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La
Parola, insieme con il
sacramento, è elemento determinante in ogni forma di spiritualità che, a
partire da Cristo, si definisca «cristiana». Infatti la dottrina
spirituale cristiana nasce dalla Parola biblica, non soltanto perché
dall’accoglienza del kerigma è originata l’esperienza stessa
della fede (fides ex auditu) che conduce alla nuova nascita
battesimale, ma anche perché la Parola, insieme con il Pane eucaristico,
è nutrimento indispensabile per la crescita della Chiesa e di ogni
singolo membro di essa fino alla pienezza della maturità di Cristo.
La Parola biblica però fruttifica
soltanto se ricevuta «in terra buona e ottima» disposta ad attendere con
serenità e fiducia i frutti della Parola maturati, come avvenne in Maria,
la Madre di Gesù, grazie all’azione dello Spirito Santo.
La parabola
«archetipo»
La parabola del seminatore del
Vangelo di Luca è paradigma appropriato di tutto questo. In realtà lo
sarebbero altrettanto altre pagine del Nuovo Testamento e in particolare
alcune indicazioni molto precise degli Atti degli Apostoli. Ma, per il
momento, tenendo conto anche dell’esiguità dello spazio che ci è stato
concesso, riteniamo sufficiente tentare un breve approfondimento della
parabola, nella redazione lucana, compiuto da una prospettiva suggerita
dall’approccio ermeneutico dei Padri della Chiesa, che noi amiamo
definire metodo di lectio divina.
In Luca 8, 1-21, testo all’interno
del quale si pone la parabola e la sua spiegazione, non si parla
soltanto della «gran folla» che si radunava e accorreva a Gesù da ogni
città (v. 4), ma anche di «alcune donne che erano state guarite da
spiriti cattivi e da infermità» alle quali vengono aggiunte «molte altre
che assistevano» Gesù e i suoi discepoli «con i loro beni» (vv. 2-3).
Possiamo accostare questo richiamo
alla presenza, a conclusione del brano, della «madre e i fratelli» di
Gesù definiti tali - contro l’opinione comune che invece si fermava ai
loro legami di sangue - in quanto «sono coloro che ascoltano la parola
di Dio e la mettono in pratica (in greco: poiountes)» (v. 21).
Una simile inclusione femminile è molto misteriosa, perché unisce nella
comune appartenenza al discepolato di Gesù di Nazaret diverse esperienze
fondamentali della natura umana, quali quella dell’amicizia, della
maternità e della fraternità, tutte rese possibili, perché «il
seminatore uscì a seminare il suo seme» (Lc 8, 5).
All’origine c’è infatti un’allusione
genitoriale che riconduce la sorgente di tutto semplicemente al Padre,
nel quale tutti si riconoscono non soltanto amici e discepoli, ma anche
fratelli e sorelle del Signore. C’è però un’aggiunta assai misteriosa:
infatti si accenna anche alla possibilità, per coloro che ascoltano e
mettono in pratica la Parola, di riconoscersi uno per uno madre
della Parola di Dio (tou theou), e questo perché le permettono di
essere «partorita» (poiountes) mettendola in pratica con la vita.
Esigenza di
sponsalità
In tutto questo sembra essere fuori
discussione la presenza di un certo privilegio della dimensione
femminile, ma altrettanto fuori discussione sembra essere una sorta di
contesto genitoriale in cui si consuma il chiaro primato della parola di
Dio. L’evangelista Luca spiega in 8,11 che «il seme è la parola di Dio (ho
logos tou theou)». Ma non è forse ovvio per il credente del Nuovo
Testamento identificare ho theòs semplicemente con ho patèr,
il Padre?
I Padri della Chiesa, e qui mi
riferisco in particolare a san Giovanni Crisostomo, attirerebbero
inoltre l’attenzione sulla presenza di una misteriosa collaborazione (synergeia),
di natura sponsale, anch’essa indispensabile, perché il seme ricevuto
possa non solo attecchire, ma raggiungere anche quella completezza
necessaria che lo porti a maturazione fino a consentire il concepimento
prima, e il parto poi, di una creatura nuova.
L’insistenza sulla synergeia
viene in ogni caso accentuata nel testo evangelico. Lo stesso Luca
collega di fatto la fruttificazione ad una tale collaborazione fra seme
e terreno da permettere di considerare questi due elementi addirittura
come una cosa sola, con chiaro riferimento simbolico proprio di tipo
nuziale. Scrive infatti al v. 15: «Il seme caduto sulla terra buona sono
coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la
custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza». Il linguaggio
parabolico permette in realtà d’immaginare una tale immedesimazione, fra
il seme e il terreno, da poter riferire la fruttificazione all’uno e
all’altro simultaneamente!
È la presenza di questo mistero nel
rapporto fra il credente e la parola di Dio che ha incantato per secoli
i Padri della Chiesa, e i monaci cristiani in particolare, nella loro
dedizione quotidiana alla lectio divina.
L’«admirabile
commercium»
Cosa succede in realtà in una
lectio divina? Proprio uno scambio straordinario d’intimità fra la
persona divina e la persona umana che si scambiano parole d’amore - come
direbbe Origene - attraverso la Scrittura ispirata. Lettore e testo sono
talmente coinvolti l’uno dentro l’altro, nel rispetto dell’alterità di
ciascuno dei due, che si può tranquillamente parlare di vera e propria
esperienza nuziale. Non solo, ma i Padri arrivavano a considerare del
tutto legittimo parlare, anche in questo caso, di una communicatio
idiomatum molto analoga a quella che la teologia aveva insegnato a
riconoscere nella contemplazione del mistero del Verbo fatto carne. L’admirabile
commercium, del quale si parla a proposito del mistero
dell’Incarnazione del Figlio di Dio, si realizza, infatti, altrettanto
misteriosamente, fra colui che ascolta la Parola e la Parola stessa.
Scriveva san Gregorio di Nissa,
commentando Cantico dei Cantici 2, 8: «Una voce! Il mio diletto!
Eccolo viene saltellando per i monti, balzando su per le colline». «Che
cosa è adombrato in queste parole? Forse ciò che è rivelato nel Vangelo:
il piano della manifestazione del Verbo di Dio, già precedentemente
annunziato dai profeti e realizzato con l’apparizione del Signore nella
carne». Il testo prosegue: «Eccolo, egli sta dietro il nostro muro;
guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate». E Gregorio
commenta: «La parola unisce a Dio la natura umana, dopo averla
illuminata per mezzo dei profeti e della Legge. E così nelle finestre
vediamo adombrati i profeti che aprono il varco alla luce, mentre nelle
inferriate riconosciamo l’insieme dei precetti della Legge. Attraverso
gli uni e gli altri entra lo splendore della vera luce. Luce piena si
fece poi quando a coloro che si trovavano nelle tenebre e nell’ombra di
morte apparve la vera luce, per la sua unione con la natura umana».
Quindi il Nisseno conclude:
«Dapprima, dunque, i raggi delle visioni profetiche, balenati all’anima
e accolti nella mente attraverso le finestre e le inferriate,
c’infondono il desiderio di vedere il sole a cielo aperto; ma, subito
dopo, l’oggetto del desiderio diventa realtà. Infatti è scritto:
“Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, o mia colomba”. Vediamo il Verbo
che attrae a sé la sposa, di virtù in virtù, come sui gradini di una
scala».1
Biblio-teca vivente
In analogia con ciò che avviene
nell’accostarsi alla santa Eucaristia, si può dire che, accostandosi
alla Parola del Signore si diventa colui che si riceve o, per meglio
dire, che si ascolta, permettendogli di renderci partecipi della sua
natura divina (cf 2Pt 1,4). Di questo erano talmente convinti i Padri
antichi che, quando sant’Atanasio di Alessandria parlava, per esempio,
di Antonio, il grande monaco egiziano, non soltanto constatava che egli
era divenuto biblio-teca vivente, ma aggiungeva che a lui si
poteva fare riferimento semplicemente come alla parola di Dio (logos
theou).
San Gregorio Magno, in Occidente,
poteva perciò concludere serenamente, riferendosi a coloro che si
fossero trovati nella stessa condizione di Antonio: «viva lectio est
vita bonorum»2 e cioè: la vita dei buoni
può essere paragonata ad un testo che, non meno del testo biblico,
diviene legittimo oggetto di lectio o, più propriamente, di
lectio divina. Infatti, «non per nulla i giusti nella sacra
Scrittura sono chiamati libri, come sta scritto: Furono aperti i libri.
Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero
giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri (Ap 20, 12). Si
dice che furono aperti i libri, anche perché allora si vede la vita dei
giusti nei quali si scorgono impressi con le opere i comandamenti
divini».3
Nacque così e si diffuse la
convinzione che si potesse leggere la Bibbia nelle biografie dei santi,
inaugurando una prassi preziosa soprattutto per coloro che non avevano
avuto una formazione culturale adeguata a poter leggere e interpretare
in modo appropriato le divine Scritture.
Restava, né poteva essere altrimenti,
la necessità di riferirsi sempre all’archetipo biblico originario. Da
qui lo sforzo di memorizzare la Bibbia, di trascriverla continuamente,
di raffigurarla sui codici e sulle pareti delle chiese o dei monasteri,
di portarla con sé in quella vera e propria Bibbia in miniatura che
erano le icone, ma soprattutto di ritrovarne il senso pieno
nell’incontro personale, vissuto nella preghiera più intensa, con Gesù
risorto. Ma da qui anche l’attenta ricerca a rapportare ciascun
personaggio o testo biblico al gradino concreto sul quale il credente,
progredendo verso un’intimità sempre più alta col Signore, poggiava i
suoi passi giorno dopo giorno. Se infatti era indiscutibilmente vero per
tutti: «lucerna pedibus meis verbum tuum» (luce ai miei passi è la tua
parola: Sal 118/119,105), diventava anche un’esigenza quasi ovvia
individuare il testo biblico preciso da cui farsi aiutare in ciascuna
delle singole fasi del proprio itinerarium mentis in Deum.
La «praxis» e la
«teoria»
Molto presto i nostri Padri antichi
stabilirono anche dei criteri di lettura biblica sia per indicare
cosa leggere, dell’insieme del testo biblico, sia per insegnare
come leggere. Divenne tradizionale, per esempio, per ciò che
riguardava l’Antico Testamento, l’indicazione dei libri che si potevano
leggere nelle singole fasi della crescita spirituale. Così, prendendo
come punto di riferimento la raccolta biblica dei tre libri sapienziali
attribuiti a Salomone: Proverbi, Ecclesiaste e Cantico
dei Cantici, si consigliava di leggerli secondo un ordine ben
preciso che distingueva l’insieme del corpo dei credenti in
principianti, proficienti e perfetti, insistendo
sull’inopportunità di passare al libro successivo prima che il
precedente non fosse diventato tutt’uno con la vita. Il libro dei
Salmi invece, considerato pane indispensabile per ogni
companatico e sintesi per eccellenza di tutti i libri biblici,
copriva l’intero arco del cammino spirituale divenendo anzi, per alcuni,
l’unico testo di riferimento in ogni momento della vita quotidiana.
Rimase famoso il detto medioevale: una via in Psalmis, cioè:
strada maestra necessaria a tutti è quella indicata dal Salterio. I
salmi venivano cantati abitualmente in comune, specie nella preghiera
liturgica, ma venivano anche cantillati in privato con la voce o con la
memoria del cuore (il par coeur francese!).
Il Nuovo Testamento era poi sinonimo
d’incontro personale col Signore risorto. Da cui il primato dei Vangeli,
sempre, e la convinzione che il Vangelo fosse non soltanto la chiave che
apriva il senso nascosto in ogni libro biblico, ma anche il contenuto
propriamente detto. E se gli Atti degli Apostoli e le Lettere
apostoliche potevano essere letti come un proseguimento logico del
Vangelo stesso divenuto vita, le Lettere di Paolo, ritenute cibo
evidentemente più solido, erano invece riservate ai più avanzati o
maturi nel cammino della fede.
Altra attenzione ricevevano, nella
pietà dei nostri Padri antichi, i Libri storici e i Libri dei
Profeti. In essi i monaci, in particolare, ma anche altri uomini di
chiesa, ricercavano i modelli per antonomasia di ogni singola vocazione
cristiana all’interno dell’appartenenza comune al popolo di Dio.
Patriarchi, Re, Profeti e Saggi d’Israele, ai quali si
aggiunsero in seguito i Profeti e gli Apostoli del Nuovo
Testamento, divennero le figure (typoi), ma anche i modelli che
chiedevano di essere continuamente riproposti, lungo l’intero arco della
storia, dai membri del nuovo popolo di Dio identificato con la Chiesa.
L’iniziazione al
«senso spirituale»
Per imparare il come leggere
le Scritture sante occorreva mettersi assolutamente alla scuola del
Nuovo Testamento e dei Santi Padri. Cominciava così l’iniziazione
spirituale vera e propria, che aveva, come obiettivo fondamentale,
quello d’imparare a fare il passaggio dalla lettera allo
spirito nella lettura della pagina biblica. Va da sé che non si
trattasse di pura tecnica, ma di vera e propria comunicazione o
trasmissione, da persona a persona, di un’esperienza di vita. Il
passaggio fondamentale era quello ottenuto dall’utilizzazione della
chiave della fede che permetteva di superare la soglia della forma
scritta per inoltrarsi nel mistero che, oltre quella soglia, si celava.
Il contenuto del mistero biblico non
poteva essere diverso da quello rivelato in e da Gesù di
Nazaret, il quale nell’ottavo giorno della sua risurrezione, «aprì loro
la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45) - come scrive Luca
- e «cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le
Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 27). Gesù risorto
proseguiva poi a compiere la sua esegesi spirituale - ed era questa la
convinzione comune - nella multiforme manuductio garantita dalla
premura costante della Chiesa.
L’aiuto offerto dalla Chiesa, nei
suoi pastori, nei suoi catechisti e nei suoi padri spirituali (pneumatikoi),
creava quel particolare affinamento spirituale che permetteva non
soltanto di leggere nei personaggi dell’Antico Testamento la presenza di
un aspetto particolare del mistero della persona di Gesù, ma anche di
riprodurre nella propria vita i lineamenti stessi di lui. Si era
convinti infatti che egli non solo si fosse fatto tutt’uno con gli
uomini di Dio (viri Dei) del passato, ma proseguisse anche a
identificarsi nel presente con poveri, ammalati, prigionieri, assetati,
affamati in tutti i sensi, e soprattutto con quei perseguitati a causa
della giustizia, nei quali la Lettera agli Ebrei aveva insegnato
a riconoscere il ripetersi, nel Nuovo Testamento, delle profezie di lui
già intraviste nei viri Dei dei quali parlano le Scritture
ispirate dell’Antico Testamento.
L’apertura mistica
La vocazione del cristiano,
preoccupato anzitutto di seguire Cristo, diventava a questo punto
impegno costante a riproporre nella propria vita, sia pure in modo
parziale rispetto alla pienezza di Cristo, uno di quei viri Dei
appena ricordati, mettendosi a disposizione dello Spirito, per diventare
quella ulteriore «pagina sacra» o «pagina biblica» in cui tutti
potessero riconoscere il riproporsi dell’unica storia della salvezza
ancora in atto, e in progresso continuo, fino al compimento del giorno
del Signore atteso alla fine dei tempi.
Tutto questo era vissuto poi in modo
altamente dinamico. Ritornava ancora una volta, in questo nuovo
contesto, la distinzione fra chi era solo nella fase del principiante
e chi sperimentava già un progresso che lo poneva sempre più
vicino al compimento. Ma ciò su cui i Padri della Chiesa
insistevano supponeva anche la convinzione che, lungo questo itinerario,
ci fosse una sorta di legge del feed beck secondo la quale ogni
meta raggiunta diventava anche punto di partenza per progredire ancora.
San Gregorio Magno diceva che «Divina
eloquia cum legente crescunt»4 e san
Gregorio di Nissa scriveva, a questo proposito, pagine ancora più
profonde. Nel seguito, per esempio, della sua quinta Omelia su Ct
2,8, che abbiamo già citato, questo grande mistico e dottore della
Chiesa scriveva a proposito della parola di Lui: «Dapprima manda un
raggio della sua luce attraverso le finestre profetiche e le inferriate,
cioè i precetti della Legge, e l’invita ad accostarsi alla luce che la
rende bella come una colomba luminosa. Quando poi essa ha accolto in sé
tutta la bellezza di cui è capace, di nuovo, come se finora non le
avesse comunicato nessun bene, l’attrae a una partecipazione più
elevata, cosicché lo stato già raggiunto accende ulteriormente il suo
desiderio, e per lo splendore della bellezza da cui si vede sempre
sovrastata, ha la sensazione di essere appena all’inizio della salita in
Dio».5
Un monaco - Benedetto Calati - al
quale sono molto affezionato e sul quale sta per uscire con i tipi delle
Edizioni Dehoniane un lavoro dottorale di suor Grazia Paris delle
Dorotee di Cemmo dal titolo: Uomo di Dio amico degli uomini.
L’insegnamento spirituale di Benedetto Calati, proponeva gli stessi
concetti citando un altro grande mistico e Padre della Chiesa: san
Bernardo di Chiaravalle.
Padre Calati premette che il
cristiano perfetto, inteso come realizzazione ultima dell’alleanza
sponsale con Dio, ha per ciò stesso percorso uno dopo l’altro i gradini
che l’hanno assimilato alla sposa descritta nel Cantico dei Cantici.
Quindi spiega parafrasando Bernardo: «Con la rinunzia al mondo il
credente è salito sul primo gradino della sapienza eretto
dall’intelligenza dell’insegnamento dei Proverbi: primo pane.
Con l’emendamento dei propri costumi posa i suoi piedi sul secondo
gradino, avendo fatto suo l’insegnamento dell’Ecclesiaste:
secondo pane, offerto dalla bontà ospitale dell’amico. Accettando
infine di gustare il terzo pane, che è il più saporito, quello
contenuto nel Cantico dei Cantici, apice dei magnalia Dei
operati nell’arco della storia della salvezza, è salito sul terzo ed
ultimo gradino, riservato unicamente ai perfetti»6.
Questo criterio di discernimento
della vita spirituale – spiega ancora padre Calati – ha un altissimo
valore oggettivo, ma suppone sempre, in ogni fase della crescita
spirituale, un ascolto fedele e attento della Parola che si fa
compimento di quanto essa propone. Bernardo, in continuità con i Padri
vissuti nel primo millennio della Chiesa, conclude padre Calati,
«pone progresso spirituale e intelligenza del senso delle Scritture nel
suo triplice grado di senso storico, morale e mistico».
Il monaco camaldolese, preso
dall’entusiasmo, si fa volentieri discepolo del mistico cistercense
quando ripete con lui che l’intelligenza del senso storico del
testo biblico introduce l’anima nel giardino dello sposo (in hortum);
il senso morale l’invita in luoghi già più intimi (in
cellarium); il senso mistico infine l’inizia ai misteri
inaccessibili della camera nuziale (in cubiculum).7
Nel grembo della
Chiesa
Tutto ciò che abbiamo scritto in
queste poche righe è soltanto uno stimolo a riflettere più seriamente
sul ruolo determinante che ha la parola di Dio nel cammino di fede.
D’altra parte non posso concludere senza richiamare l’attenzione su ciò
che, seguendo l’insegnamento di Origene, ho imparato a riconoscere come
le tre forme fondamentali assunte dalla parola di Dio per manifestarsi
al mondo. Esse sono: le Sacre Scritture, il Verbo incarnato, la Chiesa
che scaturisce e culmina nell’Eucarestia. Queste tre forme includono
ovviamente altri modi di presenza della parola di Dio che i Padri
antichi scoprivano, per esempio, nei cieli, che «raccontano la gloria di
Dio» (manifestazione cosmica); nella storia dei popoli
(manifestazione storica), che sono inevitabilmente parte del
progetto globale della storia della salvezza; nei saggi di tutte le
culture umane (manifestazione filosofica ed artistica); e
nelle diversissime forme religiose (manifestazione religiosa)
presenti e passate. Ciascuna di queste presenze erano percepite dai
Padri cristiani come scintille o semi, sparsi ovunque, della parola di
Dio. Tuttavia colui che, come Verbum adbreviatum, contiene in sé
e verifica tutte le altre presenze, è e rimane la Parola fatta carne in
Gesù di Nazaret, secondo le Scritture, Crocifisso e sepolto,
secondo le Scritture, risuscitato secondo le Scritture e
annunziato dalla Chiesa secondo le Scritture.
La Chiesa, che lo accoglie nella
fede, ma ne è anche la continua presenza nella storia, diviene dunque
colei che vive dell’armonia delle tre presenze: sedes apostolica et
universa legit et tenet Ecclesia.8 È la
Chiesa infatti che, avendo ricevuto il dono del Verbum adbreviatum,
lo custodisce con premura e fedeltà e lo comunica con generosità e amore
al mondo intero.
Innocenzo
Gargano
Istituto Orientale - Roma
Piazza San Gregorio al
Celio, 1 – 00184 Roma
1.
Gregorio di Nissa,
Omelie sul Cantico dei Cantici. Omelia 5 su Ct 2,8-17, in
Unione Monastica Italiana per la Liturgia, L’Ora dell’ascolto,
Piemme, Casale Monferrato 1997, 195-197.
2.
Moralia in Iob,
V, cap.
XXIV,
16,PL 76, 295B.
3.
Gregorio Magno,
Commento
morale a Giobbel/
3, Città Nuova, Roma
1997, 355.
4.
Gregorio Magno,
Homiliarum in Ezechielem,
1,
Homelia
VII, 7: PL 76, 843D.
5.
Vedi nota 1.
6.
Cf.
Sermones
in cantica, Sermo
I, 1, PL 183,
785B-786°.
7.
Cf G. Paris,
Uomo di Dio amico
degli uomini. L’insegnamento spirituale di Benedetto Calati,
Istituto Teologico
sulla Vita Consacrata «Claretianum», Roma 2006, 272-273 (pro
manuscripto):
8.
Ugo di Rouen,
Dialogorum Libri, V, 12, PL CXCII, 1206D.
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