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Che cos’è la liturgia
Il
punto di partenza
Quando
san Paolo dice che nella «pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio»
(Gal 4,4) e che in Gesù Cristo si è compiuta «la rivelazione del mistero
taciuto per secoli eterni» (Rm 16,5), ci insegna che ci sono tempi più
preziosi di altri che gettano luce sui restanti. E quando il vangelo di
Giovanni parla del pane e del «vero pane» (cf Gv 6,32), suggerisce che
esistono diversi livelli della realtà. Nella Chiesa antica questo si
sapeva con immediatezza, con la conseguenza che si era in grado di
stabilire delle connessioni, dei nessi tra i tempi, gli eventi storici,
le cose. Se tutto è stato creato per mezzo del Verbo (cf Gv 1,3), la
creazione porta scritta in sé la traccia del Logos: il mondo è un
sacramento di Dio e un grande simbolo cristologico. Il mondo visibile e
la sua storia sono legati al mondo invisibile da un insieme di fili, di
nessi che si esprimono nei simboli. Dio cioè ha riempito la creazione
delle sue tracce, inadeguati ma validi indicatori puntati verso di Lui;
ha dato all’uomo una mente e la facoltà della parola che può apprezzare
questi indicatori, esprimerli e seguirli alla luce del dono della fede.
L’uomo moderno non ha più il gusto di questo genere di conoscenza,
eppure il simbolo è una forma permanente della conoscenza di Dio. Il
simbolo è la manifestazione e una sorta di presenza dell’invisibile nel
visibile. Attraverso ciascuno dei simboli, si rivelano certi aspetti
della realtà di Dio, e tuttavia non si esaurisce tutta la sua ricchezza
e la sua inattingibilità.
Per i Padri,
esisteva un doppio genere di simboli: i simboli della natura e i simboli
della Scrittura. I simboli naturali sono la manifestazione divina
attraverso il mondo sensibile: l’olio, la perla, la luce, il fuoco,
l’albero, il concepimento, la nascita, la paternità e la maternità,
tutto diventa il «vestiario dei nomi» attraverso cui Dio si fa conoscere
agli uomini attraverso immagini tratte dall’ordinaria esperienza umana.
Dio tuttavia si rivela non solo nella natura delle cose, ma anche negli
eventi storici che costituiscono la storia sacra: l’elezione di Abramo,
l’uscita dall’Egitto, l’entrata nella terra promessa, il sacerdozio di
Aronne, la regalità di Davide... Nasce il simbolo biblico: c’è una
corrispondenza tra i diversi momenti della storia sacra. Questa
corrispondenza è stata indicata dai Padri con il nome di tipologia,
con riferimento ai due passi del Nuovo Testamento in cui si dice che
Adamo è figura (typos) di Cristo (cf Rm 5,14) e del battesimo che
è antitipo (antitypos) del diluvio (cf 1Pt 3,18). Questa
tipologia ha il suo fondamento nell’unità del piano di Dio e nella
perfetta congiunzione di creazione, Antico e Nuovo Testamento. Natura e
Scrittura sono ordinate all’Incarnazione. Ma cose ed eventi storici non
smettono di rivelare Dio anche dopo l’Incarnazione, che compie tutti i
simboli: continuano ad adempiere il loro ruolo di conoscenza e di
rivelazione nei sacramenti della Chiesa, grazie ai quali la nostra
relazione con Dio non si limita all’ordine della conoscenza, ma
partecipiamo a ciò che ci è rivelato.
I tipi e i simboli
che annunciano le realtà spirituali non sono soppressi con il
realizzarsi della realtà significata, ma sono assunti da essa e ne
formano una parte integrante. La forza simbolica della tipologia è
progressiva: il tempo della Chiesa è il compimento o la realtà in
relazione ai tipi dell’AT, ma la Chiesa stessa è solo il tipo del regno
escatologico. Questa tipologia progressiva suggerisce un cammino. Efrem
il siro lo tratteggia così in uno dei suoi poemi: si tratta del percorso
stabilito da Dio «dall’albero [di vita] alla croce: dal legno al legno e
da Eden a Sion, da Sion alla santa Chiesa e dalla Chiesa al regno» (HCHaer
26,4).
Avere una mentalità
del genere è un buon presupposto per entrare nella liturgia e nel
mistero che essa ci comunica.
Liturgia: celebrazione dell’amore di Dio
Il mistero è al
cuore della liturgia. Che cosa si vuole dire con questo? Tutto è
effusione dell’amore di Dio, un amore che si riversa sulla creazione e
vuole dimorare tra gli uomini. Ma deve essere «accolto dai suoi» (cf Gv
1,11), perché l’amore non si impone. Il dono di Dio è riconosciuto solo
se è accolto. Il desiderio che Dio ha dell’uomo ha bisogno di
incontrarsi con il desiderio che l’uomo ha di Dio. C’è allora il tempo
delle promesse: tutto il tempo prima di Cristo ha il significato
essenziale di una preparazione a Lui. Poi c’è la pienezza del tempo,
quando in Cristo, uomo-Dio, l’umanità è finalmente capace di accogliere
il dono del Padre e di rispondergli, quando in Cristo si realizza in
modo eminente quella sinergia, «co-azione» divino-umana, per cui ogni
carne è compenetrata di Dio.
L’accoglienza del
dono del Padre da parte del Figlio coinvolge anche il corpo della
sua/nostra umanità e l’amore del Padre lo risuscita dai morti. Cristo,
unito al Padre, irradia nel suo corpo la gloria di Dio. Unito alla
sorgente, dona la vita. Pienamente consegnato al Padre fino alla morte,
la sua vita umana, circoscritta nello spazio e nel tempo, entra
nell’eternità. Si squarcia il tempo lineare, cronologico, storico, ed
entriamo in un’altra dimensione dove tutto si tocca, si concentra. Nella
nostra esperienza creata, tempo e spazio sono come tanti punti uno
accanto all’altro, separati da intervalli destinati ad essere riempiti
dall’amore. Finché rimangono fuori dall’amore, nell’egoismo, sono
impenetrabili e fatti di un prima e di un dopo, di un qui e di un lì.
Quando entrano nell’amore, tutto si compenetra, tutto diventa
compresente e anche la materia smette di respingere (Cristo, dopo la
risurrezione, entra a porte chiuse). La risurrezione di Cristo, avvenuta
in un tempo e in uno spazio storico preciso, riversa il suo potere di
salvezza su tutte le epoche della storia e su tutti i luoghi geografici.
È questo uno dei significati della discesa agli inferi di Cristo
risorto: la sua opera di salvezza ha effetto anche «a ritroso», perché
nel tempo del mistero, nel tempo sacro, non c’è più un «prima» e un
«dopo».
La risurrezione è
così la sorgente della liturgia: l’amore che Dio ha riversato sulla sua
creazione può finalmente essere celebrato - cioè, secondo il significato
etimologico della parola, essere «portato a compimento» - perché ritorna
a Lui in accoglienza del dono, comunicazione del dono e riconoscenza per
il dono, in una circolazione di vita e di amore di cui il Padre è la
fonte e allo stesso tempo anche il termine.
Il Nuovo Testamento
non ha praticamente termini cultuali se non riferiti a Cristo, proprio
per indicare che questa è la liturgia. Sacerdozio, offerta, culto,
vittima, sono termini che indicano la morte volontaria di Cristo, con la
quale il Signore Gesù entra una volta per sempre nel santuario celeste (cf
Eb 9,11) alla presenza del Padre.
Asceso alla destra
del Padre, dove ha portato anche la nostra umanità che Lui ha assunto,
Cristo attira questa nostra umanità, che in Lui ormai può rispondere a
Dio lodando il suo Nome, associando in questa attività gli uomini, gli
angeli, gli arcangeli, i cherubini e tutti i viventi. E’ questa la
liturgia eterna.
Se c’è il tempo
delle promesse e la pienezza del tempo, il tempo dopo Cristo,
dall’ascensione al ritorno glorioso del Signore nella parusia, ha il
significato di realizzare negli uomini che nascono nel mondo fino alla
fine dei tempi la partecipazione e l’assimilazione di quelle realtà
divine che sono in Cristo e che Cristo ci comunica attraendoci nel suo
mistero, nella pienezza della vita divina che sovrabbonda in Lui. Il
tempo dall’ascensione alla parusia ha lo scopo cioè di riprodurre nei
singoli il mistero di Cristo, di far entrare in questo mistero, esserne
assorbiti, trasformare e salvare, attraverso la sua reale presenza in
noi.
La celebrazione
della liturgia eterna è questo flusso e riflusso sempre nuovo della
comunione trinitaria di cui è resa partecipe tutta la creazione: gli
angeli, i viventi, tutti i tempi… (cf Ap 4,4-11). Si tratta finalmente
di leitourgía, “opera comune”, sia nel senso di Dio e dell’uomo
insieme, opera di sinergia; sia, conseguentemente, in quanto opera
divino-umana, non di un singolo individuo, ma di tutta l’umanità, opera
di comunione.
Liturgia e celebrazioni liturgiche
Il mistero
dell’Ascensione ci insegna che Cristo è alla destra del Padre e allo
stesso tempo è presente sulla terra in un modo nuovo. Luogo privilegiato
di questa presenza è la Chiesa e momento per eccellenza la vita
liturgica della comunità, che ci incorpora a Cristo e ci fa uno con la
sua offerta celeste. La liturgia è allora questo ponte vivo e misterioso
incessantemente percorso tra cielo e terra: Cristo, che siede alla
destra del Padre nei cieli, dimora fisicamente anche in terra, sugli
altari. Lo squarciarsi del tempo che si è verificato con la risurrezione
si ripete in tutti i momenti che partecipano dello stesso contenuto
salvifico. Questo ci spiega anche la tensione che esiste tra
l’esperienza che abbiamo del battesimo, dell’eucarestia, dei sacramenti
in genere nella nostra vita e il loro pieno realizzarsi alla fine dei
tempi: sono come dei “buchi”, delle fenditure, attraverso cui ci è
possibile attingere al mistero, all’eschaton, al regno, alla vita eterna
(i tanti modi in cui chiamiamo questa realtà) e farne esperienza in vari
gradi già nel tempo storico.
Così, il culto
cristiano ci immette nel grande movimento della preghiera del sommo
sacerdote Gesù, della sua intercessione celeste e terrena. Si tratta di
momenti di pienezza e di grazia che devono sprigionare la loro
pienezza nel tempo, con la sua caratteristica di gestazione e di
tensione segnata anche dalla tribolazione e dalla miseria. Mentre la
nostra esistenza faticosamente si fa penetrare dalla vita di Cristo
risorto – tanto faticosamente che talvolta non siamo capaci di vedere
tale penetrazione – la celebrazione liturgica ci fa attingere alla
pienezza degli ultimi tempi, alla vita piena, alla vita eterna, alla
vita incorruttibile a cui tutta l’umanità e anche noi non siamo
ancora passati. Non è un caso se la liturgia eucaristica
bizantina comincia con una benedizione del regno: la liturgia infatti ci
trasporta nel regno, dove la nostra vita è “nascosta con Cristo in Dio”
(Col 3,3).
Le nostre
celebrazioni sono uno squarciarsi dei tempi in cui attingiamo alla
salvezza, alla speranza della gloria, alla vera immagine della Chiesa e
di me negli occhi di Dio, affinché siamo capaci di vivere tutto questo
nell’ordinario. Allora il tempo e la storia, invece di essere un
movimento del passato verso il presente, diventano un movimento a
partire dal futuro verso il presente. E anche la nostra vita personale,
insieme alla storia, viene a noi dal futuro, dal giorno ultimo, dalla
risurrezione finale, quando tutte le cose sono state fatte nuove.
Questa dinamica tra
vita e liturgia ci rende chiaro un altro aspetto tipico della liturgia,
senza la quale essa è difficilmente comprensibile: il suo doppio ritmo
di preparazione e compimento, un ritmo che rivela e compie
la doppia natura e la doppia funzione della Chiesa stessa.
Da una parte, la
Chiesa è preparazione, perché ci prepara per la vita eterna e la sua
funzione è di trasformare tutta la nostra vita in preparazione. Perciò è
sempre lì a ricordarci che l’ultima realtà che dà significato e
direzione alle nostre vite deve essere sperata, aspettata, invocata. Di
conseguenza, anche la liturgia è sempre e anzitutto preparazione: sempre
guarda oltre se stessa, oltre il presente, e la sua funzione è quella di
trasformare la nostra vita in vista del suo compimento nel regno di Dio.
D’altra parte, la
Chiesa è anche ed essenzialmente compimento. Gli eventi che
l’hanno fatta nascere e che costituiscono la fonte della sua fede e
della sua vita si sono già verificati: Cristo è venuto, e in Lui l’uomo
è stato divinizzato ed è asceso al cielo, ed è venuto anche lo Spirito
Santo ad inaugurare il regno di Dio.
Ora, è proprio
nella e tramite la liturgia che questa doppia natura della Chiesa ci è
rivelata e comunicata, ed è la funzione propria della liturgia rendere
la Chiesa una preparazione e rivelare essa stessa come compimento. Per
questo ogni giorno, ogni momento è trasformato e reso questa doppia
realtà, una correlazione tra “già” e “non ancora”. Non potremmo essere
pronti al regno di Dio che “non è ancora”, se questo regno non ci fosse
in qualche modo “già” dato, se noi non sperimentassimo i suoi inizi, se
non ne avessimo il gusto. Se la liturgia non fosse “compimento”, la
nostra vita non potrebbe mai essere “preparazione”. E, viceversa, se la
liturgia non fosse “preparazione”, non potremmo mai vivere il suo
“compimento” nel regno. Questo doppio ritmo di preparazione e compimento
non è accidentale. Si tratta dell’essenza stessa della vita liturgica
della Chiesa. Senza vederlo, ridurremmo la liturgia al culto, alla
cerimonia. Ma il culto non è fine a se stesso: si celebra il culto per
il sorpassamento del culto, per la liturgia dei nostri corpi, il culto
spirituale di cui parla san Paolo (cf Rm 12,11).
La liturgia non
solo ci dà questa immersione nella vita nuova, ce la comunica, ma
comunicandocela anche ci educa ad essa, plasma la nostra vita secondo un
suo proprio ritmo, una sua modalità. La liturgia è una specie di
antropologia in atto che è quella della trasfigurazione di Cristo, alla
quale il suo corpo (cioè noi, la Chiesa) partecipiamo quando ci
raduniamo per celebrarlo. L’educazione religiosa allora non deve essere
nient’altro che il dischiudere ciò che accade alla persona quando nasce
di nuovo attraverso l’acqua e lo Spirito ed è fatto membro della Chiesa.
E siccome si tratta non solo della semplice comunicazione di una
“conoscenza religiosa”, di formare una buona persona, ma l’edificazione
di un membro del corpo di Cristo, un membro di quel “popolo scelto”,
“nazione santa” (1Pt 2,9) la cui vita misteriosa nel mondo è cominciata
il giorno del battesimo, i ritmi e le caratteristiche della liturgia ci
dicono qualcosa sul contenuto e sul modo di questa
educazione religiosa.
Una liturgia che plasma la vita
Di questa
educazione religiosa a partire dalla liturgia si potrebbero dire tante
cose. Mi limito ad alcune che, senza costituire niente di esauriente,
saranno sufficienti per suggerire qualche spunto, qualche ispirazione.
Lo
sfondo: nell’oggi della liturgia
La liturgia è un
grande oggi. Abbiamo visto che tramite la liturgia entriamo nel mistero
di Cristo, dove tutto è compresente. Una festa è pertanto una entrata
nel e una comunione con il significato eterno di un evento avvenuto nel
passato secondo il tempo storico, ma a cui ora, attraverso la liturgia,
possiamo attingere. La memoria naturale è più che altro una «presenza
dell’assente», così che più è presente colui di cui facciamo memoria,
più acuta è la sofferenza per la sua assenza. Ma in Cristo la memoria
diventa di nuovo la facoltà di ricomporre il tempo spezzato dal peccato
e dalla morte, dall’odio e dall’oblio. Ed è proprio questa memoria nuova
come potere sul tempo e sul suo essere spezzato che si trova al cuore
della celebrazione liturgica, dell’oggi liturgico. Certo che in
questo momento la Madre di Dio non partorisce nessuno, e nessuno sta di
fronte a Pilato. Come fatti, questi eventi appartengono al passato, ma
oggi noi possiamo farne memoria e la liturgia è proprio il dono e
il potere di questa memoria che trasforma i fatti del passato in eventi
a noi contemporanei, dandoci la possibilità di rientrare in quell’evento.
Questo è il grande
scenario che ci prepara la liturgia, con la sua scansione tra i sette
giorni e l’ottavo giorno, tra i quaranta giorni della quaresima - il
tempo di questo mondo, il quotidiano con la sua fatica e la sua lotta,
la sua ascesi - e la cinquantina, la pentecoste, come figura del mondo
venturo. Per questo la celebrazione sacramentale della giornata comincia
ai vespri: quando la luce del mondo fisico declina verso le tenebre,
brilla la luce che è Cristo risorto. E attorno al mistero pasquale
gravitano due costellazioni: quella del ciclo mobile e quella del ciclo
fisso delle feste. Il ciclo mobile si riferisce alla Pasqua nel suo
simbolismo numerico: l’ottavo giorno che fa passare il sabato del tempo
mortale nel giorno eterno della risurrezione; il ciclo fisso è quello
delle feste del Signore, della Madre di Dio e dei santi. Sono feste
fisse perché, avvenute nella storia, sono ora nella gloria.
E come c’è un tempo
sacramentale della liturgia, c’è anche un suo spazio sacramentale. Alla
prima pentecoste i discepoli si riuniscono «in uno stesso luogo». Questa
espressione (épi to auto), fondamentale in ecclesiologia, ha un
significato allo stesso tempo locale e spirituale (cf At 2,1): l’unità
di luogo significa l’unità dei cuori. Nella liturgia noi abitiamo questo
corpo di Cristo totale, uniti a tutti quelli che sono di Cristo in tutti
i tempi e in tutti i luoghi, dal «giusto Abele» fino all’ultimo bambino
che nascerà.
Ogni sforzo
spirituale è finalizzato alla nostra partecipazione a questo oggi
e in questo luogo della risurrezione di Cristo.
«Da
lì a qui»
Questo ci fa capire
una prima conclusione: il movimento che anima il ciclo liturgico non
parte dai giorni, dalle settimane, per santificarle con delle preghiere,
ma all’inverso, parte dal «giorno senza tramonto della risurrezione»,
dove ci trasporta, per liberare e trasfigurare le ore, i giorni, i mesi
del tempo che non sono ancora vivificati da Cristo e dal suo Spirito.
Questo quadro, questa visione, questo sfondo motiva la nostra ascesi:
quando io partecipo a questa realtà, vedo questo traguardo, io voglio
raggiungerlo, mi muovo verso questa direzione. Devo fare uno sforzo,
rinunciare a certe cose, cambiare certe abitudini, e tutta la mia vita
diventa un esercizio. Ogni cosa acquisisce un significato, ogni cosa
diventa santificata, perché ogni cosa è un passo in questo lungo
percorso che mi porta al giorno della risurrezione.
Il
realismo è quello della liturgia
Nella liturgia,
dove io attingo alla vita del regno, dove la mia vita è nascosta con
Cristo in Dio, imparo lo sguardo giusto da avere sulle cose relative
alla vita quotidiana, se l’antropologia vera è quella dell’uomo nuovo.
Non comprendo la maternità della Madre di Dio a partire dalle nostre
esperienze di madri, ma imparo che cosa significa essere madre
celebrando e meditando anno dopo anno il ciclo del Natale, le feste
della Vergine, sbirciando attraverso la scansione dell’anno liturgico,
quello che riesco a vedere della Madre di Dio. Non capisco Dio come
Persona a partire dalla mia esperienza delle persone. Piuttosto, se la
persona è un essere in relazione, allora «persona» è il nome proprio di
Dio. Solo Dio è persona, perché è in relazione con tutti. Non proietto
l’esperienza che ho avuto di mio padre (che può essere anche disastrosa)
sulla paternità di Dio, ma capisco che l’esperienza vera della paternità
è quella lì, che Padre è un «nome proprio» solo di Dio, e che l’umanità
indossa questo nome appropriatamente nella misura in cui rivela qualcosa
di Lui. Lo stesso sul rapporto tra lo sposo e la sposa.
C’è una bellissima
omelia di Giacomo di Sarug dove questo poeta-teologo siriaco dice che
Mosè vide Cristo e lo chiamò «uomo», vide la Chiesa e la chiamò «donna»
e parlò nella Genesi dell’uomo e della sua donna. Ma bisognava aspettare
Cristo e la Chiesa perché questo mistero fosse svelato e riverberasse la
sua luce anche sul rapporto tra l’uomo e la donna. Il realismo è,
appunto, quello della liturgia. Il mondo ha le sue radici nella Sapienza
di Dio, ma è ferito mortalmente dal peccato e ha l’esperienza della sua
guarigione solo nel Nuovo Adamo e in tutti quelli che sono innestati in
Lui e attraverso questo innesto contribuiscono a liberarlo dalla
schiavitù della corruzione. Il peccato sparisce, sarà risucchiato
dall’abisso del nulla su cui è gettata la creazione come un ponte.
Allora non possiamo proiettare questo nulla su ciò che è, comprendere
quello che è a partire da questo nulla.
Una
pedagogia
A partire da questa
prospettiva, dalla liturgia si impara anche tutta una pedagogia, basata
sulla sua scansione, sul suo ritmo interno:
– la settimana e
l’ottavo giorno. C’è l’ordinario, il quotidiano e l’irrompere della
festa. In un tempo dove non c’è più nessuna differenza tra il feriale e
la festa, forse bisognerebbe di nuovo imparare a valorizzare i piccoli
gesti, le piccole attenzioni che aiutano a coscientizzare tutto questo;
– il ciclo
dell’anno, con i suoi digiuni e le sue feste. La festa non come
distrazione, rilassamento, secondo un ritmo in fondo animale del lavoro
e del riposo, ma come giustificazione e frutto di questo lavoro e, per
così dire, la sua trasformazione sacramentale in gioia, e dunque in
libertà. Ma è difficile vivere la festa se ci divertiamo come si
divertono tutti.
E, per celebrare la
festa, ci vuole il digiuno. In un mondo di diete e di ricerca del
benessere, o ci siamo scordati del digiuno, o lo travisiamo. Secondo i
Padri, Adamo in paradiso aveva ricevuto l’ordine di digiunare, perché
con il digiuno doveva controllare il suo desiderio per rendere cosciente
e completo il suo rapporto con il Creatore e allo stesso tempo per
vedere il mondo non come una preda, ma come un’eucarestia. La devianza
originaria, il mangiare il frutto proibito, è visto come un
atteggiamento predatorio: consumare il mondo invece di trasfigurarlo.
Tutta la tradizione – non ultimo Solov’ëv – ha scritto cose bellissime
sul digiuno di cibo che ha senso solo se si accompagna a un digiuno
spirituale: dalla volontà di potenza, di vanità, dell’intelligenza, fino
al digiuno della misericordia. Che cosa vuol dire attualizzarlo,
viverlo?
– l’offerta e l’epiclesi.
Tutta la liturgia si basa sul doppio movimento dell’offerta dell’uomo e
dello Spirito che scende su questa offerta e la trasforma. L’epiclesi è
l’invocazione (klésis) che sale verso il Padre per supplicarlo di
far scendere il suo Spirito su (épi) quanto gli offriamo (il
pane, il vino, l’assemblea, tutto quello che mettiamo davanti alla sua
misericordia). Anche la preghiera personale ha una dinamica liturgica:
l’altare del cuore, l’epiclesi del cuore (dove all’offerta più povera di
chi rinuncia alla sua volontà rimettendola nelle mani del Padre
corrisponde il dono dello Spirito Santo), per diventare la mensa della
condivisione. La preghiera diviene allora un’offerta interiore, un’epiclesi
di tutto l’essere alla quale finisce per rispondere la discesa di una
pentecoste. Come il pane che offriamo si trasforma nel suo corpo, così
la nostra preghiera a Gesù diventa la preghiera di Gesù, cioè entra
nella preghiera incessante di Gesù, liturgia eterna celebrata davanti al
volto del Padre che ci unisce a tutti.
– la materia e
il simbolo. In un mondo secolarizzato, tecnocratico, consumista,
dove non solo c’è una riduzione dell’uomo al mondo, alla storia e alla
natura, ma anche la storia e la natura stesse sono ridotte a quello che
è fruibile per l’uomo, si impara a guardare alle cose come sono uscite
dalle mani di Dio il primo giorno della creazione, con gli occhi
liberati dall’opacità della colpa. Questo ci aiuta a dare valore alle
cose, spessore e corposità ai gesti...
– io e noi.
La liturgia è questo «noi» in cui ogni tanto affiora un «io» («Credo»,
«mia colpa»), perché quello che è mia responsabilità, che è mio compito,
che è mio peccato non può affogare in un «noi» impersonale.
Ma liturgia
significa anzitutto anche «io-noi». Leitourgía vuol dire
letteralmente «opera comune», sia nel senso di Dio e dell’uomo insieme,
opera sinergetica, perché dopo l’incarnazione non esiste «l’umanità
naturale», ma esiste la divino-umanità, il Corpo di Cristo; sia,
conseguentemente, in quanto opera divino-umana, non ascrivibile ad un
singolo individuo, ma a tutti quelli che sono di Cristo, opera di
comunione. En Christô, in Cristo, ricorre 164 volte negli scritti
di san Paolo. E la vita en Christô implica non solo la presenza
dell’altro che è Cristo, ma anche degli altri che sono le sue membra. In
questa prospettiva, anche quello che è nostro, personale, che è nostra
responsabilità, si sfuma, si allarga... Qui si apre un capitolo
smisurato su che cosa significherebbe pensare la comunità, la vita
comunitaria a partire non da uno sguardo non solo psicologico, ma
dall’ontologia dei rapporti, a cui la liturgia ci fa attingere... 1
Maria CAmpatelli
Centro Aletti – Via Paolina, 25
00184 Roma
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