La
cultura dominante nella nostra area di civiltà occidentale accoglie con
notevoli difficoltà il concetto di autorità in generale e tollera ancor
più difficilmente le espressioni personali di essa. Ragioni storiche e
una certa evoluzione di pensiero sono all’origine di questa realtà
odierna.
Questa cultura è penetrata anche negli istituti, influendo non raramente
sullo stile di vita dei membri e delle comunità religiose.
Le
comunità non sono esenti, in effetti, da un certo disorientamento a
riguardo. Non è raro, ad esempio, trovarsi davanti a mentalità che in
nome della coscienza, dell’autonomia, della maturità personale rifiutano
o diminuiscono il ruolo dell’autorità religiosa (come diceva con
semplici espressioni una religiosa: “in comunità siamo tutte delle
persone adulte, ci mettiamo d’accordo fraternamente e condividiamo
insieme le responsabilità; cosa deve dirci la superiora?”).
A
questa visione se ne contrappone sovente un’altra, ugualmente equivoca,
da parte di chi è chiamato a esercitare l’autorità e che giustifica le
decisioni prese, affermandone la connotazione democratica (“E’
il consiglio che ha deciso!”).
Indubbiamente una visione culturale più “democratica” e tollerante, più
dialogica e rispettosa dei diritti della persona ha aiutato la vita
religiosa a purificare molti atteggiamenti del passato, a eliminare
molti “abusi” e a vivere con un maggiore equilibrio la relazione
autorità-obbedienza.
Questo tuttavia non deve snaturare i valori fondamentali da
salvaguardare nella relazione. Purtroppo, per una nota patologia
spirituale del nostro tempo moderno, finiamo spesso per trasformare, in
nome della modernità e della ragionevolezza, il significato dei valori
che non riusciamo a vivere.
L’esercizio dell’autorità nella vita ecclesiale e in particolare nella
vita religiosa è un pilastro senza il quale ogni costruzione crolla.
Tale convinzione non può essere attutita neanche nella considerazione di
tutte le strutture di sinodalità, di partecipazione che debbono
giustamente sostenere l’esercizio dell’autorità.
Il
Vaticano II con l’ecclesiologia di comunione che l’ha caratterizzato, ha
avuto senza dubbio una sensibile influenza anche sul modo di considerare
l’esercizio dell’autorità negli istituti di vita consacrata. Una visione
più conforme alla sensibilità culturale odierna, oltre che alle esigenze
proprie della vita consacrata, ha messo maggiormente in luce il concetto
di corresponsabilità di tutti i membri convocati sulla base della stessa
vocazione e missione. Tale visione si è tradotta concretamente nella
creazione di strutture di partecipazione che permettono di collaborare
attivamente, facendo confluire nel processo di formazione del giudizio
dei superiori, i carismi personali, i talenti, le competenze, il
giudizio dei membri.
Natura dell’autorità religiosa
Negli
anni posteriori al Concilio varie teorie si sono confrontate sulla
natura dell’autorità religiosa. Senza voler entrare nel dibattito
teologico, riteniamo importante ricordarne alcuni aspetti essenziali.
L’autorità religiosa non ha la stessa natura di quella gerarchica;
infatti, non è dipendente dal sacramento dell’ordine sacro. Le sue
origini sono essenzialmente carismatiche e la sua trasmissione è in
relazione al dono che la famiglia religiosa ha ricevuto quando è stata
suscitata dallo Spirito. Queste radici carismatiche sono particolarmente
visibili nelle persone dei fondatori che possiedono un’autorità di
fatto, grazie ad una particolare presenza di Dio nelle loro persone e
nei loro progetti.
Nel
corso della storia della Chiesa, ci sono stati uomini e donne che hanno
espresso quest’autorità di tipo carismatico, conferita loro dal dono
dello Spirito. L’esercizio di tale autorità non era legato a nessun
riconoscimento formale da parte della gerarchia che è intervenuta solo
successivamente ad autenticarla e a dichiararla ecclesiale.
La
natura dell’autorità religiosa scaturisce dalla stessa natura profetica
della famiglia religiosa; è riconosciuta dalla Chiesa che dà anche delle
norme per disciplinarne l’esercizio.
Non è
la comunità religiosa che conferisce l’autorità al superiore, anche se
può in vari modi intervenire per la sua designazione. Il superiore, del
resto, non è mai un delegato, né un semplice rappresentante legale della
propria comunità.
Il
Codice di Diritto Canonico invita i superiori a esercitare “in
spirito di servizio quella potestà che hanno ricevuto da Dio mediante il
ministero della Chiesa”1. I
superiori esercitano l’autorità corrispondente al dono dello Spirito,
essi rappresentano una mediazione fondamentale nel veicolare la volontà
di Dio all’interno del progetto carismatico suscitato.
Pluralità di modelli, unità di servizio
Negli
istituti, il modo di esercitare l’autorità non è univoco. Esso
corrisponde al modo di attualizzare il carisma specifico che è alle loro
origini e deve essere conforme alle proprie “sane” tradizioni.
In un
istituto di clausura l’autorità non è esercitata allo stesso modo che in
un istituto dedito attivamente all’apostolato. A seconda delle
differenti tradizioni spirituali, il superiore è a volte visto
soprattutto come un padre, come un maestro, come un accompagnatore, un
animatore della vita comunitaria o ancora colui che conferisce la
missione.
Dietro ognuna di queste accentuazioni c’è un progetto carismatico, cioè
il dono dello Spirito che ha convocato il gruppo di fedeli, che
costituisce l’identità della famiglia religiosa, crea le sue tradizioni
e modella la sua storia.
Queste differenti modalità non si escludono a vicenda né si oppongono,
esse danno un accento carismatico differente, mettendo in evidenza le
componenti della vita degli istituti: la vita fraterna, l’apostolato, la
ricerca personale di Dio, ecc.2.
L’atteggiamento di obbedienza che corrisponde all’esercizio
dell’autorità, a sua volta, è espressione dell’accettazione del dono
dello Spirito che è all’origine del progetto evangelico e accoglienza
delle mediazioni tramite cui esso si esprime e si realizza.
La
consapevolezza della propria identità carismatica negli istituti è
fondamentale per l’esercizio dell’autorità e per comprendere meglio il
servizio che essa è chiamata a svolgere.
Tale
esercizio deve essere visto anzitutto come un atto, anch’esso, di
obbedienza. In effetti, in una comunità religiosa non c’è chi comanda e
chi obbedisce, ma tutti obbediscono alla volontà di Dio che si manifesta
all’interno del patrimonio carismatico della famiglia religiosa.
Il
servizio dell’autorità religiosa
L’autorità religiosa deve essere esercitata in un terreno di dialogo, di
ascolto, di scambio, di consultazione, di coinvolgimento più ampio
possibile nella presa delle decisioni. Questa visione, all’interno del
diritto ecclesiale, si esprime, tra l’altro, nell’obbligo per i
superiori di avere un proprio consiglio3.
Tale
autorità è essenzialmente servizio; il religioso che ha aderito a un
progetto evangelico di vita si pone in uno stato di dipendenza dalla
volontà di Dio che l’autorità religiosa aiuterà a discernere.
Il
superiore non comanda secondo i propri gusti e criteri, ma quale fedele
interprete del progetto carismatico della propria famiglia religiosa.
Per essere autenticamente tale, è chiamato a rimanere in un
atteggiamento continuo di ascolto della Parola.
Il
servizio che l’autorità svolge si manifesta solo in un processo in cui
viene da ognuno ricercata la volontà di Dio per accoglierla e
realizzarla. L’autorità religiosa si pone come una mediazione
indispensabile che va ben al di là di una visione che la limita a
funzioni di buona organizzazione di programmi e di gestione delle opere.
L’eminenza del servizio consiste nell’aiutare delle persone concrete a
ricercare la volontà di Dio, indicando cammini concreti.
Così
facendo, l’autorità svolge anche un servizio di animazione comunitaria
secondo lo spirito e l’identità della propria famiglia, un servizio di
unificazione, creando comunione e impartendo la missione in fedeltà al
progetto evangelico proprio all’istituto.
Il
giusto riconoscimento dell’autorità non si oppone al principio di
corresponsabilità secondo cui tutti i membri sono ugualmente chiamati
all’animazione spirituale della propria famiglia, perché tutti ne hanno
ricevuto lo “spirito”. Ognuno deve perciò animare, risvegliare le
energie dell’altro, favorire un dinamismo comunitario per dar corpo al
progetto comune.
Il
servizio dell’autorità sarà tanto più efficace quanto più essa è capace
di fare in modo che le decisioni importanti si impongono come frutto di
una volontà comune, affinché tutti partecipino al discernimento del
piano di Dio per la comunità.
Il
difficile equilibrio autorità-individuo
Nel
vivere la relazione autorità-individuo, nelle comunità religiose ci sono
alcune tendenze egualmente pericolose come l’individualismo e
l’autoritarismo.
L’individualismo, malattia della nostra civiltà occidentale, vede
l’autorità a disposizione dei membri; l’autoritarismo reputa i dettami
dell’autorità al di sopra di ogni diritto dei singoli.
Ci
sono comunità religiose in cui il gruppo al potere non permette
l’espressione dei talenti dell’individuo; in altre, invece, i membri non
permettono l’esercizio dell’autorità in nome della propria autonomia,
della propria coscienza o della propria identità di adulti.
Queste manifestazioni spiritualmente “patologiche” ostacolano la
comunità e le impediscono di irradiare il suo dono e di edificare con
esso la Chiesa.
Sono
le singole persone che rendono il carisma una realtà vivente e operante.
L’autorità è tale quando permette l’irradiazione del carisma grazie alla
vita dei membri. Nell’assegnare la missione, fa fruttificare i talenti
personali all’interno del dono collettivo che deve marcare profondamente
l’operato dei singoli.
L’autorità rende un servizio prezioso quando non banalizza l’obbedienza
abbassandola a forme di sottomissione militare, di docilità infantile o
peggio di irresponsabilità personale. E’ importante non uccidere
l’iniziativa, né svuotare il senso di partecipazione. L’autorità
arricchisce le singole personalità quando non accentra né assorbe, né
interviene in tutto4.
La
vera obbedienza non impedisce la responsabilità e la scelta; non
ostacola ma favorisce la crescita umana e la libertà della persona. Solo
la libera scelta rende le convinzioni autentiche, fa vera la crescita,
credibile la testimonianza. Ogni forma di coercizione può forse
obbligare a cambiare i comportamenti, ma non modella il cuore delle
persone5.
Conclusione
Oggi
meno che mai il mondo tollera i religiosi che sono incapaci di prendere
una decisione o assumere una posizione. Esso reagisce giustamente a ogni
forma di obbedienza ridotta ad infantilismo umano e spirituale.
L’autorità religiosa deve stimolare le persone a crescere in maturità
evangelica. Essa ha il compito di rendere visibile e concreta la volontà
di Dio che domanda sempre di assumere una responsabilità, di fare delle
scelte, di operare una conversione, di percorrere un cammino.
L’autorità religiosa è veramente tale quando aiuta la comunità a porsi
le domande fondamentali che occorre affrontare per essere fedeli a se
stessi e quando sceglie non di servire l’ordine e l’organizzazione ma di
promuovere il compimento del vangelo nella vita dei membri e nelle
scelte della comunità.
Il
suo servizio, in questo senso, si trova maggiormente nella capacità di
dare un dinamismo alla speranza di tutti piuttosto che nell’esercitare
un mero controllo della realtà6.
NOTE
1. Codice di
Diritto Canonico, can.
618. [Torna al testo]
2.
Cfr. A. Pigna, Consigli evangelici. Virtù e Voti, Edizioni OCD,
Roma 1990, p. 459. [Torna
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3. Codice di
Diritto Canonico, can.
627. [Torna al testo]
4. Cfr, J. M.
Guerrero Guerrero, in Dizionario Teologico della vita consacrata,
Ancora, Milano 1994, pp.108-118. [Torna al testo]
5. Cfr. J.
Chittister, Il fuoco sotto la cenere. Spiritualità della vita
religiosa qui e adesso, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, pp
147-149. [Torna al testo]
6. Cfr. J. M.
Guerrero Guerrero, Autorità…, p. 1. [Torna al testo]
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