n. 2
febbraio 2007

 

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I VOLTI DEI TESTIMONI
NELLA DEUS CARITAS EST


di Antonietta Augruso

 

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Uomini e donne d’ogni angolo della terra sperano che dopo un giorno di oscurità ci sia una mattinata azzurra, e che duri il più a lungo possibile. Dio non disprezza l’attesa di nessuno, credenti e non credenti, santi e peccatori. Tutti, in forme diverse e nelle svariate circostanze della vita, cercano segni di albe nuove, si attendono venditori di speranza, infermieri del dolore profondo dell’anima, spacciatori di senso, di giustizia di libertà. «Nelle viscere del pianeta terra, ora gaudente, ora dolente, preme un radicale bisogno d’incontro con l’alterità, di senso, di divino liberato dai surrogati e dalle idolatrie. Ecco perchè i testimoni diventano cruciali».1

Senso cristiano della testimonianza

Non è facile cogliere il senso profondo di quella espressione che comunemente viene chiamata testimonianza: si tratta di un’esperienza che è difficile racchiudere in una formula, perché ci parla dell’intimo mistero della persona. «La testimonianza appartiene al mistero della libertà. Poiché è umana, indubbiamente questa libertà è fragile e sempre minacciata. Solo Dio può dare alla sua parola una garanzia assoluta a causa della sua identità eterna ed assoluta con se stesso. L’esperienza umana, di fatto, dimostra la molteplicità degli errori involontari anche negli esseri più autentici. E tuttavia nonostante questi rischi, la testimonianza appartiene alla grandezza e alla dignità dell’uomo. Essa lo rende partecipe dell’autonomia e della libertà stessa di Dio».2 Chi riflette sulla testimonianza, non rimuovendo la storia di ogni giorno (storia di popoli oppressi e storie di vuote opulenze), dovrebbe avere la coscienza di alcuni rischi.

 Ora che molti fantasmi e minacce reali si aggirano intorno a noi (secolarizzazione, fondamentalismi vari, pericoli di divisioni ulteriori nella Chiesa), forse un rischio ricorrente è quello della semplificazione superficiale di realtà profonde e complesse come questa. Basta dare un’occhiata ai giornali o fare un po’ di attenzione ad alcuni programmi dei media: la testimonianza cristiana sembra ridursi alla somma di piccole o grandi azioni virtuose a beneficio di qualcuno o di qualche cosa.

Più volte stars e personaggi di moda si presentano con un calendario di beneficenza per i poveri di qualche zona della terra! Tutte iniziative di un certo rilievo (anche pubblicitario s’intende), esperienze commoventi, che però adombrano nella mente della gente storie e concetti di ben diversa portata. La migliore riconoscenza alle cose belle viene data quando le si chiamano col loro nome; non si può definire allo stesso modo un gesto di filantropia e la scelta di chi decide di dare la vita per i propri amici (cf Gv 15,13), cosa questa che è tipica di chi desidera testimoniare il radicamento nel mistero pasquale, l’assimilazione a Cristo.

Il termine testimonianza è strettamente correlato al termine martirio, si può parlare di una certa equivalenza linguistica tra i due. In realtà la parola greca martyria significa proprio «dare testimonianza». In ambito teologico il martirio viene considerato la forma più alta di testimonianza; anche se lo stesso termine màrtys, testimone, ha avuto un suo sviluppo. Inizialmente infatti non indicava la testimonianza nell’effusione del sangue, anche se presto i cristiani subirono persecuzioni violente al pari di Cristo (cf Atti degli Apostoli). Proprio a causa dell’interpretazione semantica del termine nel tempo sono sorti problemi d’interpretazione. È perciò necessario considerare i riferimenti di base a proposito dell’uso del termine: da una parte la centralità della fede e la relativa confessione, ma anche la non violenza, la speranza e la fortezza dei deboli, dall’altra la spiritualità e la sequela di Cristo, fino all’immedesimazione in lui.3

Oltre alle precisazioni di carattere semantico, quando si fa riferimento al martirio-testimonianza bisogna riflettere sulle realtà teologiche riconducibili alle virtù teologali (la vita nella fede, speranza, carità). Perciò il martire (testimone) non è unicamente chi, a causa dell’odium fidei, ha subito la morte violenta, ma anche (o soprattutto?) chi si è disposto alla radicalità evangelica, che richiede di porre fisso lo sguardo su Gesù e di convincersi che non si possono servire insieme Dio e mammona (cf Lc 16,13).

In questa prospettiva risulta chiaro e di grande interesse il testo di Lumen gentium 42, dove si sottolinea come da una parte il martirio sia la massima testimonianza di carità cristiana in cui il discepolo è reso simile al Maestro, e dall’altra però non si parla in modo esplicito né di professione di fede, né di odium fidei, (certamente si suppongono), ma si preferisce parlare di martirio come segno d’amore che si apre fino a divenire totale donazione di sé.

Partendo da quest’orizzonte interpretativo si comprende perché la teologia recente, anche usando dei testi del Magistero, abbia messo in luce la centralità dell’amore, l’assimilazione totale a Cristo che rende segni credibili.4 Nei nostri tempi non sono mancati i martiri e Giovanni Paolo II ha molto insistito su una ricognizione in campo ecumenico: una sfida di comunione universale, perché in realtà l’invito a dare la vita per i fratelli è ciò che rende seria e luminosa la vita cristiana.

L’esercizio della testimonianza

«Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» (Gn 6,6). Cos’è il pentimento di Dio di cui parla la Genesi? Visto che, quasi subito dopo, si dice: «Non maledirò più il suolo e non colpirò più il vivente come ho fatto» (Gn 8,21). La tradizione rabbinica, commentando questo brano, raffigura Dio che si alza dal trono della giustizia e siede su quello della misericordia. Questo passare dall’uno all’altro trono, questo cambiare proposito, è la misericordia, l’inaudita capacità di Dio (se così si può dire), del Dio biblico, di cambiarsi in meglio, sempre a favore dell’uomo.5

Leggendo con attenzione l’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI, sembra chiaro che non è intenzione del pontefice di individuare o indicare una categoria tipo di persone da imitare in modo pedissequo come gli unici e veri testimoni del Vangelo. Nella Deus caritas est non c’è un capitolo specifico sul tema, ma viene indicato che «l’incontro con le manifestazioni visibili dell’amore di Dio è un processo che rimane continuamente in cammino. L’amore non è mai concluso e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso» (DC 17).

Non è di secondaria importanza che per la prima volta un documento pontificio affronti la questione dell’amore in recto, cioè in forma diretta ed esplicita.6 I toni si fanno chiari e insistenti, persino nella prima parte, dove la preoccupazione del Papa sembra più di ordine teorico. Quando si mette in luce la necessità di un risvolto nella prassi, partendo dalla parabola del buon Samaritano (l’amore qui ed ora), si sottolinea quanto sia vitale la dimensione della prossimità universale. Non un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma l’impegno pratico (cf DC 15). Si tratteggia una fisionomia della testimonianza: è la specificità del vissuto di ogni credente e non un accessorio che abbellisce e completa il look, e di cui si può fare anche a meno.

Quest’idea viene ribadita anche a proposito delle strutture caritative ecclesiali, caratterizzate, secondo Benedetto XVI, da un binomio inscindibile: la trasparenza dell’operare e la fedeltà al dovere di testimoniare l’amore (cf DC 30). Sono sottolineature nelle quali s’intuisce che il Papa propone ai credenti un concetto di testimonianza ereditato dal Concilio Vaticano II, profondamente innovativo rispetto al Vaticano I. «Laddove il Vaticano I proponeva la Chiesa come segno rivolto alle nazioni, il Vaticano II personalizza e interiorizza il segno della Chiesa e parla piuttosto della testimonianza dei cristiani. Agli occhi del Concilio Vaticano II testimoniare significa accreditare il Vangelo, con verità e salvezza dell’uomo, con una vita ad esso conforme. Questa testimonianza deve avere una forma individuale e comunitaria contemporaneamente».7

Benedetto XVI torna spesso su questo duplice aspetto della testimonianza cristiana. Il modello rimane il buon Samaritano, per le singole persone e per le grandi associazioni. Si testimonia la carità quando si fa attenzione alle necessità immediate, la fame e la nudità, dove l’uomo è svuotato della sua dignità. Si esercita la carità quando si vede col cuore e non ci si ritrae ma si ci attiva con prontezza, con competenza (ma le competenze da sole non bastano dice il Papa) e soprattutto con un forte desiderio di rendere il mondo più umano. È una dinamica di scambio: la testimonianza comunitaria sostiene e integra l’operosità del singolo. «Ovviamente - sostiene Benedetto XVI - alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando l’attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili» (DC 31).

Così lo slancio carismatico del singolo trova forza e radicamento nell’azione comunitaria che razionalizza, previene e mette le risorse umane al servizio degli ultimi con gratuità e buon senso (sa quando parlare e sa quando tacere: DC 31). Tra le righe, si scorge nell’enciclica, quasi un identikit del testimone credibile: un uomo o una donna che, attraverso l’attenzione, la cura, la dedizione gratuita all’altro, ha acquisito una sorta di sapienza spirituale, non ignora le ferite cosmiche e perciò non fa più distinzione tra offendere Dio e offendere l’uomo, si distingue dai suoi tratti discreti e dalla consapevole accettazione del limite (cf Lc 17,10).

In questo contesto ci sono passaggi suggestivi, affermazioni forti in grado di interrogare gli uomini e le donne d’oggi apparentemente presi solo dal trend, dalle apparenze, eccessivamente attratti dalle kermesses di ogni genere. L’enciclica invita a fare delle distinzioni importanti sulle modalità di esprimere la vita teologale: la pazienza nell’oscurità, la rinuncia ai propri deliri d’onnipotenza (umiltà), la convinzione fiduciosa che Dio accompagna fedelmente le storie umane. Un invito ad avere uno stile di vita che attesta la presenza di Dio nel mondo.

Gli uomini e le donne della danza e del fuoco 

La Deus caritas est invita ciascun credente, senza distinzioni di appartenenza, a riflettere sull’autenticità della propria esistenza, sull’urgenza che i testimoni silenziosi dell’amore di Cristo non vengano identificati con i testimonial vestiti da animatori nelle grandi manifestazioni di piazza. D’altra parte siamo consapevoli che, nel momento storico attuale sia sempre più urgente che il Vangelo appaia all’opera come valore di attrazione più che con proclami roboanti o peggio ancora come un selenium che metta a tacere le inquietudini e le sfide quotidiane. «C’è ormai un’inflazione delle cosiddette testimonianze - sostiene E. Bianchi - si enfatizza la presenza di uomini e donne carismatici, li si esibisce invitandoli a parlare di sé, della loro storia, degli aspetti eclatanti delle loro vicende e questo a scapito della riflessione, dell’attenzione al feriale della vita cristiana, trascurando la laboriosa fatica della ragionevolezza della fede».8

Non si tratta di uno stile improvvisato, ma di un percorso, a volte faticoso, che non mette in gioco solo noi stessi. Benedetto XVI fa riferimento esplicito alla preghiera e alla sua importanza, come legame intimo e contatto con Cristo, una fonte a cui attingere sulla strada e nei deserti esistenziali. Ne consegue che il testimone della carità cristiana è colui che riconosce di dover andare oltre, di non puntare unicamente sull’efficacia del proprio agire, e si stringe alla pietas creando un legame intimo con Dio, sorgente di ogni gesto d’amore. Così come faceva - ricorda Benedetto XVI - la beata madre Teresa di Calcutta, che nella sua silenziosa opera d’attenzione universale ai drop-out della storia, ha sempre insistito sulla centralità della preghiera. Esperienza d’incontro con il Signore eucaristico per aprire gli orizzonti verso una caritas-agape che travalica le frontiere della Chiesa (cf DC 25).

La Deus caritas est ricorda che l’uomo è ad immagine di Dio e pur rimanendo segnato dalle sue fragilità conserva il desiderio di dire che l’amore è possibile e si può praticare: un invito implicito, a non andare dietro ai testimoni di sventura che insistono (anche nell’ambito ecclesiale) sull’esilio della speranza, bollando l’uomo unicamente come fautore di opere per la Geenna. L’uomo può ancora amare gratuitamente. In questa direzione le affermazioni del Papa sono lo stimolo per aprire orizzonti nuovi. L’amore è reso visibile (dunque testimoniato) soprattutto quando non se ne fa un uso strumentale, nemmeno in funzione dello zelo di fare proseliti: solo nella sua gratuità l’amore è la migliore testimonianza di Cristo (DC 31).

Lo aveva affermato con molto coraggio anche don Tonino Bello, proprio commentando la parabola del buon Samaritano: «Dobbiamo liberarci dall’equivoco che la carità sia frutto del nostro buon cuore, della nostra bontà; elaborazione delle nostre virtù, merito da vantare davanti a Dio. La carità non è qualcosa per cui Dio debba ringraziarci, ma un qualcosa per cui noi dobbiamo ringraziare Dio. Bisogna evitare il pelagianesimo della carità».9

Siamo in tempi di proclami apodittici, di conflitti in atto e di altri annunciati. Quello che più stupisce è che tutto sommato molti rimangono convinti che la propria realtà, la cultura, le idee, la religione rimangono sempre un gradino più in su di quelle degli altri. L’enciclica sulla carità ci ricorda che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, e che la migliore difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore: questa è la strada per diventare testimoni credibili di Cristo. E se il programma è quello del buon Samaritano (Benedetto XVI lo sottolinea più volte), allora viene da pensare che la staticità sterile del conservatore non appartiene al testimone autentico. Rileggendo la parabola ci si accorge che i verbi principali indicano soprattutto attenzione dinamica, lucidità e premura nell’andare incontro agli altri. Bisogna, come il Samaritano, cercare di arrivare al momento giusto, attivare meccanismi di conoscenza delle situazioni umane (come non ricordare Giorgio La Pira o Bruno Hussar), questo non significa necessariamente fare solo dell’orizzontalismo.

Testimoni forse non si nasce e nemmeno ci si improvvisa, occorre chiarirsi le idee e mettersi in discussione alla luce della Parola di Dio. Se abbiamo preso sul serio il mistero dell’incarnazione non possiamo esimerci dall’obbligo del discernimento: è una sana abitudine ben radicata nella tradizione, anche se quest’aspetto non sembra sviluppato a lungo nell’enciclica. Un’identificazione dei sentieri da percorrere nella testimonianza del Vangelo implica un’analisi seria delle trasformazioni culturali. «La testimonianza cristiana - sostiene il documento di preparazione al convegno di Verona - si fa carico dell’indispensabile mediazione storica della coscienza credente […]. L’attenzione dialogica e critica ai mutamenti culturali e antropologici appare oggi un’esigenza irrinunciabile della fede cristiana, della vitalità delle comunità ecclesiali, dello stesso amore cristiano».10

Abbiamo bisogno di testimoni che siano uomini e donne del fuoco, disposti a vedere oltre e a cogliere il potere dei segni, uomini e donne della grande danza, che aiutino la comunità ad esercitare l’arte dell’ascolto: quella propensione ad accogliere l’alterità senza cercare con ostinazione solo qualcosa che le assomigli. Il sogno della pace e della convivenza delle differenze ha bisogno di uomini e donne silenziosi che si adoperino nella quotidianità a creare le condizioni in cui l’aggressività non sia l’abituale e l’unico modo di relazionarsi con il diverso (ci sarà tra i futuri beati Annalena Tonelli?).

I giornali e i notiziari ci parlano di una fatica enorme per trovare vie d’uscita a queste urgenze della storia, strade dove l’intelligenza, la ragione, la fatica del pensare e il piacere di indagare, non possono mai essere snobbati, considerati vezzi intellettualoidi, superflui per la fede.11

Conclusione

Al termine della lettura di un testo (saggio, romanzo o poesia) la situazione ideale è la sospensione di giudizio e il silenzio per interiorizzare, cogliere il senso, comprendere. È chiaro che questo vale anche per l’enciclica del Papa. Così come altri testi anche un’enciclica segue delle regole redazionali e non può dire tutto, specie se si tratta di temi così profondi come quello della carità vissuta e testimoniata. Una considerazione però può essere fatta subito: dopo la lettura della Deus caritas est il lettore sente forte l’invito a coltivare la speranza. Nella profondità della coscienza si sente l’appello a non diventare facile preda dell’indifferenza verso il male e ogni disagio umano. È vero, lo scenario cosmico è quasi come un video dove sembra scorrere solo ingiustizia, dolore, conflitti incomprensibili.

La storia però è popolata anche da uomini e donne della grande danza, del riso, del fuoco, capaci di riconoscere negli ultimi «gli ambasciatori di Dio» (Dorothy Day) e di servirli con fedeltà. Uomini e donne al servizio della persona in tutti gli ambiti del sociale: nella scuola, nelle associazioni, nella vita religiosa. Alcuni di loro sono già riconosciuti dalla Chiesa come modelli con cui misurarsi, altri forse esclusi per sempre dall’elenco dei virtuosi. Uomini e donne che hanno tracciato un sentiero. «Portatori di luce nella storia», li definisce il Papa (DC 40).

Una strada che attende di essere popolata: è il sentiero dei testimoni, che naturalmente è anche il sentiero dei maestri, intellettuali o spirituali che siano, analfabeti o colti, contemplativi o immersi nel fango della storia. Sono coloro che misteriosamente e nella libertà sono rimasti davanti al paradosso, alla follia, alla debolezza della croce. Naturalmente della croce fiorita, della croce dipinta con i colori dell’arcobaleno, irradiata dall’aurora della Risurrezione.12

Antonietta Augruso
Via Eurialo, 91/16A – 00181 Roma
e-mail: antogruso@libero.it 


1. P. Giuntella, Il fiore rosso. I testimoni, futuro del cristianesimo, Milano 2006, 12.

2. R. Latourelle, «Testimonianza», in Dizionario di Teologia Fondamentale (=DTF), Assisi 1990, 1321.

3. G. Mazzillo, «Martirio», in Teologia, Dizionari San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2002, 954.

4. Cf  Fisichella, «Martirio», in DTF, 678.

5. Cf  P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Edizioni Qiqajon, Magnano 1992, 90.

6. Cf  Benedetto XVI, Deus Caritas est. Introduzione e Commento di Angelo Scoda, Cantagalli, Siena 2006, 6.

7. R. Latourelle, «Testimonianza», in DTF, 1321.

8. E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006, 83.

9. A. Bello,  Con viscere di misericordia, Terlizzi 2001, 10.

10. Comitato preparatorio del IV Convegno Ecclesiale nazionale, Testimoni di Gesù risorto speranza del  mondo, Dehoniane, Bologna 2005, n. 14, 31.

11. Cf. P. Giuntella, Il filo rosso, 9.

12. Cf. P. Giuntella, Il filo rosso, 10.

 

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