Ritengo
che questo sia un momento molto fecondo nella Chiesa. C’è un fermento
nella vita religiosa in generale, ma nella vita religiosa femminile
questo fermento è intriso di sangue, ma mi pare che stia sorgendo una
nuova alba. Al di là del numero delle vocazioni e dei problemi che
ognuno ha nel suo Istituto, mi sembra che essa sia venuta quasi fuori da
un tunnel di rielaborazione molto sofferta che si è avviata col
Concilio.
Sono molto felice che
il padre Fabio Ciardi abbia messo a fuoco una questione concretissima
che vi riguarda molto da vicino. Io invece cercherò di fare un doppio
lavoro: due panoramiche relative, una alla vita religiosa vista da
vicino, e l’altra a partire dalla vita religiosa sulla vita ecclesiale e
sociale.
La prima domanda da cui
vorrei partire è questa: l’ecclesiologia di comunione, elaborata dal
Concilio Vaticano II, è veramente diventata una prassi di comunione? Da
una vaga idea di collaborazione si è passati ad un senso di
coappartenenza e di corresponsabilità nella Chiesa? Oppure, i diversi
soggetti ecclesiali hanno maturato il proprio percorso, più o meno
sofferto, senza riuscire ad interagire in maniera organica ed efficace
sul piano della testimonianza e della evangelizzazione? Certamente c’è
l’identificazione precisa dei soggetti ecclesiali. La domanda è se
questi soggetti ecclesiali riescono a interagire e a proporsi in una
dimensione di prassi pastorale, di prassi comunionale. La fatica enorme
di ridisegnare all’indomani del Concilio, del terremoto, diciamo, del
rinnovamento ecclesiologico di ridisegnare l’identità delle famiglie
religiose ha assorbito moltissime energie in vista della riformulazione
del carisma, della precisazione del profilo giuridico, della redazione
di nuove costituzioni, della sintonizzazione con le Chiese locali, a
partire dalle Mutuae Relationes. Mi sembra che stia maturando da
poco la domanda sulla missione nel mondo contemporaneo, anche se le
famiglie religiose, con le loro missioni ad gentes, con le loro
Plantatio Ecclesiae hanno iniziato già da molti decenni.
Dall’elaborazione di Lumen Gentium nello spirito di Gaudium et
Spes sono passati quaranta anni. I vostri Istituti sono stati troppo
presi dal lavoro interno e soprattutto dall’improvviso calo delle
vocazioni che ha comunque costretto ad una ridefinizione, a un
ripensamento di tutta l’organizzazione,
Quali i problemi più
urgenti? L’ingente quantità delle opere, il calo delle vocazioni,
l’immissione di numerose vocazioni provenienti da altri mondi culturali,
da altre zone geografiche del mondo, ha impedito di fatto di leggere
nello stesso tempo, passo passo i dinamismi della contemporaneità,
creando in molti Istituti, non dico in tutti, non posso generalizzare,
una sorta di estraneità rispetto alla mentalità e ai costumi della
nostra epoca. Da qui la domanda ricorrente in molte famiglie religiose:
dopo il “chi siamo” e “dove stiamo andando?”, “cosa fare, come camminare
insieme alle altre componenti ecclesiali?”.
Naturalmente si corre
il pericolo di liquidare il mondo contemporaneo, con un giudizio di
condanna senza appello, per esempio, o mantenendo un ottimismo ad
oltranza, rimanendo alla fine chiusi in un piccolo mondo. Vi sono tre
possibilità, quando ci si trova in questo impatto: Il mondo
contemporaneo o si liquida con “non si ragiona più”, “non è più mondo,
non è più vita”, oppure si dice “il Signore ci aiuterà” e si rimane su
un piano ideale, oppure si può pensare “curiamoci le nostre cose, quello
che riusciamo a fare va bene nel nostro piccolo”. In realtà si tratta di
cogliere con serietà e responsabilità il termine aggiornamento,
profeticamente assunto da Giovanni XXIII alla vigilia del Concilio, come
categoria necessaria perché la Chiesa non cammini a rimorchio della
storia.
Che significa allora la
parola aggiornamento nella vita religiosa?
Primo:
si tratta di uscire dall’angusto punto di osservazione che possono
essere le singole famiglie religiose, e camminare con gli altri in una
sinodalità consapevole per ritrovarsi come comunità ecclesiale in stato
di discernimento costante, perenne. In più convegni, a partire dal
Convegno di Palermo, nelle diocesi italiane, si è parlato della
possibilità di istituire degli Osservatori delle Chiese locali,
Osservatori culturali, Osservatori sociali, economici, politici da parte
della Chiesa in modo che essa abbia strumenti adeguati per leggere,
vedere, discernere, orientarsi. Non con interventi sporadici in momenti
delicati e decisivi quali il referendum o le elezioni politiche, ma in
un costante ascolto delle istanze degli uomini contemporanei, e una
decisa volontà di rispondere a queste istanze.
Secondo:
viaggiare al passo con fenomeni ed avvenimenti del nostro tempo
significa anche poterne cogliere il cuore, il significato profondo.
Questo si svela solo ad una lettura critica e competente. Quando, per
esempio, abbiamo approfondito problemi come la globalizzazione, come la
telematica, come la bioetica, tutti temi che ormai non sono più lontani
da noi e rispetto ai quali non possiamo restare spettatori. Ma quali
strumenti abbiamo in mano per leggere veramente il senso di questi
problemi?
Terzo:
elaborare con senso di lungimiranza, ma in piena corresponsabilità,
progetti pastorali organici con obiettivi chiari, flessibili
naturalmente, e tappe programmate a media o lunga scadenza, precisando i
soggetti pastorali che devono preoccuparsi di alcuni settori e offrendo
loro un’adeguata preparazione, ma facendo in modo anche che ciascun
soggetto mantenga la visione d’insieme e vi partecipi non solo sul piano
del fare, ma anche dell’essere e dell’esserci insieme ad altri. Il piano
dell’essere riguarda il curare l’interiorità, la vita spirituale, il
carisma, la vocazione, quello dell’esserci – l’uno per l’altro, l’uno a
fianco all’altro – le relazioni interpersonali, la solidarietà affettiva
ed effettiva, e la fraternità.
Correlazione e
interazione tra laici e religiosi
Solo in questa cornice
complessa e variegata può legittimamente porsi la domanda del rapporto
tra religiosi e laici, oggi. Se non c’è questa contestualizzazione del
mondo e di tutto il popolo di Dio, compresi i laici nel mondo, parlare
solo del rapporto religiosi-laici può essere un discorso riduttivo.
Altrimenti c’è sempre
il rischio risorgente di un rapporto non impostato correttamente, come
in passato talvolta è avvenuto e cioè che i laici fossero considerati
come bacino da cui tentare di trarre qualche vocazione “italiana” o come
possibili sostituti nel mantenimento di opere che altrimenti rischiavano
di essere chiuse, comunque “sostituti di serie B”. Non mi dilungo su
questo argomento perché padre Ciardi l’ha approfondito molto bene: laici
considerati come puri esecutori di decisioni prese da altri ed altrove,
laici che condividono la spiritualità del carisma, longa manus
nella visibilità ecclesiale e nel sostegno economico delle opere, capaci
di condividere comunque la spiritualità propria del carisma. I laici
sono considerati per lo più destinatari della cura e dell’opera di
evangelizzazione: la famiglia, ammalati, anziani, bambini… dunque non
laici come soggetto, come adulti-responsabili, come persone attive.
Bisogna, piuttosto, considerare i laici nella loro specificità non come
persone da addomesticare in quanto hanno una loro vocazione da
perseguire, da rispettare, da promuovere. Immersi nella realtà della
post-modernità, essi si pongono domande di senso molto profonde, che
comunque vogliono rappresentare la problematicità del mondo nella
Chiesa, con l’impegno, d’altra parte, di rappresentare la testimonianza
di speranza e di fede al mondo. I laici, di fatto, costituiscono un
ponte tra i drammi, i problemi, le attese e le speranze degli uomini
d’oggi, e la fede della Chiesa, la speranza dei credenti. Se noi non
accettiamo il laico con tutto questo spessore di problematicità e di
complessità, faremo dei laici altro, ma non quello che è nel piano di
Dio per la costruzione e l’edificazione della Chiesa e del mondo.
I laici, a partire
dalla loro dignità e dal loro ruolo ecclesiologico, non possono essere
considerati come elemento passivo, come semplici esecutori materiali,
come oggetti di cura pastorale, quasi che non avessero intelligenza,
lucido discernimento, capacità decisionale: degli eterni minorenni in
una Chiesa clericale, maschilista, gerarcologica.
Il compianto teologo
Yves Congar, autore della prima Teologia del laicato negli anni
50, prima del Concilio, amava dire che è più facile vegliare sulla culla
di un bimbo addormentato, che contrastare con un adolescente inquieto,
che sta crescendo e reclama per sé uno spazio di autonomia di pensiero e
di azione. Il modello di laico del passato offre l’immagine di laici
devoti, obbedienti, servizievoli e non critici, non capaci di obiezione,
non autonomi nelle scelte. Scriveva recentemente il mio collega Piero
Coda, Presidente dell’Associazione teologica italiana: «È necessario che
la coscienza cristiana assuma il compito di collegare la teologia con
l’antropologia, passando attraverso l’ecclesiologia trinitaria,
riprendendo la questione della sinodalità, come categoria ecclesiologica
e come prassi ecclesiale».
In altre parole si
tratta di assumere, come caratterizzante la vita ecclesiale il principio
di collegialità per l’integrazione e l’articolazione di tutte le
componenti ecclesiali, costituite dal battesimo in pari dignità,
chiamate alla medesima meta della santità, convocate dall’unico Padre a
testimoniare insieme il suo amore per l’umanità, responsabili
dell’esercizio di tutti i carismi donati dallo Spirito per corrispondere
ai bisogni e alle istanze della comunità degli uomini contemporanei.
L’Ecclesia de
Trinitate esige relazioni trinitarizzate, pericoretiche, cioè
circolari, chenotiche che si abbassano, che si annullano per servire,
nel dinamismo di una reciprocità effettiva e non solo predicata.
Un punto delicato che,
credo, valga la pena mettere a fuoco, è il dinamismo tra Chiesa
universale e Chiesa locale, che nel Concilio Vaticano II uscì fuori con
una sua ricchezza, ma anche con una sua problematicità. Questo binomio:
Chiesa universale, Chiesa locale, ha conosciuto in questi quaranta anni
degli sbilanciamenti, ora a favore di un polo e ora a favore di un
altro. La missione e la evangelizzazione riguardano anzitutto la Chiesa
locale nella sua globalità. Da essa, infatti, sul fondamento della
successione apostolica, scaturisce la tensione di annunciare la fede. A
tutti, scelti nella e per la comunione è chiesto, sotto la guida del
Vescovo, di assolvere al mandato di annunciare il Vangelo.
La cura e la formazione
del laicato vanno promosse in due direzioni: in quella della crescita
della qualità testimoniale della fede cristiana, e nell’altra relativa
al servizio ecclesiale nel segno della gratuità e della oblatività. La
Chiesa non ha bisogno di professionisti della pastorale, ma di una
testimonianza di dono gratuito. Mi sembra interessante la prima
direzione, cioè formare i laici per far crescere dei cristiani adulti,
capaci di testimoniare con la vita, le opere e le parole, la loro fede
nel Cristo morto e risorto.
San Cipriano scriveva:
«Il Vescovo è nella Chiesa, e la Chiesa è nel Vescovo». Dunque il
soggetto ecclesiale della Chiesa locale è il vero soggetto di pastorale
nella storia e nel territorio. Il Vaticano II non a caso ha
puntualizzato la sacramentalità dell’Episcopato come terzo grado
dell’Ordine Sacro, riaffermando comunque la dignità di tutti i
battezzati e in particolare dei laici. Si tratta di saper armonizzare
attorno al Vescovo le componenti ecclesiali dei carismi.
È necessario
riaffermare l’estroversione della Chiesa, come dinamismo ad esso
connaturato per la missione uscendo, in tal modo, da una prospettiva
ecclesiocentrica. Qualche anno fa è stato pubblicato un documento
Sulla collaborazione dell’uomo e della donna. Anziché considerare le
grandi questioni sul tappeto in un mondo in subbuglio, sembra che la
preoccupazione consista nello spazio da occupare tra uomini e donne, tra
laici e preti, tra religiosi e laici…
È urgente ridisegnare
l’orizzonte dei destinatari: non sono i pochi che noi consideriamo
raggiungibili; il destinatario è il mondo nel senso giovanneo, quello
anche carico di peccato, che esige una Chiesa eccentrica e non succube
di una chiusura ecclesiocentrica, una Chiesa che si proietta fuori di
sé, come Chiesa, come popolo: non il prete o la suora, ma il popolo di
Dio nel suo insieme.
Riaffermando di volersi
fare serva della verità e non padrona, discepola di Cristo, senza la
pretesa di possederlo totalmente o peggio ancora di gestirlo, la Chiesa
deve fare buon continuo cammino di conversione: si tratta di tracciare
l’orizzonte del Regno, attualizzandone continuamente la riserva
escatologica. Questo è uno dei più alti compiti assegnati dallo Spirito
ai religiosi nella Chiesa e nel mondo: si tratta di ricordare
continuamente a tutto il popolo di Dio, ma anche al mondo, che la
partita non si conclude nella storia, perché il Regno ha dei confini
molto più ampi che conducono all’eschaton. Bisogna ridimensionare
alcune assolutizzazioni, alcune dinamiche storiche di potere, per dare
forza all’impegno di liberazione assunto dalla Chiesa nei confronti
degli ultimi. Non si può rimandare quest’impegno al domani, in quanto
l’eternità si iscrive in questi gesti di profonda liberazione dei poveri
e dei deboli.
Nel rappresentare il
Regno di Dio che viene, ma che non si esaurisce nella vita e nell’azione
della Chiesa, la funzione dei religiosi appare urgente e ineliminabile,
specie nel rapporto con i laici, per donare la consapevolezza di una
realtà invisibile, ma non per questo poco rilevante.
Le categorie
ecclesiologiche di Popolo e di Corpo ci dicono che siamo un’unica realtà
organica, e che nella Chiesa c’è una misteriosa alternanza nelle
funzioni di docenti e di discenti. Il magistero è docente nella
dottrina, i preti nella Parola, nei sacramenti nella vita della
comunità, ma i religiosi hanno anche loro un magistero per la Chiesa, il
Regno, lo stile delle beatitudini, la gratuità del dono, l’assolutezza
della relazione con Dio, la preghiera, la cura degli ultimi, la
rivelazione dell’eschaton nella storia nella luminosa
testimonianza delle loro vite offerte.
I laici hanno anche
loro un magistero e gli altri apprendono tale magistero: l’attualizzazione
della logica dell’Incarnazione. Bisogna vivere da redenti nel luogo e
nel tempo in cui Dio ci ha posti per scoprire il senso e l’orientamento
della storia, una storia che non è affidata al caos, in quanto c’è una
mano provvidenziale che la dirige. Ai laici è chiesto di individuare
verso dove camminare col resto dell’umanità, di leggere i fenomeni
contemporanei, in un continuo discernimento dei segni dei tempi per
farsi portavoce delle istanze degli uomini del nostro tempo. C’è dunque
un magistero dei laici, la loro voce va ascoltata. Allora i laici non
sono nella Chiesa da vedere come persone passive cui è dato di ascoltare
l’omelia del prete la domenica.
Verso la reciprocità
A proposito del
rapporto uomo-donna, su cui tornerò tra poco, il mio collega Piero Coda
scrive: «ci troviamo, oggi, sulla soglia della reciprocità». Mi è
piaciuta moltissimo quest’espressione: io l’allargo alla reciprocità
vescovi, preti, laici, religiosi, ampliandone il raggio. Ci troviamo
sulla soglia della reciprocità: forse ancora non l’abbiamo varcata. Mi
chiedo cosa sarebbero nella Chiesa la comunione, la missione, il
dialogo, la fantasia della carità, una volta attraversata la soglia: si
tratterà di un’esperienza creativa e libera di comunione nella
reciprocità. Forse dobbiamo ancora scoprirla in buona parte questa
novità di vita comune, questo essere insieme. Non è un caso che la vita
venga da un uomo e una donna, nella loro alterità irriducibile e nella
loro capacità di totale compenetrazione, a specchio della vita
trinitaria. La vita viene dall’incontro delle alterità, che è un
incontro di fecondità, un incontro di amore, non di semplice reciproca
tolleranza, ma di amore che rinnova la realtà.
È richiesto adesso nel
rapporto tra laici e religiosi il passaggio dall’estraneità alla
collaborazione, ma anche dalla collaborazione alla corresponsabilità.
Collaborare significa mettersi a lavorare insieme ma, nel senso
originale del termine, quasi un partorire insieme, un soffrire insieme
per un travaglio che deve produrre qualcosa di nuovo. La
corresponsabilità è anche altro: è sentirsi allo stesso livello,
chiamati e ispirati dalla voce dello Spirito, pronti ad accogliere le
sue provocazioni e i suoi suggerimenti.
Ma c’è un passaggio
ancora più delicato dall’unidirezionalità alla reciprocità: non solo sul
piano del fare, ma anche sul piano dell’essere. C’è un dare e un
ricevere nella reciprocità che non ancora abbiamo forse sperimentato
fino in fondo.
Al numero 12 del
documento Il volto Missionario della Parrocchia si legge come
ultima componente il non dover dimenticare la vita consacrata. Ma quale
considerazione si ha delle numerosissime parrocchie rette da religiose e
religiosi! Una parrocchia non può dimenticare la vita consacrata: non si
tratta tanto di impegni da assolvere, quanto piuttosto che essi siano
quello che sono, in modo tale che il carisma di ciascun Istituto
rappresenti per la Chiesa il richiamo alla radice della carità e alla
destinazione escatologica. Questa forma di vita non si chiude in se
stessa, ma si apre alla comunicazione con i fratelli: «Ogni parrocchia
accolga in particolare il dono di cammini di preghiera e di servizio».
Forse gli stessi
consacrati hanno perso la dimensione del fare dono di sé, del loro
essere alla Chiesa e al mondo: presi come sono dal portare a termine
tante incombenze, dimenticano questa dimensione essenziale.
Non è un caso che in un
tempo così caotico e rumoroso come il nostro venga presentato un film
come Il grande silenzio che descrive la vita quotidiana e
silenziosa dei monaci. Come dire che oggi si avverte il bisogno di
riscoprire il piano dell’essere, dell’interiorità, della presenza
orante!
C’è un grave bisogno
oggi di laici formati, ma l’ideale sarebbe formarsi insieme. Nel master
che io dirigo in Sicilia ho inteso mettere insieme laici, religiosi,
preti, senza distinzione, perché il cammino di formazione ecclesiale è
unico. Poi nella forma della vita, secondo la propria vocazione,
ciascuno prenda la sua forma, ma nella sostanza di tutte le vocazioni si
cresce in quel “Sentire cum Ecclesia”, in quella
corresponsabilità e in una preparazione culturale che costituisce il
terreno comune su cui poi lavorare nei vari ambiti.
Nello scambio tra
religiosi e laici mi sembra importante uscire da forme di spiritualismo
disincarnato. Per troppo tempo ci è stato donato dai religiosi questa
idea, che la spiritualità monastica è la migliore, è la vera e dunque
anche i laici devono in qualche modo pregare come pregano i monaci.
Questo ha significato nel tempo l’esperienza di lacerazione interiore
senza fine: se non si riesce a pregare con la preghiera delle Ore
ciò non vuol essere fuori dalla preghiera della Chiesa. In Oriente la
tradizione ha presentato quella piccola preghiera del cuore che ha
permesso a tutti, anche ai viandanti di pregare giorno e notte. Per
molto tempo noi siamo stati succubi di un’idea di perfezione e di
santità di serie A e di serie B. Ma la mistica cristiana non è la via
dei privilegiati, delle suore, dei frati e a limite di qualche Vescovo o
di qualche Papa; la mistica è la via comune di tutti i cristiani. Noi
crediamo perché abbiamo un rapporto intimo con il Signore: noi tutti ci
giochiamo la vita perché abbiamo conosciuto il Dio dell’amore. Questo
vale per i religiosi e vale per noi laici, senza alcuna differenza.
Il terzo millennio
attende ancora la rivelazione del genio femminile. Giovanni Paolo II si
è pronunciato diverse volte su questo tema. Un genio da manifestare non
come ubbidienza, ma con creatività, non solo come silenzio, ma anche
come parola, non solo come capacità esecutiva, ma anche come
partecipazione effettiva ai processi decisionali della Chiesa. Si tratta
di assumere tutto il positivo delle rivendicazioni delle donne nel
mondo, assumendo la crescita in consapevolezza per la costruzione della
Chiesa e del mondo.
Grazie a Dio, oggi
nelle assemblee ecclesiali anche le suore esprimono le loro idee. Il
testo della Genesi dichiara che la donna è stata creata per stare di
fronte all’uomo, capace cioè di obiettare e di dibattere.
Quali i campi della
collaborazione tra religiosi e laici?
Prima di tutto il
primato dell’impegno spirituale, nella formazione, nella preghiera, nel
discernimento, nell’accompagnamento spirituale. Secondo, la vita
fraterna, per cui oggi c’è una grande sensibilità: la vita solidale
della famiglia, la vita insieme nelle comunità religiose.
La famiglia ha qualcosa
da dare alle comunità e le comunità hanno qualcosa da dare alle famiglie
in questo senso. Si tratta di essere consapevoli in ambedue i casi che
si è palestra di relazioni per ricordarci l’un l’altro in reciprocità
quanto sia importante investire sulla relazione. Gesù stesso, venendo
sulla terra, è nato in una famiglia. Poteva venire da single, ma ha
scelto di venire in una famiglia, chiedendo a tutti con forza di fare un
salto nella fede. Quando qualcuno gli dice: «“Ci sono tua madre e i tuoi
fratelli”, egli risponde: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei
fratelli?’». Coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in
pratica, coloro che fanno la volontà del Padre mio. Quindi c’è da fare
questo salto: dalla famiglia dei legami di sangue alla famiglia dei
credenti in lui. È a questo salto che contribuisce la testimonianza
credibile di comunità religiose fraterne. Solo in un clima di vera
condivisione la vita fraterna produce nelle persone una crescita secondo
un’umanità piena, vera e autentica. I giovani si lasciano attrarre da
vite realizzate: per contagio allora si avvicinano. La fraternità ha una
grandissima attrattiva in un’epoca in cui trionfa l’individualismo
esasperato. La fraternità diventa credibile: «Da questo vi
riconosceranno, se vi amerete gli uni gli altri. Amatevi come io vi ho
amati».
Nella trasmissione
della fede laici e religiosi possono lavorare insieme integrandosi molto
bene. C’è bisogno di far passare da una generazione all’altra il
messaggio della vita: possiamo vedere dove, come, perché, ma questo
messaggio della vita e dell’amore deve passare. È azione di Chiesa,
quella del generare ed educare alla fede: solo insieme, le componenti
ecclesiali, possono riuscire in questo difficile compito. Inoltre
l’educazione al dialogo interculturale e interreligioso, appare urgente
e necessaria in una società multietnica come la nostra. Infine la
passione per l’uomo, la predilezione dei poveri, la promozione della
giustizia costituiscono un impegno di liberazione che appartiene a tutta
la Chiesa.
Paolo VI nella sua
enciclica Evangelii Nuntiandi offre un titolo mariano molto
bello: «Maria, stella di Evangelizzazione». Vorrei chiudere con questa
invocazione a Maria augurandomi che tutte le famiglie religiose domani
possano illuminare questo mondo che ha tanta fame e sete di luce.
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