n. 5
maggio 2006

 

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VERSO VERONA PER DIVENTARE NARRATORI
DI SPERANZA

di Bruno Secondin

 

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Il cristiano se vuole essere credibile oggi deve impegnarsi a diventare sempre più efficacemente maestro di umanità e testimone di una speranza che si narra con la vita e non solo a parole. Facile a dirsi, ma complicato a realizzarsi. Eppure bisogna tentare di dare forma a percorsi nuovi di esistenza cristiana dentro i grovigli della storia, segnalando sentieri di liberazione che annuncino la ragione della nostra fede e della nostra speranza: cioè il Signore risorto.

La Traccia di riflessione in preparazione al Convegno ecclesiale di Verona chiede di diventare capaci di una cristologia narrativa. Perché di affermazioni solenni e massicce ne abbiamo tante; mancano i racconti vitali, i percorsi pratici che divengono percorsi epifanici, disvelatori.

Tenendo d’occhio alcuni segnali di direzione della Traccia, cercherò di suggerire come diventare narratori di speranza. Perciò comincio con un ricordo personale, che però personale in realtà non è proprio, perché tutti abbiamo visto e vissuto quel momento di altissimo valore simbolico, nella sua semplicità.

 

Una icona storica: Giovanni Paolo II al muro del pianto

Mi trovavo a Gerusalemme a studiare quando Giovanni Paolo II ha visitato la Terra Santa (marzo 2000), e quindi l’ho visto da vicino quando è stato a Gerusalemme. Ero sulla spianata presso il “muro del pianto” quando il papa vi è andato: la televisione ha reso visibile a tutti quel momento così unico.

A me è sembrato che il momento vertice di tutto quel viaggio fosse proprio quando quel vecchio Papa, sorretto dal bastone, ricurvo e silenzioso, si è avvicinato a quel muro millenario con un piccolo foglio in mano, per depositarlo in uno dei tanti interstizi, scavati dal tempo fra quelle pietre millenarie enormi.

In quel foglio bianco, con una breve frase – simile a migliaia di altre frasi scarabocchiate su foglietti arrotolati e poi infilati qua e là negli interstizi – il papa compiva un gesto di estrema umiltà, associandosi a tutti gli imploranti della storia. Una supplica di perdono e di misericordia, davanti a Dio, per i secoli di sofferenze e ingiustizie inflitte ai figli di Abramo. Ma anche l’invocazione di una nuova alleanza di speranza e di giustizia per tutta l’umanità. Il più umile dei gesti – comune a tutti i pellegrini alla città santa, che si affacciano al muro – racchiudeva il significato più profetico e audace, più eloquente e liberatore.

Incerto nel passo e incurvato dal senso di responsabilità storica che lo sovrastava come quei massi enormi, il papa compiva un gesto di profezia disarmata e penetrante. Confessando il bisogno di una rigenerazione storica di proporzioni immense, e ispirata da una coerenza creatrice, cioè non dalla teologia dello splendore, ma dalla fede umile, dalla coscienza fragile affidata alla misericordia e insieme alla speranza implorante, indicava al simbolo delle tragedie peggiori del secolo XX, la Shoah, la via di uscita.

È difficile dire se quella icona abbia conseguito tutti gli effetti desiderati, e sia diventata davvero un punto di non ritorno per la nostra storia. Visti i rigurgiti di tutti i generi e in tutte le latitudini di questo ultimo lustro, c’è da restare perplessi, e forse anche angosciati e delusi. Eppure io credo che sia proprio quello lo stile da vivere se vogliamo ritrovare speranza fra i grandi drammi della storia: negli interstizi all’apparenza più semplici e umili, deporre in biglietti modesti i nostri grandi sogni, che solo la fede può rendere grandi e fecondi.

 

Messi a dura prova

Per guarire il cuore e disarmare i sistemi ogni giorno più aggressivi e violenti, bisogna esercitare la fantasia del granello di senape, del pugno di lievito, con sussulti di profezia carica di immaginazione liberatrice, “con cuore largo e occhio penetrante” (Novo Millennio Ineunte, 58). Certamente c’è poco da stare allegri, guardandoci intorno: e ogni giorno ci svegliamo al mattino con l’incubo che non sia successo qualche altro disastro, perché agli abissi del terrore e dell’orrore non sembra che ci sia mai un fondo.

“La speranza è un bene fragile e raro, e il suo fuoco è sovente tenue anche nel cuore dei credenti”, hanno scritto i vescovi (Traccia, 2). Eppure proprio nella capacità di suscitare speranza e alimentarla in modo culturalmente non svagato né simbolicamente smorto, si misura la buona tenuta della testimonianza cristiana oggi.

Poiché infatti vero “testimone è chi sa sperare” (Traccia, 5), allora si pone una sfida molto seria per la nostra pastorale e logicamente per la nostra spiritualità: essere testimoni di speranza in un passaggio storico che inciampa troppo spesso sulle macerie di speranze deluse, di attese diventate fantasmi sgradevoli, su grandi progetti diventati abissi di orrori e di errori, come ha ricordato Benedetto XVI nella prima enciclica Deus caritas est (n. 28).

Forse troppo facilmente diamo per scontato che proclamare la risurrezione del Signore debba suscitare speranza e certezza: dovrebbe essere così, certamente sarà così per tanti. Ma per i più forse questo cortocircuito – morte-risurrezione-speranza – rischia di essere un esercizio di pura alienazione. Non ce la fanno a vedere segnali rassicuranti nel groviglio in cui rotola la loro vita, e anche lo scenario sociale. La religione in eredità non offre più supporti validi per districarsi nella complessità e nella ambiguità di questa postmodernità che tutto aggroviglia, che non ha più scale di valori né ideali di alto profilo.

Nello smarrimento universale dei valori, dei progetti e delle attese, mentre imperversano le paure apocalittiche, imperano gli speleologi dell’anima: psichiatri e romanzieri, guru laici e ciarlatani, ognuno scava ed estrae, dagli strati più profondi della psiche atrofizzata e drogata, detriti di ogni genere: spasmi e rimorsi, angosce e idolatrie, manie e narcisismi infantili. E tutti parlano di “spiritualità”: ma in questi casi la spiritualità diviene per tutti questi una avventura vagabonda, dionisiaca e nichilista allo stesso tempo, naufragio evasivo alla caccia di sensazioni “sacre” vaporose e velenose.

Una mendicità culturale e religiosa, un esibizionismo spudorato di emozioni e divinità, di disperazioni e mitologie, una fluidità di appartenenze a puzzle che disorientano (cfr. Traccia, 1). Eppure proprio in questo contesto ci troviamo ad operare: e non siamo solo una minoranza cognitiva che deve far il conto con il proprio immaginario di maggioranza impositiva. Siamo anche in un contesto di cambio epocale di paradigmi e di modelli, di linguaggi e di simboli, di figure valoriali e di intrecci fra culture.

Senza parlare poi delle castrazioni artificiali – e spesso ideologicamente anche violente – dei codici assiali della memoria: fra cui le radici cristiane sono uno degli elementi più evidenti e reclamate, ma non sono l’unico riferimento abortito. Nel giro di una generazione o poco più abbiamo dilapidato un patrimonio millenario di identità religiosa e di appartenenze, come abbiamo tentato, prometeicamente, di operare una palingenesi in nome di una secolarizzazione che è finita per rivelarsi una protesi mal riuscita per angosce mal digerite.

Ecco, in questa situazione di cui ho schizzato qualche traccia affrettata, cosa ci sta a fare la spiritualità, a cui fa appello anche la Traccia di Verona? Anche se molti insistono nel proclamare che potrebbe proprio la spiritualità avere un ruolo redentore e critico, io sono molto diffidente, pur avendo di che guadagnarci. Perché vedo troppa fretta nel cercare una soluzione quasi taumaturgica da qualche parte, per paura di affogare nell’apocalisse ingovernabile e devastatrice.

La nuova “spiritualità da mercato” che offre di tutto in tempo reale, a me pare sia la pura mercificazione del sacro. Un Dio, o almeno e forse soprattutto un divino così disponibile, alla mano e à la carte, ubiquitario e pronto uso, senza bisogno di istruzioni, mi pare un puro esibizionismo del proprio contorsionismo psichico e intrapsichico, morale o religioso.

Il nostro può essere tempo di lapsi (di fragili) o di parresia (di audacia): ma anche di una sequela impaurita o bigotta. Ci si deve preoccupare non solo di onorare Dio, ma anche di promuovere la vita, la religiosità del vivere quotidiano. Si tratta di quella che il cardinale C.M. Martini chiamava la “dialettica dei discernimenti”, un esercizio da compiersi non solo con attrezzatura culturale seria, ma anche con una empatia coinvolgente, carica di affetti sinceri.

 

3.  Una icona biblica ispirativa: il cieco Bartimeo (Mc 10,46-52)

Nei giorni di fine febbraio, prima di entrare nel cammino quaresimale, nelle messe feriali abbiamo ascoltato la proclamazione dei capitoli 8-10 del Vangelo di Marco. Si tratta di una ampia raccolta di esigenze radicali della sequela, con una continua resistenza spaventata, e preoccupata da parte dei discepoli. Fra l’episodio del cieco di Betsaida (Mc 8,22-26) e la guarigione di Bartimeo, cieco di Gerico (Mc 10,46-52), Marco pone la carta magna della sequela, con le sue sfide e le sue esigenze. È anche un crescendo di contrasti e precauzioni da parte dei discepoli. Non solo confondono “alberi e uomini”, come l’anonimo cieco di Betsaida, ma resistono tenacemente alle prospettive di Gesù, chiedendo garanzie. Per questo il cieco di Gerico diviene passaggio necessario e imprescindibile per i discepoli nella struttura del Vangelo di Marco.

E allora prendiamo lo spunto da questa icona biblica, perché mostra come si possa essere anche discepoli, camminando materialmente con Gesù, ma, paradossalmente, senza davvero condividerne le scelte e le sfide. Siamo incapaci di scioglierci dalle resistenze tenaci interiori.

Vediamo da vicino questo episodio del cieco di Gerico, leggendo anzitutto il testo.

46E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. 48Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”.
49 Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. 50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51 Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?”. E il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”. 52 E Gesù gli disse: “Và, la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

 

Un primo approccio

Siamo verso la fine del grande viaggio verso Gerusalemme: infatti subito dopo questo episodio Marco parla dell’ingresso solenne in Gerusalemme. Come luogo di partenza più specificato possiamo considerare Betsaida, dove un altro cieco veniva guarito con una serie di gesti molto significativi: in quel cieco condotto fuori dal villaggio e guidato attraverso successivi passaggi a vederci chiaramente, in modo sano e maturo (Mc 8,22-26) si specchiava la condizione dei discepoli, ancora incapaci di uscire dagli schemi di un messianismo nazionalista e taumaturgico.

Ora con la conclusione a Gerico e con questo cieco, non più passivo e chiuso in se stesso, ma attivo, anzi capace di non farsi intimidire dai rimproveri, abbiamo la sfida alle resistenze così tenaci dei discepoli e della folla. Infatti qui non si parla più di villaggio da cui uscire e di casa a cui tornare, ma di mantelli che si gettano e di sequela che si intraprende senza esitazioni.

Da notare anche che il nome di Bartimeo (reduplicato: figlio di Timeo) potrebbe indicare un intreccio fra cultura ellenistica (il nome Timeo è greco) e identità ebraica (il suffisso bar: figlio di). Una specie di segnale di simpatia, posto di nascosto da Marco, verso i cristiani di origine ellenistica: infatti questo personaggio fa bella figura, limpida. E inoltre il suo carattere forte, audace, ma anche sincero e libero, lo rende modello di ogni discepolo che gioca tutto per vedere Gesù e seguirlo con occhi nuovi.

Ci sono almeno tre modalità di dialogo in questo testo, che possono essere una griglia esemplare applicabile a noi.

 

Il dialogo aggressivo

Tra la folla e il cieco il primo approccio suscita problemi. Sanno dargli le informazioni corrette, sul personaggio che sta passando – “al sentire che c’era Gesù Nazareno” (v. 47) – ma non gli consentono di gridare la propria supplica. Disturbava il corteo dietro al Maestro, forse. Oppure con la sua fiducia e implorazione era un rimprovero pubblico al disagio che palesemente ormai mostravano per le pretese troppo drastiche del Maestro. Più che la mancanza di misericordia verso Bartimeo, probabilmente dobbiamo rilevare la fatica di continuare a seguire un Maestro dalle pretese poco rassicuranti.

Vanno dietro a Gesù, ma di mala voglia, frenando, avanzando pretese di garanzia… E questo li rende incapaci di ascoltare e condividere il grido implorante: li disturba nel disagio interiore. E allora tutto dà fastidio, e si rimprovera con durezza. Seguono il Maestro della misericordia, ma non hanno alcuna misericordia; interessa solo che la processione continui senza intralci, che se mala sorte sarà, sia pure. Eppure quel grido: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”, è implorazione che proviene dalla tradizione, che esprime la supplica di generazioni e di profeti. Secondo Marco, Gesù non amava questo titolo, ma la fede di Bartimeo era sicura e autentica; è su questa che Gesù si appoggia.

 

Il dialogo di liberazione

È il momento di trasformazione di tutti, tutti si mettono in gioco, modificando i propri atteggiamenti e convergendo verso quel cieco. Anzitutto Gesù si ferma, si lascia condizionare da quella supplica che sovrasta i rimproveri. Ha fretta di andare a Gerusalemme, per dare la vita a conforto e salvezza per tutti coloro che aspettano pietà. Ecco qui uno che attende pietà: e perciò Gesù si ferma, vuole dare attenzione a questa supplica così gridata. Tutto cambia a partire da questo gesto di Gesù, e dal suo invito: “Chiamatelo!” (phonésate autòn). Devono cambiare voce, soprattutto il tono di voce: non più il rimprovero aspro e minaccioso, ma la sollecitazione amichevole, una intesa reciproca di fiducia e speranza.

L’ascolto della parola di Gesù cambia sentimenti e gesti, tutto ora diviene positivo, creativamente positivo. La gente pronuncia tre parole: “Coraggio! Alzati! Ti chiama!”. Il cieco risponde con tre gesti, esattamente simmetrici: getta il mantello, balza in piedi, va da Gesù. L’ascolto della parola del Maestro – finalmente ascoltato con fiducia e non con disagio – trasforma gli animi, libera da dentro un’altra storia, altre relazioni. Una vera trasformazione, perfino sorprendente: Gesù è liberato dalla protezione e inavvicinabilità cui lo volevano relegare; la gente cambia linguaggio e partecipa empaticamente ad una storia aperta alla speranza; Bartimeo compie dei gesti rischiosi e audaci (gettare il mantello, balzare in piedi).

 

Il dialogo di guarigione

Anzitutto Gesù vuole evitare di fare solo il taumaturgo, ma vuole dare a Bartimeo la possibilità di raccontarsi e di esprimere la propria fede. Più che per lui, questo è momento pedagogico per tutti i discepoli: egli ha una storia ferita, un trauma violento che lo ha distrutto, eppure non si è arreso. Ha lottato contro una disgrazia così feroce, dandosi da fare come mendicante; ha lottato contro la emarginazione che ancora una volta gli buttavano addosso per schiacciarlo. Ora senza mantello, stando davanti a Gesù, è come nudo nella sua povertà estrema: vuole riavere la vista – “Rabbunì, che io riabbia la vista!” (v. 51) – per tornare a vivere in pienezza. Non solo vederci di nuovo, ma ridiventare persona completa, vivere il protagonismo con tutta libertà, non come mendicante al margine della strada.

Gesù gli riconosce una fiducia a tutta prova, un affidamento interiore che è davvero fede rigenerante, sfida e audacia senza mezze misure. È modello di fede anche per quelli che gli stanno andando dietro, ma con una fede fragile ed opaca. L’accenno al “seguirlo per la strada” non è solo conclusione del miracolo, è molto di più. I veri discepoli sono coloro che una volta guariti dalla cecità, dalla confusione mentale ed emotiva, senza sconti e senza mantelli, rischiano con Gesù sulla strada che porta alla città omicida.

Questo è il vero rispetto e culto al Maestro: liberarsi da ogni mantello ingombrante e rassicurante, balzare in piedi anche se incerti e insicuri, esporsi in tutta nudità e povertà, raccontando la propria fatica a vivere, la propria lotta e la propria speranza. E seguirlo senza paura dei rischi e dei fallimenti, per attraversare con lui le tenebre della morte e riconoscerlo vincitore su ogni paura e ogni violenza.

Una speranza castrata dalla ferita fisica, ma ancor più per la emarginazione sociale e religiosa, ha bisogno di gesti coraggiosi per rinascere, per aprirsi la strada. Ne parleremo in un prossimo intervento, in cui offrire delle applicazioni alla luce di questa icona.

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