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La
comunità ecclesiale è inseparabile dalla Scrittura: librum et
speculum diceva Bernardo, nel senso che il Libro fa da specchio alla
comunità per giudicarsi, e la comunità fa da specchio al Libro perché
senza di essa egli non ha alcun senso.
«La Chiesa non è nata da sé. Dio
stesso l’ha chiamata come Ecclesia, cioè “convocata” dal mondo,
di mezzo agli uomini. Dio stesso l’ha fatta sorgere con questa chiamata
lanciata in Gesù, il Cristo. Per questo la Parola di Gesù Cristo, come
la testimoniano gli apostoli, è la stella che guida la Chiesa. A questa
Parola la Chiesa si rifà, è su questa Parola che deve incessantemente
orientarsi nel disordine e negli errori di questo tempo».1
Chiesa e Scrittura formano un’unità
viva, l’una è generata dall’altra e l’una dà splendore all’altra,
reciprocamente. Tutta la vicenda del popolo ebraico lo sta a dimostrare
e tutta la storia della Chiesa lo ha rilanciato con incessante
creatività. Si tratta di una dipendenza genetica, in quanto il
costituirsi dei credenti in un gruppo con un’identità marcata
avviene proprio a partire dall’iniziativa di Dio di entrare in dialogo
con qualcuno e farlo diventare convocatore e narratore di dialogo.
Vorrei parlare dei presupposti e
delle esigenze da tener presenti per una vera lectio divina. Sono
alcune esigenze teologiche sulla natura stessa della Parola di Dio,
quando l’approccio intende essere un cercare Dio con tutto il cuore e
con tutta la mente. Si tratta di principi teologici che vanno tenuti
presenti, come contesto di un’autentica esperienza di Dio attraverso la
lettura delle divine Scritture.2
Dio convoca con
parole ed eventi
a. «Dio abita una luce
inaccessibile» (1Tim 6,16; 1Gv 4,12.20): solo il Figlio lo conosce e
lo vede, come Gesù stesso attesta (Gv 6,46). È lui il «testimone verace»
del Padre e il mediatore - per chi ha visto e toccato, e udito e gustato
(cf. 1Gv 1,1-3) - per poter avere accesso al Padre e per farsi
«attirare» dal Padre. Dopo che Cristo è salito ai cieli, noi abbiamo
accesso al Padre attraverso Lui grazie all’azione dello Spirito: lo
Spirito è inviato da presso il Padre e ci richiama e rende vivi i fatti
e i detti della vita e rivelazione offerta da Gesù Cristo.
Questo Spirito di santità e di
profezia, che dà la vita, con la sua azione post-pasquale rende la
comunità dei credenti unita in comunione profonda con le Persone divine.
«Cristo ci ha donato il suo Spirito, che essendo unico e medesimo nella
testa e nelle membra, dona a tutto il corpo la vita, l’unità e il
movimento» (LG 7).
Questo è il mistero divino che ci
anima, e che riempie la nostra esistenza. Ma è un mistero che non ci
viene consegnato in un libro composto da fantasiosi scrittori. Il
mistero ci viene consegnato in un libro che raccoglie un’esperienza: è
descrizione parziale, frammentaria, lacunosa di un’esperienza intensa e
inesprimibile, anzitutto vissuta, e poi solo in parte raccontata e
scritta.
b. Il libro sacro è momento della
Parola di Dio. Il nostro Dio è una persona, è il Dio vivente: parla,
ascolta, comunica. Quindi quando diciamo parola di Dio (dabar Jahwé)
dobbiamo intendere molto più che una parola, un suono della lingua e
della bocca. Dabar Jahwé è tutto ciò che Dio rivela: i suoi
progetti, le sue azioni, il suo amore, il suo giudizio, la sua promessa,
il suo silenzio. Si tratta di opere, legge, oracolo: tutto insieme. Si
tratta della stessa creazione, che è parola di rivelazione e di
comunicazione ad extra: infatti per i Padri e i monaci la stessa
contemplazione della natura faceva parte della lectio divina.
Si tratta dell’essere stesso di Dio
nella sua attività ad extra, a noi conoscibile. Ancor più
chiaramente è Dio stesso in quanto agisce e si rivolge ad extra.
Per cui creazione, storia, emozione interiore, tragedie del popolo,
perfino errori, catastrofi, sogni e memoria: tutto è parola di Dio. La
Parola suprema ed estrema troverà la sua pienezza in Cristo Gesù: che è
Dio detto e comunicato nella storia, nella maniera più assoluta e piena.
Dietro e dentro le parole della Scrittura sta infatti il mistero di un
Dio comunicativo: «Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro
e quest’unico libro è Cristo, perchè tutta la Scrittura parla del Cristo
e trova in Cristo il suo compimento».3
Tenendo in mente questo si capisce
come potesse essere pacifico per la mentalità antica venerare le
Scritture con la stessa diligenza con cui si venerava il corpo del
Signore. La Parola umanata è totalmente presente e attiva nelle
Scritture e nel Cristo. Ma uno solo è il Logos, è sempre il
Logos divino che parla nella Scrittura (Origene). Incorporata nella
Scrittura o incarnata in Gesù Cristo, è sempre la stessa parola eterna
del Padre, lo stesso Logos che abita fra noi. Felici gli occhi
che vedono lo Spirito divino nascosto dal velo della lettera. Il testo
realizza una Presenza, non rimanda ad una presenza esterna al testo: per
questo la lectio divina è un impegno senza termine, una opera mai
compiuta dalla vita dell’uomo, perché lo stare alla Presenza non ha mai
termine.
Parola per la
comunità, specchio di comunità
a. La storia della Parola ci
giunge intimamente connessa con la risposta. Perchè la risposta è
esigita dalla stessa Parola. Dio manifestandosi produce, fa, realizza,
mette in atto. Il libro «sacro» rappresenta il momento della
trascrizione «permanente» di un incontro, di un «evangelium scriptum
in cordibus fidelium». Certamente ci sono dei passaggi da tener
presenti, ma senza perdere di vista l’unità di fondo. La Bibbia scritta
è solo l’ultima fase di un lungo iter processuale.
Nelle culture antiche non si
privilegiava la comunicazione scritta, ma quella orale, lo scritto
serviva eventualmente come pro-memoria, ma il vero valore stava nella
«edizione orale», ascoltata e interpretata costantemente. Anche se
rivolta eventualmente al singolo, questa comunicazione era finalizzata
alla comunità, a fare comunità, a creare identità comunitaria
attraverso il narrare e l’ascoltare. Per questo nella tradizione ebraica
il termine esatto non sarebbe «sacra scrittura», ma la «proclamazione» (miqra’),
il che evoca immediatamente una comunità che ascolta la Parola viva (Dt
6,4), che si lascia appellare alla conversione (Sal 95,8), che si lascia
mentalizzare (Esd 7,10), che prende così coscienza delle sue ragioni di
vita e d’identità. Per questo la «proclamazione» non ha un fine in se
stessa, ma diviene plasmatrice di identità comunitaria, memoria che
rilancia il proprio destino verso altri orizzonti.
Le Scritture formano la struttura
più intima del popolo di Dio e della Chiesa vivente: non sono un
prodotto a priori, cui si aggancia il popolo in un secondo momento, come
da fuori. Ma sono espressione del popolo generato attorno alla Parola,
convocato dalla Parola, proclamatore, nel cuore e per iscritto, delle
grandi gesta di Dio. E gli stessi episodi storici, le emozioni vissute e
le epopee gloriose o dolorose, sono narrati con sempre nuovo pathos,
come se fossero ancora in elaborazione, come una storia aperta e vissuta
da sempre nuovi protagonisti: si pensi per esempio ai Salmi, che
riprendono tutti i grandi temi e li rielaborano in maniera poetica,
orante, esortativa, supplice.
Non si può separare la Bibbia dal
cammino della storia (e di un popolo) sotto la guida della Parola. I
libri sacri sono pertanto condensazione del filone sotterraneo del
popolo, sono esplicitazione e tematizzazione della sua coscienza
religiosa. Sono maturati e trasmessi dentro la comunità che spera ed
attende, che ricorda e vive: i testi sono eloquenti e ritorneranno
eloquenti solo se questo contesto è messo in opera.
Questo ci mostrano per esempio le
grandi assemblee: Sinai (Es 24 e 34) con la stipulazione
dell’Alleanza; Sichem (Gs 24; Deut 27) con il rinnovamento
dell’Alleanza dopo il travaglio del deserto e l’entrata nella terra
promessa; la scoperta del rotolo della Legge nel tempio con la nuova
coscienza popolare sotto Giosia (2Cron 34). E infine, forse la
più famosa di tutte, l’assemblea di Esdra con la solenne proclamazione
della Legge e la spiegazione popolare (Esd 8).
Ma bisogna aggiungere anche il ruolo
fondamentale svolto da altri elementi molto noti: anzitutto l’ufficio
sinagogale ogni sabato, con la lettura della Torah e dei Profeti
nel Tempio e nella Sinagoga. L’omelia nell’ufficio sinagogale aveva lo
scopo di attualizzare la parola di Dio nei diversi contesti religiosi e
culturali: da qui vengono le varie elaborazioni targumiche e
midrashiche, che ampliavano in senso storico, esortatorio e
simbolico le tradizioni orali o scritte. Bisogna ancora aggiungere
l’utilizzo dei salmi, come risposta comunitaria, nella celebrazione
liturgica: la loro varietà consentiva una vasta gamma di risposte a
seconda delle circostanze e delle memorie, o anche una reinterpretazione
attualizzata di antiche reazioni comunitarie.
b. La Chiesa (qahal) nel deserto
nasce dalla Parola: c’è un legame stretto tra Popolo e Parola, fin
dal suo nascere. La parola di Dio nel caos preesistente ha creato la
terra e l’universo, nel caos egiziano ha chiamato alla libertà la
moltitudine dispersa e l’ha riunita in un solo popolo, come «proprietà
prediletta». È sulla parola di Dio che Mosé corre il rischio e
l’avventura dell’Esodo.
La «convocazione nel deserto» (At
7,38) - al momento dell’alleanza - avviene sulla base delle Parole:
«Radunami un popolo e io farò udire le mie parole» (Dt 4,10). E dopo che
Mosé ha letto, il popolo accetta l’alleanza «conclusa dal Signore sulla
base di tutte queste parole» (Es 24,7-8). Questa alleanza costitutiva
dell’identità e della storia era ricordata ogni giorno: nello Shema:
«Ascolta, Israele... » (Dt 6,4), nell’incontro sinagogale ogni
settimana, nelle grandi feste pasquali di ogni anno (cf Dt 26: piccolo
credo storico). Nei momenti di crisi si convoca il popolo attorno alla
Parola (cf le assemblee e gli ordinamenti dei libri) e s’implora
misericordia e salvezza secondo le promesse.
Israele era convinto che la Parola
trasmessa, più che un rotolo, era l’espressione e l’esperienza di una
presenza sempre nuova; e quindi il libro era qualcosa di sempre
incompiuto, perchè la presenza non era mai ripetitiva, ma sempre
nuova. Da qui deriva la grande libertà di aggiungere, correggere,
adattare, sotto l’emozione nuova, o la nuova coscienza collettiva. Si
pensi anche solo alla grande rilettura che si chiama deuteronomistica.
Ma esempio classico possono essere sia i salmi, che rappresentano
la storia pregata, sia i profeti che ripetono la storia e la
mettono di nuovo in moto; sia infine il culto, specie le grandi
feste, che hanno un ruolo profetico, simbolico, reale e non solo
rituale.
Ma anche la «nuova qahal» - la
Ecclesia della nuova alleanza - nasce proprio perché Dio raduna -
attraverso gesti e parole, esempi e sofferenze di Gesù di Nazaret, Verbo
fatto uomo - con l’annuncio della prossimità del Regno, l’interpellazione
alla conversione, e il compimento della Legge, non solo i dispersi
d’Israele, ma anche tutte le genti. Quello che noi chiamiamo Nuovo
Testamento non è nato come libri e scrittura, ma anzitutto come
esperienza di convivenza e amicizia con Gesù di Nazaret, ascoltando le
sue proposte, le sue parabole, la sua interpretazione originale della
Legge e della tradizioni. Soprattutto è nata attraverso la
reinterpretazione vissuta della Pasqua, che era il nucleo vitale
dell’identità della prima Alleanza, e che Gesù ha radicalmente
rinnovato.
Dalla comunicazione vitale -
narrativa, parenetica, laudativa, eucaristica, intercessoria – della
buona novella impersonata dai detti e dal vissuto di Gesù, il
Crocifisso risorto e glorificato, prende forma la «nuova comunità». Essa
è comunità comunicativa e narrante, in vista di una comunione vitale con
il Padre del Verbo fatto carne, e fra tutti gli uditori che hanno
risposto all’annuncio. Non solo c’è quindi una continuazione fra Parola
e comunità, ma la stessa comunità ha la caratteristica di essere «serva
della Parola» di fronte alla storia vissuta e tutti gli uomini, e la sua
stessa credibilità dipenderà proprio dalla capacità di essere
incarnazione, trasfigurazione, speranza, comunione generata dalla Parola
ascoltata e vissuta. La comunità nasce e si alimenta dalla Parola, ma
anche la comunità dà carne alla Parola, la fa esistere come efficacia
visibile, come «vangelo scritto non su fogli, ma sulla carne viva» (cf
2Cor 3, 2s).
Originalità: cercare il Volto dietro le parole
Una particolarità ancora vorremmo
sottolineare, e che forse molti non hanno presente: la tipologia della
verità «biblica» ha un carattere tutto speciale. Si tratta di verità
da cercare. Se nella Bibbia noi a volte non troviamo la verità
che cerchiamo o forse troviamo il contrario, e ciò ci sconcerta, forse è
perchè le chiediamo una verità che fa comodo a noi e non prestiamo
attenzione alla verità che essa ci offre.
La verità biblica ha queste
caratteristiche peculiari:
- È una verità di genere semitico:
vale a dire qualcosa di molto concreto, che non è relegabile al solo
livello del pensiero, e che si conquista più con l’amore e l’azione che
col pensarci su. Si ricordi la densità di significato del verbo
conoscere: che vuol dire amare, essere accanto con intensità, avere
un rapporto intimo.
- È una verità religiosa: v’é
cioè una visione del mondo e della storia in cui al centro sta Dio come
essenziale, unico, radice e fine di tutto. Non si tratta di un senso
«religioso» accanto ad altri sensi, ma del nucleo più intimo e autentico
del contenuto, e che ha Dio come oggetto e meta.
- La verità va scoperta:
non è una fotografia istantanea, ma è il tentativo di fissare
l’inesprimibile; magari riprendendolo da sempre nuove angolature, con
rettifiche, integrazioni. Perchè è una verità che progredisce:
Dio si svela e si incide nella memoria dinamica del popolo, attraverso
ondate successive, ritocchi, rielaborazioni. Per cui la Bibbia non è che
l’ultimo tempo di una lunga e complessa attività dello Spirito santo che
consegna - attraverso l’opera di scrittori carismatici, radicati nella
memoria del popolo - tutta la vicenda in Parola scritta: perché nel
tempo non si dimentichino le “meraviglie” operate da Dio per la sua
bontà.
- È pertanto un libro del popolo,
il suo archivio più prezioso e aperto, nel quale Dio continua ad agire
istruendo i suoi figli. È il libro del popolo eletto che proclama per la
sua vita una parola e una memoria di liberazione sempre in atto. Va
accostato perciò con l’animo del discepolato e con la fede in Dio
presente. E bisogna anche farne una lettura sintetica e globale: per
riuscire a cogliere attraverso la sincronia e la diacronia i nuclei
centrali e dominanti, e scoprire nelle particolarità la presenza della
globalità.
Conclusione in
prospettiva di lectio comunitaria
La lettura orante della Parola in
comunità - da non confondere semplicisticamente con i pia exercitia,
come a volte anche il magistero sembra indicare - suscita una sete di
dialogo con Dio, illumina i criteri di discernimento e stimola ad una
conversione esistenziale non puramente moralistica né solo
individualistica. Ma allo stesso tempo è un percorso esigente, che
chiede costanza e perseveranza, un amore appassionato per la Parola come
sorgente pura e perenne di santità e di dialogo orante. Per farla con il
popolo bisogna sforzarsi sempre di entrare come «popolo» nel segreto
della Parola: a piedi scalzi davanti a questo roveto ardente, col volto
chino presso il «santuario» (in ebraico: debir) dove dimora la
gloria. Non si tratta di insegnare qualche cosa al popolo dei
credenti: ma di vivere insieme un’avventura rischiosa e trasfiguratrice,
trasformatrice e adorante, lasciandosi «educare» da Dio come popolo
convocato per una nuova alleanza (cf Os 11,1-4).
Per chi è «esperto» della Parola, non
sempre riesce semplice mettersi in sintonia con la fede incerta e a
volte confusa del popolo: corre il rischio allora d’imporre la propria
teoria, la propria spiegazione, la propria applicazione. Solo ascoltando
con cuore amante la Parola, per poterla davvero poi condividere e
riascoltare con cuore stupito e sguardo contemplativo assieme al popolo,
la lettura orante diviene davvero ascolto orante, dialogo
orante, contemplazione e profezia che squarcia i veli di una storia
opaca, e illumina di immensità le nostre esistenze precarie.
Bruno
Secondin
Pontificia Università
Gregoriana – Roma
Borgo S. Angelo, 15 –
00193 Roma
1. H. Kung, La Chiesa, Queriniana, Brescia 1969,
16.
2. Per più ampie indicazioni rimando al testo: B.
Secondin, Lettura orante della Parola. Lectio divina sui Vangeli di
Marco e Luca, Messaggero, Padova 2003, 13-47; L. Deiss, Vivere la
parola in comunità, Torino 1976; M. Mazzeo, Parola di Dio e vita
dei credenti, Devoniane, Bologna 2003.
3. Ugo di S. Vittore, De Arca Noe, II, 8: PL 176,
642c.
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