radicato nella logica stessa della creazione/redenzione. Certo, come fu sottolineato da molte voci tradizionaliste all’indomani del Concilio, la parola dialogo nella Bibbia non si trova, e nemmeno la tecnica corrispondente; ma non si può dire che vi manchi la realtà, l’etica del dialogo. L’Alleanza si fonda sull’idea di un Dio in dialogo, in cerca degli uomini: un Dio vicino, un Dio capace di ascolto, un Dio capace di “ritirare” in parte il proprio infinito per fare spazio alla finitezza delle sue creature. Creature che sono limitate certo, non però cristallizzate nel proprio limite, bensì in cammino di evoluzione permanente.

La vicinanza di questo Dio ci viene portata in modo speciale e definitivo da Gesù di Nazaret, uomo del dialogo in un senso inedito, profondo e anzi “fontale” proprio in quanto in lui abbiamo accesso alla vicinanza dialogica di Dio. Certo Gesù si pone come profeta e maestro, dunque dal nostro punto di vista è uno che insegna, uno che “parla” ad altri che “ascoltano”; eppure prende estremamente sul serio i suoi interlocutori, compresi i più immaturi e maldisposti. Interpella a fondo, ma si lascia anche interpellare. Cambia la vita di quelli che incontra, ma anche lui reagisce nel profondo alle persone che si trova davanti, fino a cambiare in certi casi i propri programmi messianici, come nell’episodio della sirofenicia.

Anche le sue parabole sono uno strumento di dialogo talvolta sorprendente e paradossale: un modo per incontrare nel concreto della vita l’interlocutore che a un discorso più teorico potrebbe reagire con la chiusura. A volte una parabola, più che a “far capire” con chiarezza, tende a sconcertare; e anche questo è dialogo, comunicazione intensificata che nasce dall’amore e tende all’amore.

 

Ospitare l’altro in sé

Ancora una volta l’amore è la chiave di tutto. Nel senso cristiano-personalistico il dialogo non è un fatto formale, un parlare alternato, a botta e risposta. Vi è infatti un parlare a turno che non è dialogo affatto (pensiamo a certi dibattiti televisivi!). Il dialogo vero è essenzialmente relazione; si esprime in parole, ma non solo, e avviene nel riconoscimento, nel rispetto dell’identità dell’interlocutore come “altro”. Ciò vuol dire non come nemico da vincere, ma neppure come prolungamento di me né cassa di risonanza del mio pensiero. Una relazione radicata in una comunione fondamentale che già esiste nel progetto di Dio e nelle comuni strutture di umanità, ma che dev’essere esplicitata e resa vivente: tende a un avvicinamento e a un’unione più profonda, a un bene reciproco più grande anche di quello delle persone o dei gruppi in dialogo.

Cioè, quando due (persone o gruppi) riescono ad assumere tra loro un autentico atteggiamento di dialogo, non è solo la loro relazione a giovarsene, ma tutto il tessuto dei rapporti fra le persone, l’intera comunità umana.

Per dialogare non basta parlare insieme, anche se parlare insieme è comunque importante, un agire “umano” per eccellenza. Dialogare richiede la consapevolezza del proprio limite da tutt’e due le parti. Essere in dialogo significa aprirsi all’altro, ospitarlo in sé e trasformarsi interiormente, anche a prescindere dall’esito dialettico (insomma da chi avrà ragione alla fine, cosa spesso non chiara); significa, anzi, accettare di diventare un po’ “altro” in seguito al confronto con l’altro, senza smarrire per questo la propria identità, che diviene, anzi, più forte e feconda, purificata dalle opacità difensive. Invece, troppo spesso ascoltare è solo un silenzioso affilare le armi, in attesa che arrivi il proprio turno di parlare per “vincere”...

Bello è, a questo proposito, il verbo con-vincere, che evoca un “vincere insieme”: vince chi ha ragione, ma anche l’altro in quanto cresce, superando almeno in parte una posizione che lo limitava.

Laddove sussistesse l’ipotetico possesso pieno della verità, effettivamente il dialogo non avrebbe niente da offrire, nemmeno come esercizio intellettuale. Invece scopriamo che risvolti insospettati e frammenti preziosi dell’unica Verità che siamo chiamati a servire possono rivelarsi a noi attraverso vie insolite; che la parola stessa di chi non crede può dischiudere autenticità nuova e risonanze inaspettate alla nostra fede. Tutti abbiamo il dovere di servire la Verità, ma nella consapevolezza che pretendere di possederla e ridurla a un dato immutabile, o identificarla con le “nostre” verità più o meno illuminate ma sempre parziali, contestuali, provvisorie (almeno quanto alla formulazione e alla traduzione nel vissuto), significherebbe per ciò stesso tradirla.

Per essere in dialogo occorre uno spirito di fede vigile e critico, sostenuto da una certa conoscenza storica che serve a evitare la sacralizzazione indebita di quanto è semplicemente un prodotto di vicende e mentalità umane. Questo consente di illuminare molti conflitti, aiutandoli a evolvere in “confronto”. E occorre fede autentica e vissuta nello Spirito santo e nella sua opera.

 

Donne credenti per il dialogo

Forse è troppo poco parlare di “dialogo nella Chiesa”, forse si tratta proprio di edificare la Chiesa in dialogo, che esiste finora quasi solo come intuizione profetica, come sogno di Chiesa. Le donne hanno in questo un ruolo e una responsabilità particolari. Da sempre, anche se o proprio in quanto erano escluse dal potere, hanno sviluppato una sensibilità particolare alle dinamiche dell’ascolto e della relazione interpersonale. Queste dinamiche devono essere avvalorate, non considerate incombenza o pascolo riservato delle donne, qualificare tutte le relazioni umane sia nella Chiesa sia nella società secolare, non solo le relazioni di natura privata o intima ma, per quanto possibile, anche le realtà più allargate e le stesse istituzioni – sempre esposte al rischio di perdere anima, di diventare fine a se stesse e di sopravvivere in funzione della propria sopravvivenza,

Per diventare ispiratrici, protagoniste, autrici del dialogo intraecclesiale e inter-ecclesiale (crediamo ben difficile che uno solo dei due versanti possa fiorire da solo: riteniamo che simul stabunt simul cadent), le donne sono interpellate da doveri precisi: il desiderio generico, la generica disponibilità non bastano. Il primo dovere è quello di studiare, sperando che questa istanza non si faccia recepire in senso piattamente mentale. È così: se non si impara a comprendere la lingua dell’altro fino a parlarla, occorrendo, è difficile saperla “smontare” per diagnosticarne il limite, è difficile poter realizzare qualcosa di diverso e migliore, è difficile edificare insieme una teologia integrale al servizio di una Chiesa fraterna. Studiare è indispensabile affinché a una Chiesa tuttora maschile e celibataria non sia troppo facile ignorare le donne come interlocutrici; è indispensabile anche per sé, per affrancarsi da ogni sudditanza spirituale e intellettuale nei confronti del clero. Non può esserci comunione finché c’è sudditanza, non può esserci dialogo finché i due interlocutori non sono alla pari.

Inoltre le donne devono occupare tutti gli spazi ecclesiali che sono loro aperti nel momento presente, pur riconoscendo senza mezzi termini la loro insufficienza, e occuparli con grande generosità, “qualità”, efficacia, ma ricordando sempre che vi è altro da fare.

In questo momento storico, più che in ogni altro forse, esercitare il ministero profetico del dissenso è una responsabilità che non si può eludere: occorre farlo senza lasciarsi neutralizzare, ma anche il proprio dissenso deve essere sottoposto a discernimento e purificazione permanente: consapevoli del fatto che manifestare lealmente il proprio dissenso quando occorre, con amore autentico e in piena parrhesìa, è un modo qualificato e necessario di servire la Chiesa.

A questo punto sembra quasi superfluo ricordare la terza istanza, fondamentale per ogni credente quale che sia la sua condizione: crescere nella fede, nella speranza e nell’amore. La fede non svaluta ma illumina l’esercizio dell’intelligenza, della coscienza e della critica; la speranza non è facile ottimismo e non è generica, ma tende a incarnarsi nell’impegno storico; l’amore teologale, risposta a quell’amore infinito con cui Dio ci ama per primo, è un amore che chiama a vivere e trasfigura, un amore esigente e pieno di tenerezza, paziente e sfidante, dialogico sempre – anche negli spazi inquietanti dell’apparente silenzio di Dio. – Infatti, i momenti in cui Dio sembra tacere sono i momenti in cui Dio si pone in attesa di una nostra parola autonoma: il vertice del dialogo.

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