Col
passare del tempo, l’Esortazione apostolica Vita Consecrata
appare sempre più nitidamente come un documento profetico, capace di
lanciare provocazioni e sfide.
Una
sfida al pessimismo circa il futuro, una sfida ad una certa riflessione
incerta e minimalista nel confronto della grande realtà della vita
consacrata, una sfida ad alcune tendenze egemoni della società attuale,
soprattutto occidentale.
Il
documento intende dare una solida identità alla vita consacrata, proprio
in un momento delicato della sua lunga storia, affrontando con chiarezza
temi controversi e riaffermando il suo valore insostituibile. Ma non è
reticente neppure nei confronti delle sue responsabilità nei confronti
delle distorsioni della società secolaristica.
Diamo
uno sguardo rapido ad alcuni punti nodali.
Una
identità forte
In
questi dieci anni si è ulteriormente ridotta la visibilità della vita
consacrata in Occidente, mentre sta avanzando in altre parti del mondo.
Entrambe le situazioni esigono una chiara coscienza della identità della
vita consacrata per evitare le opposte derive della rassegnazione e del
trionfalismo.
Uno
degli effetti più benefici della nostra Esortazione, è stato quello di
dare alle persone consacrate una motivata e solida fiducia nel loro
peculiare genere di vita.
Chi
ha avuto la possibilità di presentare, subito dopo la pubblicazione, ad
assemblee, normalmente affollate, il documento, ha sentito, non una
volta solo, un significativo commento, di questo tono: “Finalmente
sappiamo quello che siamo!”.
Venivamo infatti da un periodo di grandi e seri dibattiti del
post-concilio, nei quali la teologia aveva dovuto cimentarsi con le
affermazioni del Vaticano II sull’universale chiamata alla santità,
sull’uguale dignità dei battezzati nella Chiesa, sull’incerta posizione
della vita consacrata in quanto stato di vita. Tutto ciò aveva portato a
sfumare talmente le affermazioni, da rendere difficile la comprensione
della identità stessa della vita consacrata non solo fuori, ma anche
dentro la stessa vita consacrata.
Col
risultato non infrequente di seminare incertezza e persino sfiducia, di
indebolire la perseveranza, di scoraggiare la promozione delle
vocazioni.
Se è
vero che una buona teologia non è sufficiente per una decisione di fede,
è anche vero che senza motivazioni teologiche forti, la decisione di
fede è esposta a tutti i venti delle opinioni e dei pareri più
contrapposti, che ne erodono più o meno velocemente la base e ne
indeboliscono i motivi di fedeltà e perseveranza.
La
identità della vita consacrata è cristologica, ha affermato a più
riprese il nostro documento. La vita consacrata è legata cioè al mistero
di Cristo, in quanto essa ripresenta la donazione totale di sé, che
Cristo ha fatto al Padre e ai fratelli. Donazione che si esprime
nell’abbracciare i consigli evangelici come cifra della totalità del
dono.
Tale
forma di vita è insuperabile, sia perché è quella di Cristo e oltre
Cristo non si può andare, sia perché comprende il tutto che si possa
dare, almeno intenzionalmente. E oltre il tutto non si può andare. Da
qui la sua “eccellenza” oggettiva nell’ordine della santità.
Una
identità, come si vede, chiara e forte, che, se assimilata in tutte le
sue implicazioni, può sostenere grandi decisioni e motivare le fedeltà
più combattute.
Un’identità che sta per essere recepita, almeno come dottrina, dentro la
vita consacrata, ma che non sembra ancora essere riconosciuta (o
conosciuta?) in altre componenti ecclesiali.
Un’identità basata sulla consacrazione, sull’appartenenza a Dio,
sull’essere di Cristo, e non su elementi più vistosi quali possono
essere le motivazioni prevalentemente umanistiche o sociologiche e
persino il servizio apostolico o una particolare missione.
La
consacrazione è l’elemento fondamentale, che può essere continuato anche
quando certe attività vengono meno e permettere di reggere quando le
attività sono travolgenti.
La
consacrazione è lo “zoccolo duro” della vita consacrata, di ogni vita
consacrata, sia di quella in declino che di quella in ascesa.
La
non percezione della centralità della consacrazione è una spia del
deficit di mistica del nostro tempo, della difficoltà a leggere il
Mistero, dell’influsso del mondo utilitaristico e delle preoccupazione
per l’efficienza, o per la facciata, anche in ambienti ecclesiali.
In
questo senso la sfida continua sia dentro la vita consacrata sia fuori,
per una riscoperta del suo mistero. E ciò non per estraniarsi dal mondo,
con i suoi valori e i suoi limiti, ma per offrire il contributo più
autentico e necessario, quello che scaturisce appunto dalla comprensione
della sua identità.
Tutto
ciò è chiaro, almeno per molti, sulla carta, ma poi talvolta evapora
nella affaccendata vita quotidiana, dove il tempo della preghiera si
riduce, le occupazioni assorbono, le preoccupazioni affaticano e la
superficialità istupidisce.
La
indispensabile dimensione mistica esige tempo: l’auspicata «tensione
conformativa a Cristo» è frutto di una preghiera non occasionale e non
utilitaristica.
L’identità forte esige una forte assimilazione, per evitare la non mai
sufficientemente deprecata inflazione di parole altisonanti e di
elaborati documenti regolarmente dimenticati.
Una
identità dinamica
Il
saldo radicamento cristologico, se è la pietra solida e sicura
dell’edificio, non è tutto l’edificio e non risolve di per sé tutti i
problemi.
E uno
dei problemi che si sono dovuti affrontare in questi anni è la diversità
di domande, che almeno qui in Occidente, si pongono alla vita
consacrata, domande sempre più differenziate nei confronti di quelle del
passato, assieme al fatto di una ridotta possibilità di risposte, dovuta
anche alla diminuzione numerica.
Una
diversità tanto rilevante che si è parlato addirittura di “rifondazione”
della vita consacrata. Basta pronunciare una tale parola per dire la
serietà delle difficoltà che si sono dovute affrontare.
Ma
probabilmente l’orizzonte indicato dal nostro documento, quello della
fedeltà creativa, pur con tutte le difficoltà di applicazione
pratica che comporta, meglio aiuta concretamente gli Istituti nel loro
impegno di rinnovamento, anche per il suo chiaro riferimento alle radici
carismatiche, dalle quali è difficile e problematico staccarsi o
soltanto allontanarsi.
Quello che è rilevante è che Vita consecrata ha presentato una
identità non bloccata né bloccante, ma duttile, in grado di confrontarsi
sia con le provocazioni dell’Occidente, sia con le invocazioni del Terzo
Mondo.
E se
in Occidente l’esito del confronto è incerto, dati i rapidissimi
mutamenti in corso, quello con il Terzo Mondo presenta buone
prospettive, almeno per i prossimi decenni.
Lo
sviluppo della vita consacrata in Africa e in Asia, con il conseguente
ulteriore processo di internazionalizzazione, rappresenta uno dei
mutamenti più vistosi e rilevanti nella Chiesa e della Chiesa: come la
Chiesa, anche la vita consacrata sarà sempre più marcata dalla presenza
di persone del Terzo Mondo. E ciò rappresenta una novità non
irrilevante, almeno nei confronti della situazione maturatasi nel
secondo millennio.
Tutto
infatti sta dicendo che stiamo entrando nella fase finale dell’eurocentrismo
nella vita consacrata. La vita consacrata sta abbandonando l’Europa nel
momento in cui l’Europa sta allontanandosi dalla sua tradizione
cristiana. La trasmigrazione del cristianesimo in altri continenti porta
con sé la trasmigrazione della vita consacrata: stiamo assistendo a un
fenomeno imponente di novità inimmaginabili solo pochi anni fa, novità
che fortunatamente la vita consacrata affronta con una esperienza
consolidata.
L’accelerazione del processo di inculturazione ha trovato sostegno nelle
pagine motivanti e incoraggianti del nostro documento (nn. 79 e 80), che
sta dando un notevole contributo al processo di mondializzazione della
vita consacrata e della stessa Chiesa.
I due
estremi patologici, non sempre evitati, entro cui si muove l’impegno di
una corretta inculturazione della vita consacrata sono da una parte la
ripresentazione di modelli europei, con qualche spruzzatina di esoticità,
e dall’altra la teorizzazione di un modello talmente debitore della
cultura locale da creare un qualche cosa di totalmente nuovo nei
confronti delle realizzazioni iniziali dei fondatori e fondatrici.
A
questo proposito è utile riprendere le pagine sulla cattolicità intesa
non come uniformità, ma come scambio di doni (n 47), che valgono non
solo per la Chiesa, ma anche per la stessa vita consacrata.
Vita
consecrata,
a questo proposito, può essere visto come un documento di confine tra l’eurocentrismo
al tramonto e l’alba di una nuova incarnazione della vita consacrata nei
vari continenti.
Una
identità dinamica quindi, quella prospettata dal documento, che permette
alla vita consacrata di crescere numericamente e qualitativamente sullo
scacchiere mondiale.
Resta
la sfida dell’unità degli Istituti, caratterizzati oramai da una tale
varietà di forme, da rendere sovente necessaria una chiarificazione del
carisma, non soltanto dal punto di vista storico, ma quale punto di
coagulo e di identità, che permetta di essere fedeli contemporaneamente
al Fondatore e a questo nostro tempo, nei vari contesti assai
differenziati.
A
questo proposito possono soccorrere i frequenti richiami al
discernimento (nn. 73-74), quale corretto approccio per la comprensione
del nuovo, visto non soltanto come fenomeno umano o sociale, ma quale
espressione dell’azione dello Spirito, che richiede e suggerisce una
risposta.
Anche
qui la competenza specifica va unita alla familiarità orante della
Parola di Dio, per poter leggere la storia sacra dentro la storia
profana, l’opera di Dio che richiede la risposta della nostra opera.
Una
identità aperta
L’ecclesiologia di comunione ha lasciato larghe tracce nel nostro
documento come pure nella vita degli Istituti. Vita consecrata se
da una parte è preoccupata di definire con chiarezza l’identità dello
stato di vita dei consacrati, dall’altra lo pone in immediata relazione
con gli altri stati di vita che compongono il mosaico della Chiesa.
Il
nostro documento rimanda praticamente al precedente documento sulla
Vita fraterna in comunità per quanto riguarda la vita fraterna delle
sue comunità, risposandone pienamente l’ecclesiologia di comunione, come
appare evidentemente anche dal titolo dato alla seconda: Signum
fraternitatis.
Inoltre:
di
fronte alla possibilità di scivolare nel fondamentalismo da parte di una
identità forte, una spiritualità di comunione rende rispettosi delle
posizioni altrui. Non si tratta ovviamente di venire a patti con il
relativismo, ma di vivere la propria identità come proposta, come
manifestazione di un contributo positivo ad una convivenza basata
sull’amore che ha fiducia nella sua forza tranquilla e pacifica di
attrazione.
Entro
il quadro della spiritualità di comunione, il documento pone la breve ed
esemplare trattazione della nuova collaborazione con i laici (nn.
54-56), che in questi anni ha subito una vistosa accelerazione.
Che
qui in Occidente le opere della vita consacrata siano in difficoltà è
cosa risaputa. Che queste opere siano spesso un peso eccessivo è cosa
altrettanto evidente. Che queste opere debbano essere abbandonate
allegramente, non è altrettanto evidente.
Le
opere pesano, ma è questo un motivo sufficiente per lasciarle? Non sono
nate per dare corpo al carisma? Non possono essere gestite diversamente,
magari assieme a dei laici preparati a condividere il meglio possibile
il nostro carisma o almeno il nostro servizio? In alcuni casi la
collaborazione con i laici non è una soluzione viabile. Ma non tutte le
situazioni sono identiche.
In
questi anni sembra che in alcuni ambienti si sia ceduto troppo al facile
sport del tiro a segno contro le opere, rendendole colpevoli di tutti i
disastri della vita consacrata, dal calo delle vocazioni, alla sua
diminuita significatività, alla invasione secolaristica dentro le sue
mura.
Tra
la difesa all’ultimo sangue delle opere, non poche delle quali davvero
insostenibili, e la loro demonizzazione, c’è, almeno qualche volta, la
possibilità di una gestione in cui i laici siano più coinvolti,
corresponsabilizzati e persino responsabilizzati in prima persona.
Se
alcuni anni fa i laici nelle nostre opere lavoravano per noi, e
se in molte realtà oggi essi lavorano con noi, la prospettiva è
quella che noi siamo per i laici dentro le nostre opere.
Questo esige formazione delle persone consacrate prima, o
contemporaneamente, della formazione dei laici. Non è raro il caso
constatare situazioni in cui appare essere più agevole coinvolgere i
laici che convincere le persone consacrate ad un diverso rapporto con i
laici.
La
rilettura dei numeri del nostro documento sulla partecipazione dei laici
al nostro servizio e al nostro carisma dovrebbe renderci almeno più
cauti nel proporre la soluzione della fuga dalle opere, in cerca di una
nuova ma dubbia identità.
Anche
qui può aiutare una rilettura del carisma, magari fatta con i laici, il
contributo dei quali è sovente illuminante per una decodificazione della
forma originariamente assunta dal carisma, in vista di una necessaria
attualizzazione.
Un’identità realista
Vita
consecrata
è profetica proprio perché realista, dal momento che non promette nulla
in termini di successo umano. Ricorda anzi che a noi è richiesta la
fedeltà e non necessariamente il successo, anche se la ricerca della
buona salute dell’Istituto e delle sue opere va perseguita come segno di
amore alla causa del Regno.
Il
realismo del documento è prima di tutto il realismo della fede, che in
termini concreti per noi significa mettere al primo posto la nostra
consacrazione. Siamo presenti al mondo, innanzitutto come consacrati,
persone cioè che mettono Dio al di sopra di tutto e la sequela di Cristo
come criterio di valutazione e di orientamento di tutti gli altri
atteggiamenti.
Il
realismo del documento fa intendere che essere fedeli alla nostra
vocazione non significa necessariamente avere futuro storico. Il futuro
è nella mani di Dio, al quale non possiamo non dare fiducia, dal momento
che sa condurre le cose un poco meglio di noi. La profezia deriva
appunto da questa incondizionata fedeltà al nostro genere di vita, anche
in situazione in evidenza di frutti tangibili.
Il
realismo del documento è una sfida alla nostra spesso inconscia
mentalità utilitaristica che prega per ottenere qualche cosa, che lavora
per raggiungere i risultati da noi fissati e attesi, che pratica con Dio
il “do ut des”.
Questi dieci anni ci portano a scoprire che vale anche per noi il
principio di gratuità: facciamo quello che dobbiamo fare, per amore e
spesso “solo per amore”, come è avvenuto a Betania, dove si è sprecato
molto perché si è amato molto.
Il
realismo del documento è il realismo della croce, dello spreco, dove da
un disastroso fallimento è venuta la più esaltante benedizione al mondo.
Il
realismo del documento è il realismo dei santi che si sono prodigati
all’estremo per il buon andamento delle cose loro affidate, ma che hanno
sempre lasciato l’ultima e decisiva parola alla santa volontà del
Signore o alla Provvidenza, secondo il linguaggio di molti di loro.
Non
ultimo aspetto del realismo del documento è il rilievo dato alla donna
consacrata: è l’inizio di una rivisitazione della diversità della vita
consacrata femminile da quella maschile. In questi anni si sono
moltiplicati gli studi sulla specificità della vita religiosa femminile
proprio da parte delle donne consacrate, che stanno aiutando anche i
signori uomini, religiosi e laici, a comprendere meglio il mondo della
donna consacrata, con i suoi problemi e le sue diversità.
Un’identità sfidante
Alcune tematiche in questi anni hanno ricevuto solo una debole
attenzione e, almeno sino ad ora, non consta che siano state
particolarmente fatte oggetto di una riflessione costante e
approfondita.
Si
può citare come esempio il tema della controcultura dei consigli
evangelici: «I consigli evangelici non fanno dell’uomo soltanto un
discepolo che segue Cristo da vicino, ma ricostruiscono in lui
l’immagine di Dio, così come è stato formato nella creazione. Coloro che
seguono i consigli evangelici non solo sono dei santi, sono anche dei
terapeuti per l’umanità ferita dall’hybris. Attraverso la morte
volontaria, essi distruggono l’idolatria del creato e rendono visibile
il Dio vivente. Se per sventura non si trovasse più nessuno che volesse
essere povero, casto, obbediente, la causa di Dio rischierebbe di morire
in questo mondo. Perché le cause per le quali nessuno vuole più morire
sono già morte» (Cardinal Daneels).
La
vita consacrata è una sfida alla società secolarizzata, nella quale
l’economia, la sessualità, la realizzazione di sé tendono alla completa
autonomia, quando non sono staccate da ogni riferimento religioso.
La
sfida è anzitutto sul piano della ferma e lieta testimonianza, ma
investe anche la critica a tali tendenze, quali premesse di uno
specifico contributo culturale.
La
povertà è austerità di vita e solidarietà con il povero, ma è anche
denuncia degli abusi di ogni sistema che mette al centro l’idolatria del
denaro.
La
castità nel celibato è dedicarsi all’amore di Dio e del prossimo, anima
e corpo, ma è anche denuncia dell’idolatria del sesso, che distorce la
realtà e porta allo sfruttamento della donna e all’abuso sui bambini.
L’obbedienza è riconoscere la centralità della volontà di Dio, ma è
anche denuncia dell’ossessione della “realizzazione di sé”, come pure è
ferma denuncia degli abusi delle dittature e di ogni forma di anarchia.
C’è
bisogno di tanta fiducia nella bontà del nostro genere di vita, in
quanto ripresentazione della forma di vita di Cristo, e quindi “modalità
divina di vivere la vita umana”, da impegnarsi ad essere “terapeuti” in
qualità di testimoni e di pazienti ed intelligenti promotori di una
controcultura evangelica dentro la nostra società occidentale, sempre
più confusa nella sua involuzione etica.
C’è
bisogno, e lo diciamo con trepidazione, che noi persone consacrate
accettiamo innanzitutto la sfida della santità, per iniziare le altre
sfide tanto impegnative e controcorrente.
Ci
sarebbe anche un’altra sfida, tutta interna alla vita consacrata
maschile, quello che attiene ai cosiddetti “istituti misti”, dove gli
orientamenti del Sinodo e dell’Esortazione Apostolica (n. 61) attendono
ancora una risposta. L’ispirazione evangelica sarà capace di movimentare
il diritto? O sarà il diritto che rallenterà l’ispirazione evangelica?
L’alleanza tra i due è così difficile?
Dieci anni dopo
Lo
scenario mondiale sta mutando: Cina ed India stanno imponendosi come
giganti destinati a diventare il centro del pianeta. Sono immensi paesi,
portatori di civiltà diverse, con grandi tradizioni culturali ed enormi
risorse umane proiettate verso il futuro. La vita consacrata ha campi
immensi in cui rendere presente Gesù “dolcezza del mondo”. Ancora una
volta saranno persone motivate in profondità dalla “passione per Cristo
e per l’uomo”, persone capaci di fraternità, ad impegnarsi creativamente
e credibilmente.
Il
nostro documento dicendo alla vita consacrata “sii te stessa”, la
proietta nel futuro.
È con
identità forte che si affrontano le sfide forti.
È con
un’identità dinamica e aperta che è possibile inculturarsi in ogni
ambiente.
È con
un’identità realista, dove si lascia libero spazio allo Spirito, che si
può essere profeti in ogni ambiente.
Dieci
anni dopo le indicazioni di Vita consecrata non hanno perso la
loro capacità di costruire e di provocare.
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