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Uomini
e donne d’ogni angolo della terra sperano che dopo un giorno di oscurità
ci sia una mattinata azzurra, e che duri il più a lungo possibile. Dio
non disprezza l’attesa di nessuno, credenti e non credenti, santi e
peccatori. Tutti, in forme diverse e nelle svariate circostanze della
vita, cercano segni di albe nuove, si attendono venditori di speranza,
infermieri del dolore profondo dell’anima, spacciatori di senso, di
giustizia di libertà. «Nelle viscere del pianeta terra, ora gaudente,
ora dolente, preme un radicale bisogno d’incontro con l’alterità, di
senso, di divino liberato dai surrogati e dalle idolatrie. Ecco perchè i
testimoni diventano cruciali».1
Senso cristiano della
testimonianza
Non è facile cogliere il senso
profondo di quella espressione che comunemente viene chiamata
testimonianza: si tratta di un’esperienza che è difficile
racchiudere in una formula, perché ci parla dell’intimo mistero della
persona. «La testimonianza appartiene al mistero della libertà. Poiché è
umana, indubbiamente questa libertà è fragile e sempre minacciata. Solo
Dio può dare alla sua parola una garanzia assoluta a causa della sua
identità eterna ed assoluta con se stesso. L’esperienza umana, di fatto,
dimostra la molteplicità degli errori involontari anche negli esseri più
autentici. E tuttavia nonostante questi rischi, la testimonianza
appartiene alla grandezza e alla dignità dell’uomo. Essa lo rende
partecipe dell’autonomia e della libertà stessa di Dio».2
Chi riflette sulla testimonianza, non rimuovendo la storia di ogni
giorno (storia di popoli oppressi e storie di vuote opulenze), dovrebbe
avere la coscienza di alcuni rischi.
Ora che molti fantasmi e minacce
reali si aggirano intorno a noi (secolarizzazione, fondamentalismi vari,
pericoli di divisioni ulteriori nella Chiesa), forse un rischio
ricorrente è quello della semplificazione superficiale di realtà
profonde e complesse come questa. Basta dare un’occhiata ai giornali o
fare un po’ di attenzione ad alcuni programmi dei media: la
testimonianza cristiana sembra ridursi alla somma di piccole o grandi
azioni virtuose a beneficio di qualcuno o di qualche cosa.
Più volte stars e personaggi
di moda si presentano con un calendario di beneficenza per i poveri di
qualche zona della terra! Tutte iniziative di un certo rilievo (anche
pubblicitario s’intende), esperienze commoventi, che però adombrano
nella mente della gente storie e concetti di ben diversa portata. La
migliore riconoscenza alle cose belle viene data quando le si chiamano
col loro nome; non si può definire allo stesso modo un gesto di
filantropia e la scelta di chi decide di dare la vita per i propri amici
(cf Gv 15,13), cosa questa che è tipica di chi desidera testimoniare il
radicamento nel mistero pasquale, l’assimilazione a Cristo.
Il termine testimonianza è
strettamente correlato al termine martirio, si può parlare di una
certa equivalenza linguistica tra i due. In realtà la parola greca
martyria significa proprio «dare testimonianza». In ambito teologico
il martirio viene considerato la forma più alta di testimonianza; anche
se lo stesso termine màrtys, testimone, ha avuto un suo sviluppo.
Inizialmente infatti non indicava la testimonianza nell’effusione del
sangue, anche se presto i cristiani subirono persecuzioni violente al
pari di Cristo (cf Atti degli Apostoli). Proprio a causa
dell’interpretazione semantica del termine nel tempo sono sorti problemi
d’interpretazione. È perciò necessario considerare i riferimenti di base
a proposito dell’uso del termine: da una parte la centralità della fede
e la relativa confessione, ma anche la non violenza, la speranza e la
fortezza dei deboli, dall’altra la spiritualità e la sequela di Cristo,
fino all’immedesimazione in lui.3
Oltre alle precisazioni di carattere
semantico, quando si fa riferimento al martirio-testimonianza bisogna
riflettere sulle realtà teologiche riconducibili alle virtù teologali
(la vita nella fede, speranza, carità). Perciò il martire (testimone)
non è unicamente chi, a causa dell’odium fidei, ha subito la
morte violenta, ma anche (o soprattutto?) chi si è disposto alla
radicalità evangelica, che richiede di porre fisso lo sguardo su Gesù e
di convincersi che non si possono servire insieme Dio e mammona (cf Lc
16,13).
In questa prospettiva risulta chiaro
e di grande interesse il testo di Lumen gentium 42, dove si
sottolinea come da una parte il martirio sia la massima testimonianza di
carità cristiana in cui il discepolo è reso simile al Maestro, e
dall’altra però non si parla in modo esplicito né di professione di
fede, né di odium fidei, (certamente si suppongono), ma si
preferisce parlare di martirio come segno d’amore che si apre
fino a divenire totale donazione di sé.
Partendo da quest’orizzonte
interpretativo si comprende perché la teologia recente, anche usando dei
testi del Magistero, abbia messo in luce la centralità dell’amore,
l’assimilazione totale a Cristo che rende segni credibili.4
Nei nostri tempi non sono mancati i martiri e Giovanni Paolo II ha molto
insistito su una ricognizione in campo ecumenico: una sfida di comunione
universale, perché in realtà l’invito a dare la vita per i fratelli è
ciò che rende seria e luminosa la vita cristiana.
L’esercizio della
testimonianza
«Il Signore si pentì di aver fatto
l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» (Gn 6,6). Cos’è il
pentimento di Dio di cui parla la Genesi? Visto che, quasi subito dopo,
si dice: «Non maledirò più il suolo e non colpirò più il vivente come ho
fatto» (Gn 8,21). La tradizione rabbinica, commentando questo brano,
raffigura Dio che si alza dal trono della giustizia e siede su quello
della misericordia. Questo passare dall’uno all’altro trono, questo
cambiare proposito, è la misericordia, l’inaudita capacità di Dio (se
così si può dire), del Dio biblico, di cambiarsi in meglio, sempre a
favore dell’uomo.5
Leggendo con attenzione l’enciclica
Deus caritas est di Benedetto XVI, sembra chiaro che non è
intenzione del pontefice di individuare o indicare una categoria tipo
di persone da imitare in modo pedissequo come gli unici e veri testimoni
del Vangelo. Nella Deus caritas est non c’è un capitolo specifico
sul tema, ma viene indicato che «l’incontro con le manifestazioni
visibili dell’amore di Dio è un processo che rimane continuamente in
cammino. L’amore non è mai concluso e completato; si trasforma nel corso
della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso» (DC
17).
Non è di secondaria importanza che
per la prima volta un documento pontificio affronti la questione
dell’amore in recto, cioè in forma diretta ed esplicita.6
I toni si fanno chiari e insistenti, persino nella prima parte, dove la
preoccupazione del Papa sembra più di ordine teorico. Quando si mette in
luce la necessità di un risvolto nella prassi, partendo dalla parabola
del buon Samaritano (l’amore qui ed ora), si sottolinea quanto sia
vitale la dimensione della prossimità universale. Non un amore generico
ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma l’impegno pratico (cf DC
15). Si tratteggia una fisionomia della testimonianza: è la specificità
del vissuto di ogni credente e non un accessorio che abbellisce e
completa il look, e di cui si può fare anche a meno.
Quest’idea viene ribadita anche a
proposito delle strutture caritative ecclesiali, caratterizzate, secondo
Benedetto XVI, da un binomio inscindibile: la trasparenza dell’operare e
la fedeltà al dovere di testimoniare l’amore (cf DC 30). Sono
sottolineature nelle quali s’intuisce che il Papa propone ai credenti un
concetto di testimonianza ereditato dal Concilio Vaticano II,
profondamente innovativo rispetto al Vaticano I. «Laddove il Vaticano I
proponeva la Chiesa come segno rivolto alle nazioni, il Vaticano II
personalizza e interiorizza il segno della Chiesa e parla piuttosto
della testimonianza dei cristiani. Agli occhi del Concilio Vaticano II
testimoniare significa accreditare il Vangelo, con verità e salvezza
dell’uomo, con una vita ad esso conforme. Questa testimonianza deve
avere una forma individuale e comunitaria contemporaneamente».7
Benedetto XVI torna spesso su questo
duplice aspetto della testimonianza cristiana. Il modello rimane il buon
Samaritano, per le singole persone e per le grandi associazioni. Si
testimonia la carità quando si fa attenzione alle necessità immediate,
la fame e la nudità, dove l’uomo è svuotato della sua dignità. Si
esercita la carità quando si vede col cuore e non ci si ritrae ma
si ci attiva con prontezza, con competenza (ma le competenze da sole non
bastano dice il Papa) e soprattutto con un forte desiderio di rendere il
mondo più umano. È una dinamica di scambio: la testimonianza comunitaria
sostiene e integra l’operosità del singolo. «Ovviamente - sostiene
Benedetto XVI - alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando
l’attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa
comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione
con altre istituzioni simili» (DC 31).
Così lo slancio carismatico del
singolo trova forza e radicamento nell’azione comunitaria che
razionalizza, previene e mette le risorse umane al servizio degli ultimi
con gratuità e buon senso (sa quando parlare e sa quando tacere: DC 31).
Tra le righe, si scorge nell’enciclica, quasi un identikit del
testimone credibile: un uomo o una donna che, attraverso l’attenzione,
la cura, la dedizione gratuita all’altro, ha acquisito una sorta di
sapienza spirituale, non ignora le ferite cosmiche e perciò non fa più
distinzione tra offendere Dio e offendere l’uomo, si distingue dai suoi
tratti discreti e dalla consapevole accettazione del limite (cf Lc
17,10).
In questo contesto ci sono passaggi
suggestivi, affermazioni forti in grado di interrogare gli uomini e le
donne d’oggi apparentemente presi solo dal trend, dalle
apparenze, eccessivamente attratti dalle kermesses di ogni genere.
L’enciclica invita a fare delle distinzioni importanti sulle modalità di
esprimere la vita teologale: la pazienza nell’oscurità, la rinuncia ai
propri deliri d’onnipotenza (umiltà), la convinzione fiduciosa che Dio
accompagna fedelmente le storie umane. Un invito ad avere uno stile di
vita che attesta la presenza di Dio nel mondo.
Gli uomini e le donne
della danza e del fuoco
La Deus caritas est invita
ciascun credente, senza distinzioni di appartenenza, a riflettere
sull’autenticità della propria esistenza, sull’urgenza che i testimoni
silenziosi dell’amore di Cristo non vengano identificati con i
testimonial vestiti da animatori nelle grandi manifestazioni di
piazza. D’altra parte siamo consapevoli che, nel momento storico attuale
sia sempre più urgente che il Vangelo appaia all’opera come valore di
attrazione più che con proclami roboanti o peggio ancora come un
selenium che metta a tacere le inquietudini e le sfide quotidiane.
«C’è ormai un’inflazione delle cosiddette testimonianze - sostiene E.
Bianchi - si enfatizza la presenza di uomini e donne carismatici, li si
esibisce invitandoli a parlare di sé, della loro storia, degli aspetti
eclatanti delle loro vicende e questo a scapito della riflessione,
dell’attenzione al feriale della vita cristiana, trascurando la
laboriosa fatica della ragionevolezza della fede».8
Non si tratta di uno stile
improvvisato, ma di un percorso, a volte faticoso, che non mette in
gioco solo noi stessi. Benedetto XVI fa riferimento esplicito alla
preghiera e alla sua importanza, come legame intimo e contatto
con Cristo, una fonte a cui attingere sulla strada e nei deserti
esistenziali. Ne consegue che il testimone della carità cristiana è
colui che riconosce di dover andare oltre, di non puntare unicamente
sull’efficacia del proprio agire, e si stringe alla pietas
creando un legame intimo con Dio, sorgente di ogni gesto d’amore. Così
come faceva - ricorda Benedetto XVI - la beata madre Teresa di Calcutta,
che nella sua silenziosa opera d’attenzione universale ai drop-out
della storia, ha sempre insistito sulla centralità della preghiera.
Esperienza d’incontro con il Signore eucaristico per aprire gli
orizzonti verso una caritas-agape che travalica le frontiere
della Chiesa (cf DC 25).
La Deus caritas est ricorda
che l’uomo è ad immagine di Dio e pur rimanendo segnato dalle sue
fragilità conserva il desiderio di dire che l’amore è possibile e si può
praticare: un invito implicito, a non andare dietro ai testimoni di
sventura che insistono (anche nell’ambito ecclesiale) sull’esilio della
speranza, bollando l’uomo unicamente come fautore di opere per la
Geenna. L’uomo può ancora amare gratuitamente. In questa direzione le
affermazioni del Papa sono lo stimolo per aprire orizzonti nuovi.
L’amore è reso visibile (dunque testimoniato) soprattutto quando non se
ne fa un uso strumentale, nemmeno in funzione dello zelo di fare
proseliti: solo nella sua gratuità l’amore è la migliore testimonianza
di Cristo (DC 31).
Lo aveva affermato con molto coraggio
anche don Tonino Bello, proprio commentando la parabola del buon
Samaritano: «Dobbiamo liberarci dall’equivoco che la carità sia frutto
del nostro buon cuore, della nostra bontà; elaborazione delle nostre
virtù, merito da vantare davanti a Dio. La carità non è qualcosa per cui
Dio debba ringraziarci, ma un qualcosa per cui noi dobbiamo ringraziare
Dio. Bisogna evitare il pelagianesimo della carità».9
Siamo in tempi di proclami
apodittici, di conflitti in atto e di altri annunciati. Quello che più
stupisce è che tutto sommato molti rimangono convinti che la propria
realtà, la cultura, le idee, la religione rimangono sempre un gradino
più in su di quelle degli altri. L’enciclica sulla carità ci ricorda che
il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, e che
la migliore difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore:
questa è la strada per diventare testimoni credibili di Cristo. E se il
programma è quello del buon Samaritano (Benedetto XVI lo sottolinea più
volte), allora viene da pensare che la staticità sterile del
conservatore non appartiene al testimone autentico. Rileggendo la
parabola ci si accorge che i verbi principali indicano soprattutto
attenzione dinamica, lucidità e premura nell’andare incontro agli altri.
Bisogna, come il Samaritano, cercare di arrivare al momento giusto,
attivare meccanismi di conoscenza delle situazioni umane (come non
ricordare Giorgio La Pira o Bruno Hussar), questo non significa
necessariamente fare solo dell’orizzontalismo.
Testimoni forse non si nasce e
nemmeno ci si improvvisa, occorre chiarirsi le idee e mettersi in
discussione alla luce della Parola di Dio. Se abbiamo preso sul serio il
mistero dell’incarnazione non possiamo esimerci dall’obbligo del
discernimento: è una sana abitudine ben radicata nella tradizione, anche
se quest’aspetto non sembra sviluppato a lungo nell’enciclica.
Un’identificazione dei sentieri da percorrere nella testimonianza del
Vangelo implica un’analisi seria delle trasformazioni culturali. «La
testimonianza cristiana - sostiene il documento di preparazione al
convegno di Verona - si fa carico dell’indispensabile mediazione storica
della coscienza credente […]. L’attenzione dialogica e critica ai
mutamenti culturali e antropologici appare oggi un’esigenza
irrinunciabile della fede cristiana, della vitalità delle comunità
ecclesiali, dello stesso amore cristiano».10
Abbiamo bisogno di testimoni che
siano uomini e donne del fuoco, disposti a vedere oltre e a
cogliere il potere dei segni, uomini e donne della grande danza,
che aiutino la comunità ad esercitare l’arte dell’ascolto: quella
propensione ad accogliere l’alterità senza cercare con ostinazione solo
qualcosa che le assomigli. Il sogno della pace e della convivenza delle
differenze ha bisogno di uomini e donne silenziosi che si adoperino
nella quotidianità a creare le condizioni in cui l’aggressività non sia
l’abituale e l’unico modo di relazionarsi con il diverso (ci sarà tra i
futuri beati Annalena Tonelli?).
I giornali e i notiziari ci parlano
di una fatica enorme per trovare vie d’uscita a queste urgenze della
storia, strade dove l’intelligenza, la ragione, la fatica del pensare e
il piacere di indagare, non possono mai essere snobbati, considerati
vezzi intellettualoidi, superflui per la fede.11
Conclusione
Al termine della lettura di un testo
(saggio, romanzo o poesia) la situazione ideale è la sospensione di
giudizio e il silenzio per interiorizzare, cogliere il senso,
comprendere. È chiaro che questo vale anche per l’enciclica del Papa.
Così come altri testi anche un’enciclica segue delle regole redazionali
e non può dire tutto, specie se si tratta di temi così profondi come
quello della carità vissuta e testimoniata. Una considerazione però può
essere fatta subito: dopo la lettura della Deus caritas est il
lettore sente forte l’invito a coltivare la speranza. Nella profondità
della coscienza si sente l’appello a non diventare facile preda
dell’indifferenza verso il male e ogni disagio umano. È vero, lo
scenario cosmico è quasi come un video dove sembra scorrere solo
ingiustizia, dolore, conflitti incomprensibili.
La storia però è popolata anche da
uomini e donne della grande danza, del riso, del fuoco, capaci di
riconoscere negli ultimi «gli ambasciatori di Dio» (Dorothy Day) e di
servirli con fedeltà. Uomini e donne al servizio della persona in tutti
gli ambiti del sociale: nella scuola, nelle associazioni, nella vita
religiosa. Alcuni di loro sono già riconosciuti dalla Chiesa come
modelli con cui misurarsi, altri forse esclusi per sempre dall’elenco
dei virtuosi. Uomini e donne che hanno tracciato un sentiero. «Portatori
di luce nella storia», li definisce il Papa (DC 40).
Una strada che attende di essere
popolata: è il sentiero dei testimoni, che naturalmente è anche il
sentiero dei maestri, intellettuali o spirituali che siano, analfabeti o
colti, contemplativi o immersi nel fango della storia. Sono coloro che
misteriosamente e nella libertà sono rimasti davanti al paradosso, alla
follia, alla debolezza della croce. Naturalmente della croce fiorita,
della croce dipinta con i colori dell’arcobaleno, irradiata dall’aurora
della Risurrezione.12
Antonietta
Augruso
Via Eurialo, 91/16A – 00181 Roma
e-mail: antogruso@libero.it
1. P. Giuntella,
Il fiore rosso. I testimoni, futuro del cristianesimo, Milano 2006,
12.
2.
R. Latourelle, «Testimonianza», in Dizionario di Teologia
Fondamentale (=DTF), Assisi 1990, 1321.
3.
G. Mazzillo, «Martirio», in Teologia, Dizionari San
Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2002, 954.
4.
Cf Fisichella, «Martirio», in DTF, 678.
5.
Cf P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Edizioni Qiqajon,
Magnano 1992, 90.
6.
Cf Benedetto XVI, Deus Caritas est. Introduzione e Commento di
Angelo Scoda, Cantagalli, Siena 2006, 6.
7.
R. Latourelle, «Testimonianza», in DTF, 1321.
8.
E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006, 83.
9.
A. Bello, Con viscere di misericordia, Terlizzi 2001, 10.
10.
Comitato preparatorio del IV Convegno Ecclesiale nazionale, Testimoni
di Gesù risorto speranza del mondo, Dehoniane, Bologna 2005, n. 14,
31.
11.
Cf. P. Giuntella, Il filo rosso, 9.
12.
Cf. P. Giuntella, Il filo rosso, 10.
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