n. 1
gennaio 2007

 

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UNA CHIESA CHE GUARDA AL FUTURO
CON SPERANZA


di Don Carlo Bresciani

 

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IL tema del IV Convegno ecclesiale di Verona1, come sappiamo, era "Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo". La scelta si è manifestata molto felice. Al centro, infatti, è stata posta la domanda: come essere testimoni della fede, che ci unisce e che nasce dalla resurrezione di Gesù, in un mondo che cambia con estrema velocità sotto i nostri occhi e che sembra introdurre una certa estraneità tra lo sviluppo vorticoso che lo percorre e la fede?

Per "Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia", come richiesto dagli Orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana per il primo decennio del 2000, c’è bisogno di testimoni credibili e coraggiosi, capaci di propositività dentro una società che sembra perdere sempre più le radici cristiane che l’hanno generata; testimoni capaci di non lasciarsi prendere dallo smarrimento per i rapidi e sconvolgenti cambiamenti che vanno attuandosi non solo a livello scientifico e tecnico, ma anche di costume. Emergono, infatti, stili di vita che sembrano non avere più nulla di cristiano, non solo tra i cosiddetti ‘lontani’, ma anche tra coloro che fanno parte delle nostre famiglie. Noi stessi religiosi abbiamo talora l’impressione (e forse qualcosa di più dell’impressione) di non essere capiti neppure dalle nostre famiglie, dai fratelli, dai nipoti… Ci rispettano, ma ci vedono talora come degli extraterrestri, fuori dal mondo, superati e attardati in cose che sembrano a loro non avere più senso di fronte alle cose nuove di oggi.

Non si tratta, quindi, solo del mondo civile, quello delle strutture sociali, politiche ed economiche, si tratta del mondo della gente comune, che magari ha salvato qualche tradizione cristiana, ma forse ne ha perso l’anima più profonda e proprio per questo non sa guardare al futuro con speranza, anzi lo teme. E, quando si teme il futuro, si rifiutano impegni definitivi, sia nel matrimonio sia nella consacrazione.

Di fronte a questa situazione, la Chiesa italiana ha chiamato tutti a riflettere sulla necessità di riprendere la dimensione testimoniale della vita cristiana, sia nel privato che nel pubblico. "Il mondo cambia, ma il Vangelo è sempre lo stesso" è la risposta, quasi gridata con la dolce inflessione della sua voce, da Benedetto XVI nella omelia nello stadio Bentegodi di Verona. L’identità cristiana è strettamente legata al mandato di Gesù "Andate in tutto il mondo… di questo voi siete testimoni".

Il testo biblico che ha accompagnato il Convegno è stata la Prima lettera di Pietro, che parla dei cristiani come "stranieri e pellegrini" (1Pt 2,11) che devono narrare le meraviglie di Dio in un mondo che non lo conosce o non lo accetta. Pietro descrive bene la situazione dei cristiani anche nel nostro mondo, i quali generati da Dio alla vita nuova in Cristo, sono mandati a costruire come pietre vive quell’edificio spirituale in cui possano abitare contemporaneamente Dio e l’uomo.

La Chiesa, prendendo coscienza che questo mondo sta cambiando velocemente, e domandandosi come reagire, non si lascia prendere dallo scoraggiamento, ma ritorna al centro della sua fede e della sua missione nel mondo, appunto Comunicare il Vangelo del Crocifisso risorto, anche quando questo chiede di essere fatto con una testimonianza che passa attraverso il martirio del rifiuto o dell’indifferenza.

Quale la modalità per una tale impresa, che Giovanni Paolo II chiamava la nuova evangelizzazione? La risposta è stata: occorrono, come sempre è stato nella Chiesa, testimoni che sappiano narrare la speranza introdotta nel mondo dalla resurrezione di Cristo con il proprio stile di vita e che diventino ‘contagiosi’ per l’attrattiva che tale stile opera sugli uomini del nostro tempo. Occorrono narratori di speranza, persone cioè che costruiscono la propria storia personale attorno alla speranza scaturita dalla resurrezione di Gesù e che ne mostrino così, con la propria vita, non solo la ragionevolezza, ma che su di essa si può costruire una vita buona e bella già ora in questo mondo, vivendo dentro (non fuori) i diversi ambiti che la vita ci impone di abitare: la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità umana, la trasmissione della fede e della cultura, la cittadinanza. Sono, questi, i cinque ambiti messi a tema e sui quali si è sviluppata la ricerca comune di come essere nel mondo di oggi narratori della speranza generata da Gesù risorto, chiamando tutte le vocazioni cristiane ad un agire sinfonico.

In un mondo che cambia bisogna tornare all’essenziale

"Tornare all’essenziale" è stata un’espressione che è risuonata più e più volte nel Convegno. L’essenziale è la novità cristiana da non perdere. I tempi difficili sono quelli in cui occorre radicarsi nell’essenziale, mettendo qui più in profondità le radici.

La verità su cui si fonda la speranza è Gesù risorto, che è speranza viva perché legata alla persona vivente del Risorto, che proietta oltre il presente fino ad abbracciare il tratto escatologico della nostra vita: "Se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo da compiangere più di tutti gli uomini" (1Cor 15, 17-19). La mutazione che è avvenuta nella resurrezione di Gesù (vera e storica), ha ricordato il papa nel suo discorso al Convegno, non riguarda solo lui, ma anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo. Comunicata al credente, mediante la fede e il Battesimo, essa lo trasforma, tramite lui trasforma la Chiesa e, attraverso essi, il mondo. La resurrezione "ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé" (Benedetto XVI). Nell’immersione nella resurrezione operata dalla fede e dal Battesimo è cambiata l’identità essenziale del cristiano, il quale continua a vivere soltanto in questo cambiamento, fino al punto da dire con San Paolo: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). ""Io, ma non più io": è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della "novità" cristiana chiamata a trasformare il mondo" (Benedetto XVI).

Le nostre comunità devono tornare all’essenziale della fede: l’amore pasquale di Gesù da cui sono trasformate e da cui scaturisce la possibilità di una nuova qualità delle relazioni. Il fare, da solo, non alimenta la speranza né in noi né in coloro per i quali agiamo. Le comunità in cui viviamo hanno oggi bisogno di raccogliersi maggiormente e riconoscersi nell’amore pasquale di Cristo, da cui sono nate e in cui possono essere sempre di nuovo rivivificate. "Con il cuore in lui, rigeneriamo la nostra volontà di amare questo mondo; con lo sguardo fisso in lui, alleniamo lo sguardo a guardare la vita come la vede lui. Vivendo come lui, ricominciamo ogni giorno il cammino, rimessi in piedi dalla misericordia che ama senza merito e diffondiamo nel mondo la speranza che nasce dall’essere amati e che dà speranza amando" (P. Bignardi).

La speranza che la Chiesa porta al mondo

La Chiesa sa di non avere da offrire al mondo alcuna risposta tecnica per i molteplici problemi che lo affliggono. Si affianca alle sue fatiche, gli offre un orizzonte di senso della vita, apre gli spazi sul mistero dell’azione di Dio nel mondo attraverso Gesù Cristo. Essa non si lascia irretire dalle molte cose non risolte, dalle molte domande che appaiono senza risposta.

La resurrezione di Gesù, donando la luce del tratto escatologico della vita umana, non estranea il cristiano dalla comune fatica della costruzione di una umanità più giusta, di relazioni qualitativamente diverse, ma apre alla speranza di un compimento che va oltre le realizzazioni umane del presente e del futuro. Proprio per questo essa ridona libertà di azione nel mondo, senza diventare succubi delle mode del momento o del successo ad ogni costo.

La resurrezione di Cristo ridona il vero spazio alla libertà umana, quello di impegnare la vita in modo definitivo per progetti dal respiro lungo e dalle mete alte, anche per quelle che non si avrà la possibilità di contemplare nella loro piena realizzazione, ma che hanno bisogno di essere avviate perché il mondo e le generazioni di domani ne possano godere. La stessa consacrazione religiosa trova qui la fonte e la fecondità della sua donazione. Che cosa può significare per noi consacrati tutto questo? Il papa ha tracciato autorevolmente la strada per tutti: "La nostra vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia e della speranza cristiana nel mondo, in concreto, in quella comunità di uomini entro la quale viviamo" (Benedetto XVI).

L’attivismo delle opere di carità, mosso sicuramente da buone intenzioni e dalla passione per l’uomo che ci muove in quanto credenti in un Dio incarnato, non basta a curare adeguatamente le molteplici ferite e fragilità degli uomini e delle donne di oggi, meno che meno basta a costruire la qualità buona delle relazioni: la qualità della nostra relazione con Gesù risorto e con i fratelli con i quali condividiamo la vita consacrata. La qualità scadente delle relazioni nelle nostre comunità, quando sono troppo umanamente fondate, non rende affatto attraente la vita consacrata; anzi, la rende incapace di comunicare quella gioia di cui è portatrice. Non basta l’esercizio delle ‘opere di carità’, per quanto molto apprezzate dal mondo. Se le nostre comunità non esprimono anche una qualità buona delle relazioni comunitarie, non narriamo alcuna speranza e non si apre il cuore alla gioia della donazione e della consacrazione. Se la Chiesa è chiamata ad essere "casa e scuola di comunione" molto di più lo dovranno essere le comunità di vita consacrata in cui dovrebbe essere coltivata in modo particolare una "spiritualità di comunione". Le comunità religiose, informate dall’amore del Cristo risorto, dovrebbero riscoprire questo valore profetico di cui sono portatrici.

La questione antropologica, di cui tanto si discute, ha certamente risvolti preoccupanti che riguardano il progresso biomedico e tecnico-scientifico in generale, ma non potrà essere affrontata se non superando l’individualismo (anche della pastorale) che porta alla solitudine e in cui si diluisce il valore e la dignità della persona umana.

Le urgenze pastorali emerse dal Convegno di Verona

Si può dire che nel Convegno è maturata una più chiara coscienza evangelizzatrice di tutta la Chiesa. Molto spesso è ritornata l’espressione "conversione pastorale/conversione missionaria", già espressa negli Orientamenti, "Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia", che accompagnano questo decennio.

È nota a tutti la distanza della coscienza cristiana dalla vita moderna. Ciò richiede che ci si prenda maggior cura della formazione della coscienza, non soltanto con l’aumento di catechesi astratte, bensì promuovendo una formazione che parta e si inserisca nei diversi ambiti di vita che il Convegno ha messo a tema come ambiti dell’esercizio della speranza. Ciò faciliterà l’auspicata sintesi tra fede e vita.

Se, come crediamo, il Vangelo ha ancora un messaggio originale da dire nell’ora attuale, allora emergono tre strade da percorrere necessariamente: 1) ridare il primato all’evangelizzazione; 2) recuperare a fondo la figura comunitaria del nostro essere cristiani; 3) attuare una conversione pastorale.

1) Primato all’evangelizzazione. L’identità cristiana deve essere continuamente rigenerata facendo memoria della nostra origine attraverso la Parola e i Sacramenti. Non è un possesso acquisito una volta per sempre. Ma ciò non può che essere fatto nella e con la comunità credente. Il primato dell’evangelizzazione implica una incarnazione del Vangelo nelle forme della vita odierna. Le tradizioni del passato, che hanno generato le nostre comunità e noi stessi alla fede, rischiano di essere offuscate e di non essere più in grado di comunicare il Vangelo se non rilette alla luce della Parola e rimodellate su di essa, così che l’acqua pura che da essa scaturisce possa continuare a rifluire su noi e sui nostri contemporanei.

2) La figura comunitaria del nostro essere cristiani. Il Concilio Vaticano II ha rimesso al centro l’ecclesiologia di comunione. Affinché la Chiesa sia testimone di Gesù nel mondo di oggi sono da recuperare almeno due elementi: non dimenticare che il Vangelo può essere accolto e vissuto solo all’interno di una comunità credente; vivere l’appartenenza ecclesiale in modo tale che essa diventi già narrazione del Vangelo. Per certi aspetti la testimonianza a Gesù risorto è prima della comunità e poi del singolo che vive in quella comunità che testimonia la fecondità del Vangelo. Non possiamo che essere comunità del Vangelo; già in questo c’è una ineliminabile dimensione missionaria.

3) Attuare una conversione pastorale. Richiede simultaneamente le tre dimensioni: spirituale, pastorale e culturale. Si tratta di portare il Vangelo dentro la vita quotidiana concreta, là dove vivono gli uomini e le donne di oggi. Significa abitare evangelicamente gli ambiti di vita, andare verso gli uomini e le donne di oggi là dove essi vivono, uscendo se necessario dagli ambiti angusti delle nostre ristrette comunità parrocchiali, per abitare spiritualmente il contesto sociale e culturale di oggi. Questa conversione pastorale, a sua volta, esige una ‘conversione missionaria’. "Missione e comunione sono due nomi di uno stesso incontro" con il Cristo risorto (Traccia per il Convegno n. 4) C’è un "intimo e inscindibile legame tra comunione e missione, tra missione e comunione. Sono assolutamente inseparabili: simul stant vel cadunt" (Tettamanzi).

La vita consacrata chiamata ad operare sempre più in rete

Più volte nel Convegno è stato sottolineato che la Chiesa può essere veramente missionaria solo attraverso la sinfonia delle molteplici vocazioni cristiane. Non si tratta oggi tanto di chiedersi quale sia il posto dei laici nella Chiesa, quanto di mettere in atto modalità attraverso cui tutte le vocazioni e i ministeri possano essere pietre vive per la costruzione di quell’edificio spirituale che è segno vivo di Gesù per il mondo. Inutile disperdersi in una ricerca affannosa su come distribuire i compiti o in una sterile rivincita dei ruoli laicali o meno nella Chiesa. Il tema del ruolo dei laici non può essere affrontato in chiave di ‘meno consacrati, quindi spazio ai laici’, ma sul recupero della realtà della Chiesa quale sinfonia delle diverse vocazioni, tutte radicate nel Battesimo, che insieme testimoniano il Cristo risorto nei diversi ambiti e nelle diverse modalità. Tutte le vocazioni sono necessarie e tutte, benché in modi diversi, testimoniano la novità cristiana.

La sinfonia delle vocazioni ha a che fare con la qualità della testimonianza cristiana capace di incrociare le forme pratiche di vita odierne di uomini, donne, famiglie, ragazzi, adolescenti, giovani, adulti e anziani, con le loro fragilità e con le loro potenzialità in ordine alla vita in Cristo e a quella fraternità, in lui, che ci fa Chiesa. Rileggiamo quanto i contributi delle diocesi in vista del Convegno hanno espresso in merito, chiedendo una nuova coscienza vocazionale: "Nella sinfonia dei doni e dei carismi di cui la comunità cristiana è ricca, si potranno riconoscere le plurali e diversificate figure vocazionali. Ogni stato di vita assume una connotazione vocazionale specifica e singolare: la vita consacrata, il sacerdozio ministeriale, la famiglia, i laici e - in modo proprio - le associazioni e i movimenti di ispirazione cristiana. Si tratta, insomma, di scoprire dimensioni nuove delle stesse vocazioni, perché in ogni situazione della vita vissuta si dia la testimonianza cristiana e la fede sia incarnata, specie nei luoghi, nei tempi e nelle condizioni in cui è evasa e la si vuole zittire o mettere da parte" (n. 22).

Da qui deriva il compito specifico e fondamentale dei consacrati: "I consacrati sono fortemente interpellati: compito specifico della forma di vita secondo i consigli evangelici è proprio l’affermare il primato di Dio, rivelatoci in Gesù Cristo. Di questo i consacrati sono testimonianza, innanzitutto con la propria scelta di vita. Essi, in forza della vocazione specifica, testimoniano la verità di Dio che si offre alla libertà dell’uomo come fonte per ciascuno di vita autentica e rinnovata" (n. 22).

Da più parti durante il Convegno è venuta la sollecitazione ad operare maggiormente in rete per una più efficace testimonianza della novità cristiana. Ciò riguarda le aggregazioni e i movimenti ecclesiali, le parrocchie e le comunità cristiane, comprese le comunità di vita consacrata. La crisi vocazionale, che affligge un po’ tutti gli Istituti di vita consacrata, forse è una spinta a recuperare meglio un’esigenza intrinseca dell’essere tutti insieme, come Chiesa, "comunità della testimonianza".

La speranza e il contesto storico
della vita consacrata italiana

Il diminuire delle forze e dei numeri, assieme a tante sofferenze e purificazioni, è occasione non solo per un esercizio della speranza che si fonda nel Risorto, ma anche per vivere con speranza, come ha ricordato il card. Tettamanzi nella sua Prolusione al Convegno. L’amore che noi doniamo sullo stile della vita di Gesù è già ricchezza nostra, noi consacrati la esperimentiamo. Nel Crocifisso risorto noi sappiamo che l’amore donato, anche quando sembra non portare a nulla, non è mai inutile.

Come Gesù nell’Ultima Cena ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, che ci dà la vita, ci libera e ci salva, anche noi siamo chiamati a trasformare la nostra vita nel dono di noi stessi, accettando per amore le condizioni che ci sono date da vivere: questa è la strada che Dio ha scelto per noi. Sarà per il bene nostro e dell’umanità se continuiamo a vivere con speranza il libero dono di noi stessi.

Come "pellegrini e stranieri" (1Pt 2,11) dobbiamo avere la mente lucida e il cuore libero per dare un originale contributo alla costruzione della città e del mondo attuale. Siamo chiamati a mostrare al mondo il potere trasformante della "speranza viva" (1Pt 1,3) che lo Spirito del Risorto ci dona per la vita presente nel mondo. In una parola, si tratta di mostrare che guardare la terra dal cielo e guardare il cielo dalla terra ci dà la giusta dimensione della vita personale, delle comunità e delle nazioni e, nello stesso tempo, la libertà di donarci nell’amore, perché il mondo abbia la vita e l’abbia in abbondanza (cf Gv 10,10).

Don Carlo Bresciani
Seminario diocesano
Via D. Bollani, 20 – 25123 Brescia


1. È stato il quarto convegno della Chiesa italiana, dopo quello di Roma del 1976, di Loreto del 1985 e di Palermo del 1995. I precedenti convegni sono stati tre tappe importanti della ricezione del messaggio di rinnovamento venuto dal Concilio. Il primo Convegno ebbe per tema Evangelizzazione e promozione umana (Roma 1976); il secondo trattò di Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini (Loreto 1985); il terzo mise a tema Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia (Palermo 1995).

I tre Convegni già celebrati hanno fatto da contrappunto al programma pastorale della Chiesa italiana di questi 30 anni su evangelizzazione, fede e carità, segnato dagli Orientamenti pastorali dalla Conferenza Episcopale Italiana alle Chiese diocesane: Evangelizzazione e sacramenti (anni ’70); Comunione e comunità (anni ’80); Evangelizzazione e testimonianza della carità (anni ’90); Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (il decennio 2000-2010).

Ogni decennio ha visto, a metà circa del suo percorso, la celebrazione di un proprio convegno ecclesiale. Mancava all’appello il tema della "speranza", che è stato al centro dell’interesse del Convegno di Verona del 2006.

 

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