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IL
tema del IV Convegno ecclesiale di Verona1,
come sappiamo, era "Testimoni di Gesù risorto, speranza del
mondo". La scelta si è manifestata molto felice. Al centro,
infatti, è stata posta la domanda: come essere testimoni della fede,
che ci unisce e che nasce dalla resurrezione di Gesù, in un mondo che
cambia con estrema velocità sotto i nostri occhi e che sembra
introdurre una certa estraneità tra lo sviluppo vorticoso che lo
percorre e la fede?
Per "Comunicare il
Vangelo in un mondo che cambia", come richiesto dagli Orientamenti
pastorali della Conferenza Episcopale Italiana per il primo decennio del
2000, c’è bisogno di testimoni credibili e coraggiosi, capaci di
propositività dentro una società che sembra perdere sempre più le
radici cristiane che l’hanno generata; testimoni capaci di non
lasciarsi prendere dallo smarrimento per i rapidi e sconvolgenti
cambiamenti che vanno attuandosi non solo a livello scientifico e
tecnico, ma anche di costume. Emergono, infatti, stili di vita che
sembrano non avere più nulla di cristiano, non solo tra i cosiddetti
‘lontani’, ma anche tra coloro che fanno parte delle nostre
famiglie. Noi stessi religiosi abbiamo talora l’impressione (e forse
qualcosa di più dell’impressione) di non essere capiti neppure dalle
nostre famiglie, dai fratelli, dai nipoti… Ci rispettano, ma ci vedono
talora come degli extraterrestri, fuori dal mondo, superati e attardati
in cose che sembrano a loro non avere più senso di fronte alle cose
nuove di oggi.
Non si tratta, quindi,
solo del mondo civile, quello delle strutture sociali, politiche ed
economiche, si tratta del mondo della gente comune, che magari ha
salvato qualche tradizione cristiana, ma forse ne ha perso l’anima
più profonda e proprio per questo non sa guardare al futuro con
speranza, anzi lo teme. E, quando si teme il futuro, si rifiutano
impegni definitivi, sia nel matrimonio sia nella consacrazione.
Di fronte a questa
situazione, la Chiesa italiana ha chiamato tutti a riflettere sulla
necessità di riprendere la dimensione testimoniale della vita
cristiana, sia nel privato che nel pubblico. "Il mondo cambia, ma
il Vangelo è sempre lo stesso" è la risposta, quasi gridata con
la dolce inflessione della sua voce, da Benedetto XVI nella omelia nello
stadio Bentegodi di Verona. L’identità cristiana è strettamente
legata al mandato di Gesù "Andate in tutto il mondo… di questo
voi siete testimoni".
Il testo biblico che ha
accompagnato il Convegno è stata la Prima lettera di Pietro, che parla
dei cristiani come "stranieri e pellegrini" (1Pt 2,11) che
devono narrare le meraviglie di Dio in un mondo che non lo conosce o non
lo accetta. Pietro descrive bene la situazione dei cristiani anche nel
nostro mondo, i quali generati da Dio alla vita nuova in Cristo, sono
mandati a costruire come pietre vive quell’edificio spirituale in cui
possano abitare contemporaneamente Dio e l’uomo.
La Chiesa, prendendo
coscienza che questo mondo sta cambiando velocemente, e domandandosi
come reagire, non si lascia prendere dallo scoraggiamento, ma ritorna al
centro della sua fede e della sua missione nel mondo, appunto Comunicare
il Vangelo del Crocifisso risorto, anche quando questo chiede di
essere fatto con una testimonianza che passa attraverso il martirio del
rifiuto o dell’indifferenza.
Quale la modalità per
una tale impresa, che Giovanni Paolo II chiamava la nuova
evangelizzazione? La risposta è stata: occorrono, come sempre è
stato nella Chiesa, testimoni che sappiano narrare la speranza
introdotta nel mondo dalla resurrezione di Cristo con il proprio stile
di vita e che diventino ‘contagiosi’ per l’attrattiva che tale
stile opera sugli uomini del nostro tempo. Occorrono narratori di
speranza, persone cioè che costruiscono la propria storia personale
attorno alla speranza scaturita dalla resurrezione di Gesù e che ne
mostrino così, con la propria vita, non solo la ragionevolezza, ma che
su di essa si può costruire una vita buona e bella già ora in questo
mondo, vivendo dentro (non fuori) i diversi ambiti che la vita ci
impone di abitare: la vita affettiva, il lavoro e la festa, la
fragilità umana, la trasmissione della fede e della cultura, la
cittadinanza. Sono, questi, i cinque ambiti messi a tema e sui quali si
è sviluppata la ricerca comune di come essere nel mondo di oggi
narratori della speranza generata da Gesù risorto, chiamando tutte le
vocazioni cristiane ad un agire sinfonico.
In un
mondo che cambia bisogna
tornare all’essenziale
"Tornare all’essenziale"
è stata un’espressione che è risuonata più e più volte nel
Convegno. L’essenziale è la novità cristiana da non perdere. I tempi
difficili sono quelli in cui occorre radicarsi nell’essenziale,
mettendo qui più in profondità le radici.
La verità su cui si
fonda la speranza è Gesù risorto, che è speranza viva perché
legata alla persona vivente del Risorto, che proietta oltre il presente
fino ad abbracciare il tratto escatologico della nostra vita: "Se
abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo da
compiangere più di tutti gli uomini" (1Cor 15, 17-19). La mutazione
che è avvenuta nella resurrezione di Gesù (vera e storica), ha
ricordato il papa nel suo discorso al Convegno, non riguarda solo lui,
ma anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo.
Comunicata al credente, mediante la fede e il Battesimo, essa lo
trasforma, tramite lui trasforma la Chiesa e, attraverso essi, il
mondo. La resurrezione "ha inaugurato una nuova dimensione della
vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra
continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé"
(Benedetto XVI). Nell’immersione nella resurrezione operata dalla fede
e dal Battesimo è cambiata l’identità essenziale del cristiano, il
quale continua a vivere soltanto in questo cambiamento, fino al punto da
dire con San Paolo: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me" (Gal 2,20). ""Io, ma non più io": è questa la
formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula
della risurrezione dentro al tempo, la formula della "novità"
cristiana chiamata a trasformare il mondo" (Benedetto XVI).
Le nostre comunità
devono tornare all’essenziale della fede: l’amore pasquale di Gesù
da cui sono trasformate e da cui scaturisce la possibilità di una nuova
qualità delle relazioni. Il fare, da solo, non alimenta la speranza né
in noi né in coloro per i quali agiamo. Le comunità in cui viviamo
hanno oggi bisogno di raccogliersi maggiormente e riconoscersi nell’amore
pasquale di Cristo, da cui sono nate e in cui possono essere sempre di
nuovo rivivificate. "Con il cuore in lui, rigeneriamo la nostra
volontà di amare questo mondo; con lo sguardo fisso in lui, alleniamo
lo sguardo a guardare la vita come la vede lui. Vivendo come lui,
ricominciamo ogni giorno il cammino, rimessi in piedi dalla misericordia
che ama senza merito e diffondiamo nel mondo la speranza che nasce dall’essere
amati e che dà speranza amando" (P. Bignardi).
La
speranza che la Chiesa porta al mondo
La Chiesa sa di non
avere da offrire al mondo alcuna risposta tecnica per i molteplici
problemi che lo affliggono. Si affianca alle sue fatiche, gli offre un
orizzonte di senso della vita, apre gli spazi sul mistero dell’azione
di Dio nel mondo attraverso Gesù Cristo. Essa non si lascia irretire
dalle molte cose non risolte, dalle molte domande che appaiono senza
risposta.
La resurrezione di
Gesù, donando la luce del tratto escatologico della vita umana, non
estranea il cristiano dalla comune fatica della costruzione di una
umanità più giusta, di relazioni qualitativamente diverse, ma apre
alla speranza di un compimento che va oltre le realizzazioni umane del
presente e del futuro. Proprio per questo essa ridona libertà di azione
nel mondo, senza diventare succubi delle mode del momento o del successo
ad ogni costo.
La resurrezione di
Cristo ridona il vero spazio alla libertà umana, quello di impegnare la
vita in modo definitivo per progetti dal respiro lungo e dalle mete
alte, anche per quelle che non si avrà la possibilità di contemplare
nella loro piena realizzazione, ma che hanno bisogno di essere avviate
perché il mondo e le generazioni di domani ne possano godere. La stessa
consacrazione religiosa trova qui la fonte e la fecondità della sua
donazione. Che cosa può significare per noi consacrati tutto questo? Il
papa ha tracciato autorevolmente la strada per tutti: "La nostra
vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare
perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della
nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col
Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per
poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della
gioia e della speranza cristiana nel mondo, in concreto, in quella
comunità di uomini entro la quale viviamo" (Benedetto XVI).
L’attivismo delle
opere di carità, mosso sicuramente da buone intenzioni e dalla passione
per l’uomo che ci muove in quanto credenti in un Dio incarnato, non
basta a curare adeguatamente le molteplici ferite e fragilità degli
uomini e delle donne di oggi, meno che meno basta a costruire la
qualità buona delle relazioni: la qualità della nostra relazione con
Gesù risorto e con i fratelli con i quali condividiamo la vita
consacrata. La qualità scadente delle relazioni nelle nostre comunità,
quando sono troppo umanamente fondate, non rende affatto attraente la
vita consacrata; anzi, la rende incapace di comunicare quella gioia di
cui è portatrice. Non basta l’esercizio delle ‘opere di carità’,
per quanto molto apprezzate dal mondo. Se le nostre comunità non
esprimono anche una qualità buona delle relazioni comunitarie, non
narriamo alcuna speranza e non si apre il cuore alla gioia della
donazione e della consacrazione. Se la Chiesa è chiamata ad essere
"casa e scuola di comunione" molto di più lo dovranno essere
le comunità di vita consacrata in cui dovrebbe essere coltivata in modo
particolare una "spiritualità di comunione". Le comunità
religiose, informate dall’amore del Cristo risorto, dovrebbero
riscoprire questo valore profetico di cui sono portatrici.
La questione
antropologica, di cui tanto si discute, ha certamente risvolti
preoccupanti che riguardano il progresso biomedico e tecnico-scientifico
in generale, ma non potrà essere affrontata se non superando l’individualismo
(anche della pastorale) che porta alla solitudine e in cui si diluisce
il valore e la dignità della persona umana.
Le
urgenze pastorali emerse dal Convegno di Verona
Si può dire che nel
Convegno è maturata una più chiara coscienza evangelizzatrice
di tutta la Chiesa. Molto spesso è ritornata l’espressione
"conversione pastorale/conversione missionaria", già espressa
negli Orientamenti, "Comunicare il Vangelo in un mondo che
cambia", che accompagnano questo decennio.
È nota a tutti la
distanza della coscienza cristiana dalla vita moderna. Ciò richiede che
ci si prenda maggior cura della formazione della coscienza, non soltanto
con l’aumento di catechesi astratte, bensì promuovendo una formazione
che parta e si inserisca nei diversi ambiti di vita che il Convegno ha
messo a tema come ambiti dell’esercizio della speranza. Ciò
faciliterà l’auspicata sintesi tra fede e vita.
Se, come crediamo, il
Vangelo ha ancora un messaggio originale da dire nell’ora attuale,
allora emergono tre strade da percorrere necessariamente: 1) ridare il
primato all’evangelizzazione; 2) recuperare a fondo la figura
comunitaria del nostro essere cristiani; 3) attuare una conversione
pastorale.
1) Primato all’evangelizzazione.
L’identità cristiana deve essere continuamente rigenerata facendo
memoria della nostra origine attraverso la Parola e i Sacramenti. Non è
un possesso acquisito una volta per sempre. Ma ciò non può che essere
fatto nella e con la comunità credente. Il primato dell’evangelizzazione
implica una incarnazione del Vangelo nelle forme della vita odierna. Le
tradizioni del passato, che hanno generato le nostre comunità e noi
stessi alla fede, rischiano di essere offuscate e di non essere più in
grado di comunicare il Vangelo se non rilette alla luce della Parola e
rimodellate su di essa, così che l’acqua pura che da essa scaturisce
possa continuare a rifluire su noi e sui nostri contemporanei.
2) La figura
comunitaria del nostro essere cristiani. Il Concilio Vaticano II ha
rimesso al centro l’ecclesiologia di comunione. Affinché la Chiesa
sia testimone di Gesù nel mondo di oggi sono da recuperare almeno due
elementi: non dimenticare che il Vangelo può essere accolto e vissuto
solo all’interno di una comunità credente; vivere l’appartenenza
ecclesiale in modo tale che essa diventi già narrazione del Vangelo.
Per certi aspetti la testimonianza a Gesù risorto è prima della
comunità e poi del singolo che vive in quella comunità che testimonia
la fecondità del Vangelo. Non possiamo che essere comunità del
Vangelo; già in questo c’è una ineliminabile dimensione missionaria.
3) Attuare una conversione
pastorale. Richiede simultaneamente le tre dimensioni: spirituale,
pastorale e culturale. Si tratta di portare il Vangelo dentro la vita
quotidiana concreta, là dove vivono gli uomini e le donne di oggi.
Significa abitare evangelicamente gli ambiti di vita, andare verso gli
uomini e le donne di oggi là dove essi vivono, uscendo se necessario
dagli ambiti angusti delle nostre ristrette comunità parrocchiali, per
abitare spiritualmente il contesto sociale e culturale di oggi. Questa
conversione pastorale, a sua volta, esige una ‘conversione missionaria’.
"Missione e comunione sono due nomi di uno stesso incontro"
con il Cristo risorto (Traccia per il Convegno n. 4) C’è
un "intimo e inscindibile legame tra comunione e missione, tra
missione e comunione. Sono assolutamente inseparabili: simul
stant vel cadunt" (Tettamanzi).
La vita
consacrata chiamata ad operare sempre più in rete
Più volte nel Convegno
è stato sottolineato che la Chiesa può essere veramente missionaria
solo attraverso la sinfonia delle molteplici vocazioni cristiane. Non si
tratta oggi tanto di chiedersi quale sia il posto dei laici nella
Chiesa, quanto di mettere in atto modalità attraverso cui tutte le
vocazioni e i ministeri possano essere pietre vive per la costruzione di
quell’edificio spirituale che è segno vivo di Gesù per il mondo.
Inutile disperdersi in una ricerca affannosa su come distribuire i
compiti o in una sterile rivincita dei ruoli laicali o meno nella
Chiesa. Il tema del ruolo dei laici non può essere affrontato in chiave
di ‘meno consacrati, quindi spazio ai laici’, ma sul recupero della
realtà della Chiesa quale sinfonia delle diverse vocazioni, tutte
radicate nel Battesimo, che insieme testimoniano il Cristo risorto nei
diversi ambiti e nelle diverse modalità. Tutte le vocazioni sono
necessarie e tutte, benché in modi diversi, testimoniano la novità
cristiana.
La sinfonia delle
vocazioni ha a che fare con la qualità della testimonianza cristiana
capace di incrociare le forme pratiche di vita odierne di uomini, donne,
famiglie, ragazzi, adolescenti, giovani, adulti e anziani, con le loro
fragilità e con le loro potenzialità in ordine alla vita in Cristo e a
quella fraternità, in lui, che ci fa Chiesa. Rileggiamo quanto i
contributi delle diocesi in vista del Convegno hanno espresso in merito,
chiedendo una nuova coscienza vocazionale: "Nella sinfonia dei doni
e dei carismi di cui la comunità cristiana è ricca, si potranno
riconoscere le plurali e diversificate figure vocazionali. Ogni stato di
vita assume una connotazione vocazionale specifica e singolare: la vita
consacrata, il sacerdozio ministeriale, la famiglia, i laici e - in modo
proprio - le associazioni e i movimenti di ispirazione cristiana. Si
tratta, insomma, di scoprire dimensioni nuove delle stesse vocazioni,
perché in ogni situazione della vita vissuta si dia la testimonianza
cristiana e la fede sia incarnata, specie nei luoghi, nei tempi e nelle
condizioni in cui è evasa e la si vuole zittire o mettere da
parte" (n. 22).
Da qui deriva il
compito specifico e fondamentale dei consacrati: "I consacrati
sono fortemente interpellati: compito specifico della forma di vita
secondo i consigli evangelici è proprio l’affermare il primato di
Dio, rivelatoci in Gesù Cristo. Di questo i consacrati sono
testimonianza, innanzitutto con la propria scelta di vita. Essi, in
forza della vocazione specifica, testimoniano la verità di Dio che si
offre alla libertà dell’uomo come fonte per ciascuno di vita
autentica e rinnovata" (n. 22).
Da più parti durante
il Convegno è venuta la sollecitazione ad operare maggiormente in rete
per una più efficace testimonianza della novità cristiana. Ciò
riguarda le aggregazioni e i movimenti ecclesiali, le parrocchie e le
comunità cristiane, comprese le comunità di vita consacrata. La crisi
vocazionale, che affligge un po’ tutti gli Istituti di vita
consacrata, forse è una spinta a recuperare meglio un’esigenza
intrinseca dell’essere tutti insieme, come Chiesa, "comunità
della testimonianza".
La
speranza e il contesto storico
della vita consacrata italiana
Il diminuire delle
forze e dei numeri, assieme a tante sofferenze e purificazioni, è
occasione non solo per un esercizio della speranza che si fonda nel
Risorto, ma anche per vivere con speranza, come ha ricordato il
card. Tettamanzi nella sua Prolusione al Convegno. L’amore che noi
doniamo sullo stile della vita di Gesù è già ricchezza nostra, noi
consacrati la esperimentiamo. Nel Crocifisso risorto noi sappiamo che l’amore
donato, anche quando sembra non portare a nulla, non è mai inutile.
Come Gesù nell’Ultima
Cena ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce,
trasformandola così nel dono di sé, che ci dà la vita, ci libera e ci
salva, anche noi siamo chiamati a trasformare la nostra vita nel dono di
noi stessi, accettando per amore le condizioni che ci sono date da
vivere: questa è la strada che Dio ha scelto per noi. Sarà per il bene
nostro e dell’umanità se continuiamo a vivere con speranza il libero
dono di noi stessi.
Come "pellegrini e
stranieri" (1Pt 2,11) dobbiamo avere la mente lucida e il cuore
libero per dare un originale contributo alla costruzione della città e
del mondo attuale. Siamo chiamati a mostrare al mondo il potere
trasformante della "speranza viva" (1Pt 1,3) che lo Spirito
del Risorto ci dona per la vita presente nel mondo. In una parola, si
tratta di mostrare che guardare la terra dal cielo e guardare il cielo
dalla terra ci dà la giusta dimensione della vita personale, delle
comunità e delle nazioni e, nello stesso tempo, la libertà di donarci
nell’amore, perché il mondo abbia la vita e l’abbia in abbondanza (cf
Gv 10,10).
Don Carlo Bresciani
Seminario diocesano
Via D. Bollani, 20 – 25123 Brescia
1.
È stato il quarto convegno della Chiesa italiana, dopo quello di Roma
del 1976, di Loreto del 1985 e di Palermo del 1995. I precedenti
convegni sono stati tre tappe importanti della ricezione del messaggio
di rinnovamento venuto dal Concilio. Il primo Convegno ebbe per tema
Evangelizzazione e promozione umana (Roma 1976); il secondo trattò
di Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini (Loreto 1985); il
terzo mise a tema Il Vangelo della carità per una nuova società in
Italia (Palermo 1995).
I tre Convegni già
celebrati hanno fatto da contrappunto al programma pastorale della
Chiesa italiana di questi 30 anni su evangelizzazione, fede e carità,
segnato dagli Orientamenti pastorali dalla Conferenza Episcopale
Italiana alle Chiese diocesane: Evangelizzazione e sacramenti (anni ’70);
Comunione e comunità (anni ’80); Evangelizzazione e testimonianza
della carità (anni ’90); Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia
(il decennio 2000-2010).
Ogni decennio ha visto,
a metà circa del suo percorso, la celebrazione di un proprio convegno
ecclesiale. Mancava all’appello il tema della "speranza",
che è stato al centro dell’interesse del Convegno di Verona del 2006.
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