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Il
cristiano se vuole essere credibile oggi deve impegnarsi a diventare
sempre più efficacemente maestro di umanità e testimone di una speranza
che si narra con la vita e non solo a parole. Facile a dirsi, ma
complicato a realizzarsi. Eppure bisogna tentare di dare forma a
percorsi nuovi di esistenza cristiana dentro i grovigli della storia,
segnalando sentieri di liberazione che annuncino la ragione della nostra
fede e della nostra speranza: cioè il Signore risorto.
La Traccia di
riflessione in preparazione al Convegno ecclesiale di Verona chiede
di diventare capaci di una cristologia narrativa. Perché di
affermazioni solenni e massicce ne abbiamo tante; mancano i racconti
vitali, i percorsi pratici che divengono percorsi epifanici,
disvelatori.
Tenendo d’occhio alcuni
segnali di direzione della Traccia, cercherò di suggerire come
diventare narratori di speranza. Perciò comincio con un ricordo
personale, che però personale in realtà non è proprio, perché tutti
abbiamo visto e vissuto quel momento di altissimo valore simbolico,
nella sua semplicità.
Una icona storica:
Giovanni Paolo II al muro del pianto
Mi trovavo a
Gerusalemme a studiare quando Giovanni Paolo II ha visitato la Terra
Santa (marzo 2000), e quindi l’ho visto da vicino quando è stato a
Gerusalemme. Ero sulla spianata presso il “muro del pianto” quando il
papa vi è andato: la televisione ha reso visibile a tutti quel momento
così unico.
A me è sembrato che il
momento vertice di tutto quel viaggio fosse proprio quando quel vecchio
Papa, sorretto dal bastone, ricurvo e silenzioso, si è avvicinato a quel
muro millenario con un piccolo foglio in mano, per depositarlo in uno
dei tanti interstizi, scavati dal tempo fra quelle pietre millenarie
enormi.
In quel foglio bianco,
con una breve frase – simile a migliaia di altre frasi scarabocchiate su
foglietti arrotolati e poi infilati qua e là negli interstizi – il papa
compiva un gesto di estrema umiltà, associandosi a tutti gli imploranti
della storia. Una supplica di perdono e di misericordia, davanti a Dio,
per i secoli di sofferenze e ingiustizie inflitte ai figli di Abramo. Ma
anche l’invocazione di una nuova alleanza di speranza e di giustizia per
tutta l’umanità. Il più umile dei gesti – comune a tutti i pellegrini
alla città santa, che si affacciano al muro – racchiudeva il
significato più profetico e audace, più eloquente e liberatore.
Incerto nel passo e
incurvato dal senso di responsabilità storica che lo sovrastava come
quei massi enormi, il papa compiva un gesto di profezia disarmata e
penetrante. Confessando il bisogno di una rigenerazione storica di
proporzioni immense, e ispirata da una coerenza creatrice, cioè non
dalla teologia dello splendore, ma dalla fede umile, dalla coscienza
fragile affidata alla misericordia e insieme alla speranza implorante,
indicava al simbolo delle tragedie peggiori del secolo XX, la Shoah,
la via di uscita.
È difficile dire se
quella icona abbia conseguito tutti gli effetti desiderati, e sia
diventata davvero un punto di non ritorno per la nostra storia. Visti i
rigurgiti di tutti i generi e in tutte le latitudini di questo ultimo
lustro, c’è da restare perplessi, e forse anche angosciati e delusi.
Eppure io credo che sia proprio quello lo stile da vivere se vogliamo
ritrovare speranza fra i grandi drammi della storia: negli interstizi
all’apparenza più semplici e umili, deporre in biglietti modesti i
nostri grandi sogni, che solo la fede può rendere grandi e fecondi.
Messi a dura prova
Per guarire il cuore e
disarmare i sistemi ogni giorno più aggressivi e violenti, bisogna
esercitare la fantasia del granello di senape, del pugno di lievito, con
sussulti di profezia carica di immaginazione liberatrice, “con cuore
largo e occhio penetrante” (Novo Millennio Ineunte, 58).
Certamente c’è poco da stare allegri, guardandoci intorno: e ogni giorno
ci svegliamo al mattino con l’incubo che non sia successo qualche altro
disastro, perché agli abissi del terrore e dell’orrore non sembra che ci
sia mai un fondo.
“La speranza è un bene
fragile e raro, e il suo fuoco è sovente tenue anche nel
cuore dei credenti”, hanno scritto i vescovi (Traccia, 2). Eppure
proprio nella capacità di suscitare speranza e alimentarla in modo
culturalmente non svagato né simbolicamente smorto, si misura la buona
tenuta della testimonianza cristiana oggi.
Poiché infatti vero
“testimone è chi sa sperare” (Traccia, 5), allora si pone una
sfida molto seria per la nostra pastorale e logicamente per la nostra
spiritualità: essere testimoni di speranza in un passaggio storico che
inciampa troppo spesso sulle macerie di speranze deluse, di attese
diventate fantasmi sgradevoli, su grandi progetti diventati abissi di
orrori e di errori, come ha ricordato Benedetto XVI nella prima
enciclica Deus caritas est (n. 28).
Forse troppo facilmente
diamo per scontato che proclamare la risurrezione del Signore debba
suscitare speranza e certezza: dovrebbe essere così, certamente sarà
così per tanti. Ma per i più forse questo cortocircuito –
morte-risurrezione-speranza – rischia di essere un esercizio di pura
alienazione. Non ce la fanno a vedere segnali rassicuranti nel groviglio
in cui rotola la loro vita, e anche lo scenario sociale. La religione in
eredità non offre più supporti validi per districarsi nella complessità
e nella ambiguità di questa postmodernità che tutto aggroviglia, che non
ha più scale di valori né ideali di alto profilo.
Nello smarrimento
universale dei valori, dei progetti e delle attese, mentre imperversano
le paure apocalittiche, imperano gli speleologi dell’anima: psichiatri e
romanzieri, guru laici e ciarlatani, ognuno scava ed estrae, dagli
strati più profondi della psiche atrofizzata e drogata, detriti di ogni
genere: spasmi e rimorsi, angosce e idolatrie, manie e narcisismi
infantili. E tutti parlano di “spiritualità”: ma in questi casi la
spiritualità diviene per tutti questi una avventura vagabonda,
dionisiaca e nichilista allo stesso tempo, naufragio evasivo alla caccia
di sensazioni “sacre” vaporose e velenose.
Una mendicità culturale
e religiosa, un esibizionismo spudorato di emozioni e divinità, di
disperazioni e mitologie, una fluidità di appartenenze a puzzle che
disorientano (cfr. Traccia, 1). Eppure proprio in questo contesto
ci troviamo ad operare: e non siamo solo una minoranza cognitiva che
deve far il conto con il proprio immaginario di maggioranza impositiva.
Siamo anche in un contesto di cambio epocale di paradigmi e di modelli,
di linguaggi e di simboli, di figure valoriali e di intrecci fra
culture.
Senza parlare poi delle
castrazioni artificiali – e spesso ideologicamente anche violente – dei
codici assiali della memoria: fra cui le radici cristiane sono
uno degli elementi più evidenti e reclamate, ma non sono l’unico
riferimento abortito. Nel giro di una generazione o poco più abbiamo
dilapidato un patrimonio millenario di identità religiosa e di
appartenenze, come abbiamo tentato, prometeicamente, di operare una
palingenesi in nome di una secolarizzazione che è finita per rivelarsi
una protesi mal riuscita per angosce mal digerite.
Ecco, in questa
situazione di cui ho schizzato qualche traccia affrettata, cosa ci sta a
fare la spiritualità, a cui fa appello anche la Traccia di
Verona? Anche se molti insistono nel proclamare che potrebbe proprio la
spiritualità avere un ruolo redentore e critico, io sono molto
diffidente, pur avendo di che guadagnarci. Perché vedo troppa fretta nel
cercare una soluzione quasi taumaturgica da qualche parte, per paura di
affogare nell’apocalisse ingovernabile e devastatrice.
La nuova “spiritualità
da mercato” che offre di tutto in tempo reale, a me pare sia la pura
mercificazione del sacro. Un Dio, o almeno e forse soprattutto un
divino così disponibile, alla mano e à la carte, ubiquitario
e pronto uso, senza bisogno di istruzioni, mi pare un puro esibizionismo
del proprio contorsionismo psichico e intrapsichico, morale o religioso.
Il nostro può essere
tempo di lapsi (di fragili) o di parresia (di audacia): ma
anche di una sequela impaurita o bigotta. Ci si deve preoccupare non
solo di onorare Dio, ma anche di promuovere la vita, la religiosità del
vivere quotidiano. Si tratta di quella che il cardinale C.M. Martini
chiamava la “dialettica dei discernimenti”, un esercizio da compiersi
non solo con attrezzatura culturale seria, ma anche con una empatia
coinvolgente, carica di affetti sinceri.
3. Una icona biblica
ispirativa:
il cieco Bartimeo (Mc 10,46-52)
Nei giorni di fine
febbraio, prima di entrare nel cammino quaresimale, nelle messe feriali
abbiamo ascoltato la proclamazione dei capitoli 8-10 del Vangelo di
Marco. Si tratta di una ampia raccolta di esigenze radicali della
sequela, con una continua resistenza spaventata, e preoccupata da parte
dei discepoli. Fra l’episodio del cieco di Betsaida (Mc 8,22-26) e la
guarigione di Bartimeo, cieco di Gerico (Mc 10,46-52), Marco pone la
carta magna della sequela, con le sue sfide e le sue esigenze. È anche
un crescendo di contrasti e precauzioni da parte dei discepoli. Non solo
confondono “alberi e uomini”, come l’anonimo cieco di Betsaida, ma
resistono tenacemente alle prospettive di Gesù, chiedendo garanzie. Per
questo il cieco di Gerico diviene passaggio necessario e imprescindibile
per i discepoli nella struttura del Vangelo di Marco.
E allora prendiamo lo
spunto da questa icona biblica, perché mostra come si possa essere anche
discepoli, camminando materialmente con Gesù, ma, paradossalmente, senza
davvero condividerne le scelte e le sfide. Siamo incapaci di scioglierci
dalle resistenze tenaci interiori.
Vediamo da vicino
questo episodio del cieco di Gerico, leggendo anzitutto il testo.
46E
giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a
molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la
strada a mendicare. 47Costui, al sentire che c’era Gesù
Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi
pietà di me!”. 48Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma
egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”.
49 Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E
chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”.
50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
51 Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?”. E
il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”. 52 E
Gesù gli disse: “Và, la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò
la vista e prese a seguirlo per la strada.
Un primo approccio
Siamo verso la fine del
grande viaggio verso Gerusalemme: infatti subito dopo questo episodio
Marco parla dell’ingresso solenne in Gerusalemme. Come luogo di partenza
più specificato possiamo considerare Betsaida, dove un altro cieco
veniva guarito con una serie di gesti molto significativi: in quel cieco
condotto fuori dal villaggio e guidato attraverso successivi passaggi a
vederci chiaramente, in modo sano e maturo (Mc 8,22-26) si specchiava la
condizione dei discepoli, ancora incapaci di uscire dagli schemi di un
messianismo nazionalista e taumaturgico.
Ora con la conclusione
a Gerico e con questo cieco, non più passivo e chiuso in se stesso, ma
attivo, anzi capace di non farsi intimidire dai rimproveri, abbiamo la
sfida alle resistenze così tenaci dei discepoli e della folla. Infatti
qui non si parla più di villaggio da cui uscire e di casa a cui tornare,
ma di mantelli che si gettano e di sequela che si intraprende senza
esitazioni.
Da notare anche che il
nome di Bartimeo (reduplicato: figlio di Timeo) potrebbe indicare
un intreccio fra cultura ellenistica (il nome Timeo è greco) e
identità ebraica (il suffisso bar: figlio di). Una specie di
segnale di simpatia, posto di nascosto da Marco, verso i cristiani di
origine ellenistica: infatti questo personaggio fa bella figura,
limpida. E inoltre il suo carattere forte, audace, ma anche sincero e
libero, lo rende modello di ogni discepolo che gioca tutto per vedere
Gesù e seguirlo con occhi nuovi.
Ci sono almeno tre
modalità di dialogo in questo testo, che possono essere una griglia
esemplare applicabile a noi.
Il dialogo aggressivo
Tra la folla e il cieco
il primo approccio suscita problemi. Sanno dargli le informazioni
corrette, sul personaggio che sta passando – “al sentire che c’era Gesù
Nazareno” (v. 47) – ma non gli consentono di gridare la propria
supplica. Disturbava il corteo dietro al Maestro, forse. Oppure con la
sua fiducia e implorazione era un rimprovero pubblico al disagio che
palesemente ormai mostravano per le pretese troppo drastiche del
Maestro. Più che la mancanza di misericordia verso Bartimeo,
probabilmente dobbiamo rilevare la fatica di continuare a seguire un
Maestro dalle pretese poco rassicuranti.
Vanno dietro a Gesù, ma
di mala voglia, frenando, avanzando pretese di garanzia… E questo li
rende incapaci di ascoltare e condividere il grido implorante: li
disturba nel disagio interiore. E allora tutto dà fastidio, e si
rimprovera con durezza. Seguono il Maestro della misericordia, ma non
hanno alcuna misericordia; interessa solo che la processione continui
senza intralci, che se mala sorte sarà, sia pure. Eppure quel grido:
“Figlio di Davide, abbi pietà di me!”, è implorazione che proviene dalla
tradizione, che esprime la supplica di generazioni e di profeti. Secondo
Marco, Gesù non amava questo titolo, ma la fede di Bartimeo era sicura e
autentica; è su questa che Gesù si appoggia.
Il dialogo di
liberazione
È il momento di
trasformazione di tutti, tutti si mettono in gioco, modificando i propri
atteggiamenti e convergendo verso quel cieco. Anzitutto Gesù si ferma,
si lascia condizionare da quella supplica che sovrasta i rimproveri. Ha
fretta di andare a Gerusalemme, per dare la vita a conforto e salvezza
per tutti coloro che aspettano pietà. Ecco qui uno che attende pietà: e
perciò Gesù si ferma, vuole dare attenzione a questa supplica così
gridata. Tutto cambia a partire da questo gesto di Gesù, e dal suo
invito: “Chiamatelo!” (phonésate autòn). Devono cambiare voce,
soprattutto il tono di voce: non più il rimprovero aspro e minaccioso,
ma la sollecitazione amichevole, una intesa reciproca di fiducia e
speranza.
L’ascolto della parola
di Gesù cambia sentimenti e gesti, tutto ora diviene positivo,
creativamente positivo. La gente pronuncia tre parole: “Coraggio!
Alzati! Ti chiama!”. Il cieco risponde con tre gesti, esattamente
simmetrici: getta il mantello, balza in piedi, va da Gesù. L’ascolto
della parola del Maestro – finalmente ascoltato con fiducia e non con
disagio – trasforma gli animi, libera da dentro un’altra storia, altre
relazioni. Una vera trasformazione, perfino sorprendente: Gesù è
liberato dalla protezione e inavvicinabilità cui lo volevano relegare;
la gente cambia linguaggio e partecipa empaticamente ad una storia
aperta alla speranza; Bartimeo compie dei gesti rischiosi e audaci
(gettare il mantello, balzare in piedi).
Il dialogo di
guarigione
Anzitutto Gesù vuole
evitare di fare solo il taumaturgo, ma vuole dare a Bartimeo la
possibilità di raccontarsi e di esprimere la propria fede. Più che per
lui, questo è momento pedagogico per tutti i discepoli: egli ha una
storia ferita, un trauma violento che lo ha distrutto, eppure non si è
arreso. Ha lottato contro una disgrazia così feroce, dandosi da fare
come mendicante; ha lottato contro la emarginazione che ancora una volta
gli buttavano addosso per schiacciarlo. Ora senza mantello, stando
davanti a Gesù, è come nudo nella sua povertà estrema: vuole riavere la
vista – “Rabbunì, che io riabbia la vista!” (v. 51) – per tornare a
vivere in pienezza. Non solo vederci di nuovo, ma ridiventare persona
completa, vivere il protagonismo con tutta libertà, non come mendicante
al margine della strada.
Gesù gli riconosce una
fiducia a tutta prova, un affidamento interiore che è davvero fede
rigenerante, sfida e audacia senza mezze misure. È modello di fede anche
per quelli che gli stanno andando dietro, ma con una fede fragile ed
opaca. L’accenno al “seguirlo per la strada” non è solo conclusione del
miracolo, è molto di più. I veri discepoli sono coloro che una volta
guariti dalla cecità, dalla confusione mentale ed emotiva, senza sconti
e senza mantelli, rischiano con Gesù sulla strada che porta alla città
omicida.
Questo è il vero
rispetto e culto al Maestro: liberarsi da ogni mantello ingombrante e
rassicurante, balzare in piedi anche se incerti e insicuri, esporsi in
tutta nudità e povertà, raccontando la propria fatica a vivere, la
propria lotta e la propria speranza. E seguirlo senza paura dei rischi e
dei fallimenti, per attraversare con lui le tenebre della morte e
riconoscerlo vincitore su ogni paura e ogni violenza.
Una speranza castrata
dalla ferita fisica, ma ancor più per la emarginazione sociale e
religiosa, ha bisogno di gesti coraggiosi per rinascere, per aprirsi la
strada. Ne parleremo in un prossimo intervento, in cui offrire delle
applicazioni alla luce di questa icona.
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