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Spesso
si crede che la consacrazione (o anche la vita matrimoniale), una volta
impostata, debba rimanere immutabile e durare per tutti gli anni di
vita; si crede che non abbia più momenti di ripensamento o momenti di
trasformazione. Nulla è più falso.
Se lo stato di vita non cresce con il
crescere della persona si generano fenomeni spirituali che non solo
disturbano l’identità, ma intaccano le relazioni e «corrompono» le
motivazioni. Questi fenomeni più o meno tutti sperimentiamo - anche più
volte - nel corso della nostra esistenza, molto spesso vengono
misconosciuti, quasi mai vengono valutati alla luce della storia della
crescita personale e non vengono nel modo più assoluto collegati tra di
loro nel continuum della vita personale.
Le comunità «frenano»
spesso la crescita personale
Al femminile ciò si rileva più di
frequente, rispetto al mondo della consacrazione maschile, per alcune
ragioni: perché le comunità femminili sono più chiuse al mondo esterno -
nonostante i telefoni e le televisioni -; il lavoro femminile è molto
meno vario e la routine dei lavori di casa è assai più
impegnativa; la convivenza tutta al femminile risulta assai più
controllata, e perfino le obbedienze (date e accolte) sono molto
meno discusse, meno elastiche e meno aderenti alle disposizioni delle
interessate, per nulla comprensive della creatività che ogni donna
possiede.
Anche la struttura spirituale della
donna comporta sempre una modalità di relazioni oggettuali peculiari,
tutte rivolte a creare relazioni, ad interessarsi di problemi umani, ad
avere un desiderio di partecipazione personale che ha un’importanza
rilevante per la crescita al femminile, e che non si dovrebbe mai
stoppare per non «sradicare» la donna dal suo specifico interesse verso
la «maternità». Il pericolo che la donna s’identifichi con la parte
oscura del suo essere, quella che da Jung in poi viene chiamata
animus, è un pericolo reale, che include molto spesso sindromi di
durezza, difensività, distacco, desiderio di potere, prevaricazione
sopra altre più fragili, identificazione con un atteggiamento che
possiamo considerare «maschile» che fa soffrire la donna proprio mentre
la distacca e la rende spinosa.1
Non voglio dire che questa sia la
strada sulla quale camminano tutte le donne consacrate (che per
professione non hanno figli e marito), ma che è un pericolo per tutte le
donne se non si tengono a contatto con la loro parte femminile, che
spesso presenta in prima istanza i bisogni interiori di divenire se
stessa, rimanere se stessa, e crescere fino a maturazione. Nei diversi
momenti della vita questa modalità di sentirsi e percepirsi cambia e
qualche volta diventa «drammatica».
Chi lavora come me da anni con il …
rovescio della medaglia sia del maschile che del femminile (cioè con la
parte inconscia che gestisce le motivazioni e i comportamenti difensivi)
ne è fortemente convinto. Spesso quello che all’esterno appare non
corrisponde a quello che dentro è immagazzinato, ma spesso è una cornice
di apparenza collegata alla formazione ricevuta («io sono come gli altri
mi hanno voluto, ma non sono io quella che voi vedete!...»).
Nelle varie età si
percepisce la vita in modo diverso
Troppe persone consacrate credono che
il punto d’arrivo della loro crescita spirituale sia quello di dover
piacere ai loro superiori, e, di conseguenza, fanno sforzi inutili per
non avere più contenuti personali (tanto meno affettivi, sessuali e di
progettazione di sé...). Ciò però non è possibile e questi loro sforzi
sono destinati a fallire. Purtroppo la struttura in cui le persone
consacrate vivono e lavorano non tiene conto del settore «privato» nel
quale ogni persona è fortemente radicata e dello «spazio personale» in
cui soltanto si può crescere e portare a compimento la propria
personalità, nonostante l’età cronologica.
Il grande psicologo svizzero Carl
Gustav Jung (1875-1961) in un saggio poco conosciuto intitolato Gli
stadi della vita2 afferma che ogni
persona ha un programma interiore da eseguire. Lo imposta in gioventù
(al mattino), lo porta aventi nell’età adulta (il pomeriggio) e lo
perfeziona in vecchiaia (la sera). Se non esegue il proprio programma la
persona non è contenta. Riporto da questo saggio un paio di citazioni
che mi sembrano significative:
«Il conflitto tra le premesse
soggettive e le condizioni esterne non sempre rappresenta l’unica causa
dei problemi; questi provengono forse altrettanto spesso da difficoltà
psichiche intime, esistenti anche quando all’esterno tutto va bene.
Molto spesso è il turbamento dell’equilibrio psichico causato dalla
sessualità, e forse altrettanto sovente, dal senso d’inferiorità a
provocare un’insopportabile sensibilità. Tali conflitti interiori
possono esistere anche quando l’adattamento esterno sembra compiersi
senza difficoltà…(…).
Quando si tenta di estrarre dalla
molteplicità quasi inesauribile dei problemi della gioventù ciò che vi è
di comune e di essenziale, si trova una caratteristica che sembra essere
comune a tutti i problemi di questo stadio (la giovinezza): è un
attaccamento più o meno netto al grado di coscienza proprio
dell’infanzia, è una resistenza alle potenze del destino in noi e
intorno a noi, potenze che vogliono trascinarci nel mondo. Qualcosa di
noi vorrebbe restare infantile, del tutto inconscio, o almeno vorrebbe
non essere conscio che del suo Io, respingere tutto quanto è estraneo ad
esso o per lo meno sottometterlo alla propria volontà; vorrebbero non
fare alcunché o almeno poter realizzare il proprio desiderio o la
propria potenza…La resistenza insorge contro l’espansione della vita,
che è il carattere essenziale di questa fase…».3
Le difficoltà della vita non
disturbano esageratamente, di solito, il programma in via d’esecuzione
nei vari momenti cronologici, perché le motivazioni personali vere si
modificano a mano a mano che le necessità le obbligano a cambiare.
«Il problema viene risolto adattando
le condizioni del passato alle possibilità e alle esigenze
dell’avvenire. Ci si limita a ciò che può essere raggiunto;
psicologicamente è una rinuncia a tutte le altre possibilità psichiche.
Vi sono di quelli che perdono in tal modo una parte preziosa del
passato, e c’è chi perde invece una parte preziosa dell’avvenire […]. I
grandi problemi della vita non sono mai risolti definitivamente. Se essi
a volte lo sembrano, è sempre a nostro danno. Si direbbe che il loro
significato e il loro scopo non siano nella soluzione, ma nell’attività
che infaticabilmente noi spendiamo a risolverli […]. Più si avvicina il
mezzogiorno della vita, più si riesce a consolidarsi nel proprio
orientamento personale e nella propria situazione sociale e più sembra
di aver scoperto il corso normale della vita, gli ideali e i principi
della condotta. Perciò si presuppone il loro valore eterno e si
considera virtù il restarvi sempre attaccati. Si dimentica però una cosa
essenziale: cioè che non si raggiunge lo scopo sociale, se non a scapito
dell’intera personalità. Molta, troppa vita che avrebbe anche potuto
essere vissuta è restata forse nel ripostiglio dei ricordi polverosi;
spesso sono carboni ardenti sotto la cenere grigia… Le statistiche
dimostrano che le depressioni aumentano molto negli uomini attorno alla
quarantina. Nelle donne i turbamenti psicologici nevrotici cominciano
prima…».4
I grandi problemi della vita, secondo
la formulazione junghiana che non possono mai essere risolti una volta
per tutte in maniera definitiva, sono i problemi che hanno tutte le
persone, i problemi della propria esistenza, legati alla salute, alla
crescita, alla culturizzazione (gli studi mai finiti!), alla
partecipazione personale ad un progetto accettato, alla valorizzazione
di sé, ma soprattutto alle relazioni che fanno crescere e sentire «bene»
la persona. Su questa linea si può rimanere felici anche dopo il
«mezzogiorno» della vita, nel pomeriggio, e anche nella tarda sera della
vecchiaia, se la persona ha fatto il passaggio necessario.
«L’uomo non raggiungerebbe di certo i
settanta o gli ottanta anni, se questa durata della vita non
corrispondesse al senso della sua specie. Così il pomeriggio della vita
deve parimenti avere il suo significato e il suo scopo, ma non può
essere una misera appendice del mattino… Colui che trascina così oltre
la prima metà della vita, nel pomeriggio, e per conseguenza oltre il suo
scopo naturale [sistemare se stesso, fare figli e allevarli…], la legge
del mattino, ne subirà danni psichici, esattamente come il giovane, che
vuol conservare nell’età adulta il suo egoismo infantile, paga l’errore
con insuccessi sociali. […]. Per questo tutte le grandi religioni hanno
le loro promesse dell’aldilà, pongono uno scopo ultraterreno da
raggiungere, permettendo così ai mortali di tendere verso una meta nella
seconda metà della vita, come nella prima. […]. Ho osservato (come
medico) che una vita orientata verso uno scopo e, in genere, migliore,
più ricca, più seria di una vita senza scopo, e ho pure osservato che è
preferibile avanzare seguendo il cammino del tempo, anziché volerne
risalire il corso. Per lo psichiatra il vecchio che non vuol rinunciare
alla vita è altrettanto debole e malato quanto il giovane incapace di
evolversi».5
Jung scriveva queste riflessioni
sulla vita che scorre per un pubblico di specialisti interessati alla
salute mentale della gente, imbevuti di pregiudizi antireligiosi e di
materialismo riduzionista, non per persone che avevano fatto della
religione una piattaforma sulla quale si sarebbero potute creare solide
motivazioni soprannaturali.
Il problema era molto sentito nel
mondo scientifico perché qualche anno dopo anche il grande
teologo-filosofo italo tedesco Romano Guardini (1885-1968) affrontava lo
stesso tema nell’ottica cristiana, e pubblicava un libricino poco
conosciuto, scaturito da una serie di conversazioni tenute alla radio
bavarese in quegli anni.6 L’intento del
libro è indubbiamente pedagogico, rivolto a tutti coloro che raggiungono
una certa età e si pongono il problema della vita. Sono riflessioni
filosofiche che prescindono dalla psicologia accademica ma che
raggiungono la stessa profondità delle osservazioni di Jung.
Riporto anche di questo un paio di
citazioni molto belle:
«Queste fasi [le fasi della vita]
sono vere e proprie forme di vita che non si possono dedurre l’una
dall’altra […]. Ogni fase ha il proprio carattere, che si può accentuare
talmente da rendere difficile, a chi la vive, il passaggio alla fase
successiva. Queste difficoltà possono anche cristallizzarsi. In tal caso
si resta in una fase, quando la si sarebbe già dovuta esaurire per
viverne una nuova; pensiamo per esempio all’uomo infantile, che per la
sua età dovrebbe essere adulto, ma mantiene ancora l’atteggiamento
affettivo e il carattere del bambino […]. Le forme di vita, inoltre,
costituiscono figure di valore… [dove] emergono determinati valori che,
contrassegnati da note dominanti, costituiscono gruppi caratteristici.
Esse segnano le possibilità e i compiti morali di una determinata fase
della vita.
In tutte queste fasi è sempre lo
stesso uomo che vive. E non è lo stesso individuo biologico, come capita
con un animale, ma è la stessa persona che ha cognizione di sé ed è
responsabile di quella determinata fase della vita […]. È chiaro come
qui emerga la dialettica delle fasi e della totalità della vita. Ogni
fase è qualche cosa di peculiare, che non si lascia dedurre né da quella
precedente, né da quella successiva. D’altra parte, tuttavia, ogni fase
è inserita nella totalità e ottiene il proprio senso soltanto se gli
effetti si ripercuotono realmente nella totalità della vita.7
[…] Queste fasi costituiscono insieme
la totalità della vita, ma non nel senso che la vita si compone di
queste; la vita è sempre presente: all’inizio, alla fine e in ogni
momento. Essa fonda ciascuna fase, fa sì che quest’ultima possa essere
ciò che è. Inversamente, ogni fase esiste in funzione della totalità e
di ciascun’altra fase; danneggiando una fase si danneggia la totalità e
ogni singola parte [...]. Per altro, ogni fase costituisce una forma
definitiva, ha un proprio senso e non può essere sostituita da nessuna
altra.»8
Le osservazioni di entrambi gli
autori valgono per tutte le categorie di persone, anche per le persone
consacrate, perché lo schema che sottostà è il divenire umano, dal quale
nessuno può prescindere (neppure la persona consacrata).
È necessario che in ogni momento la
persona si mantenga nella condizione di poter «ascoltare» la vita che le
appartiene, che le risuona dentro come un dono ricevuto. Solo così si
possono sentire le mete finora raggiunte (anche se solo vagheggiate o
visualizzate in maniera prospettica) come una conquista personale. Non
ci si deve fare «andar bene ad ogni costo» una situazione che non si
sente più adatta a sé e che non si sopporta.
Confidare sulla
«chiamata»
Di estrema importanza è dunque il
punto di partenza: nella vita consacrata la partenza viene denominata
con parola biblica «chiamata». Nel matrimonio, con parola umana (spesso
abusata) viene detto «innamoramento» o «matrimonio di amore». Nella
persona di vita consacrata il programma d’inizio dovrebbe essere sempre
legato a una «chiamata» (qualche volta anche alla dinamica di
«conversione») che ha escluso altre possibilità di entrare nella vita
con ruoli diversi, e ha messo le basi del progetto di «ascetica
personale». Queste condizioni iniziali non devono mai venir dimenticate,
o a lungo trascurate, ma devono rimanere in ogni momento la piattaforma
sulla quale si possono confrontare gioie, difficoltà contingenti e
disagi relazionali.
Mantenersi nelle condizioni
motivazionali della linea di partenza è un trucco che funziona sempre,
che permette di attingere alla motivazione fondamentale sulla quale è
stata impostata la vita, la motivazione «vera». Solo motivazioni «vere»
permettono la perseveranza, la partecipazione attiva, lo sforzo di
tenere sotto controllo gli impulsi disordinati ecc.; permettono, in
altre parole, di spendere la vita per gli altri e di donare le proprie
energie a un progetto comune. Nella donna consacrata le motivazioni di
perseveranza sono analoghe a quelle della donna sposata e madre, che
gestisce lavoro e famiglia.
La donna reale,
sintesi di una storia evolutiva e di relazione
La persona che giunge alla
consacrazione (o anche al matrimonio) negli anni giovani è punto di
sintesi di tutta una crescita che, di solito, avviene attorno a due
figure molto importanti che si ricorderanno poi tutta la vita: i
genitori. Nascita, crescita degli anni infantili, prima scolarizzazione
e prime relazioni vanno sempre inquadrate nel quadro di questa crescita,
che inizia e porta avanti lo sviluppo della persona, la così detta
personalità.9
La persona che batte alla porta di un
istituto religioso… arriva con una propria storia, e al momento in cui
chiede di entrare ha già alle spalle una serie di esperienze di vita
collegate a questa storia. Porta con sé esperienze svariate, che hanno
contribuito a strutturare in un certo modo la sua persona. Queste
esperienze sono tenute insieme da uno schema corporeo (maschile o
femminile) e da uno schema spirituale, che insieme definiscono e
presentano la personalità […]. Ogni persona ha dunque i propri tempi di
crescita perché i ritmi biologici e le funzioni espressive sono
collegati, fin dall’inizio dell’esistenza, alla modalità di appagamento
dei bisogni che ogni individuo ha sperimentato nelle relazioni con le
figure materna e paterna. La gratificazione che l’individuo ne ha
riportato regola, per così dire, il ritmo della crescita…10
In altre parole: le persone non sono
tutte uguali perché non hanno avuto tutte le stesse modalità
gratificanti nei primi anni di vita. La gestione dei problemi che
s’incontrano nel corso della propria esistenza ha a che fare con queste
modalità «arcaiche», per questo qualcuna reagisce senza ansietà alle
circostanze della vita, qualche altra si scompone nelle stesse
circostanze e non riesce a farvi fronte.
La donna consacrata può certo contare
sempre sulle proprie motivazioni di consacrazione (se agli inizi c’è
stata una «chiamata»), ma deve anche fare i conti con la propria «storia
personale», della quale purtroppo le superiore e le consorelle non sanno
quasi nulla. Anzi nelle comunità religiose (specialmente in quelle
femminili) quasi sempre le consorelle «presumono» che tutte, dal momento
che hanno emesso i voti perpetui, devono aver risolto i propri conflitti
interiori in maniera standard e che non siano più sottoposte a
cambiamenti interiori: quindi devono fare quello che si «deve» fare,
cioè quello che l’obbedienza impone.
La storia personale invece colorisce
di una peculiarità individuale ogni attività che s’intraprende: qualche
volta questo colorito è una vera e propria «risorsa», ma più spesso è
una limitazione considerevole che contrasta con il lavoro e il ruolo
«assegnato». Dovremo quindi chiederci: quando il colorito personale può
diventare una risorsa che porta a completamento la personalità, offrendo
risorse pulite e spendibili in ogni circostanza? E ancora: quando invece
è una limitazione che blocca la crescita e disturba il fluire delle
energie?
Non lo si può determinare a priori,
ma bisogna coglierlo leggendo appunto la storia personale di ognuna. Il
criterio diagnostico positivo è l’equilibrio e la gioia che ognuna
presenta. Gli atteggiamenti positivi, i quali dicono che la persona sta
bene e fa fronte alle difficoltà legate all’età, alla crescita e alle
circostanze, sono: capacità lavorativa, capacità di dormire, mangiare,
digerire, capacità di riposarsi, buone relazioni, interessi verso
l’esterno, aggiornamento professionale, partecipazione alla comunità...
Viceversa sono criterio diagnostico
negativo le continue crisi e la tristezza interiore: gli atteggiamenti
che vi corrispondono sono i più svariati e ogni comunità li ha sotto gli
occhi quotidianamente.11
Costruire sopra
motivazioni vere
Forse al profano suona teorica
l’affermazione che bisogna costruire sopra motivazioni «vere». Il senso
di tale affermazione è quello di non illudersi che si possa rimanere
contenti/e e continuare lo sviluppo spirituale se il punto di partenza
non è autentico o vero, o se la crescita non va nella direzione del suo
completamento. A quale prezzo la persona si adatterebbe ad una serie di
relazioni infelici che la costringerebbero ad essere quella che non è,
ambigua con se stessa, alla ricerca di un qualche cosa che non si
concilia con il proprio stile di vita? Uno sforzo continuo (anche fatto
con estrema buona volontà) sopra una motivazione inesistente o spuria
logora presto la persona e introduce dinamiche compensative o malattie
psicosomatiche.
Gli esempi sono numerosi e
dall’esperienza clinica se ne potrebbero scegliere decine e decine.12
Non si può vivere in uno stato di vita consacrata (che comporta il voto
di castità, di obbedienza, di povertà) quando si sarebbe voluto vivere
una vita «normale», in comunione con un uomo o allevare figli (esempi
classici sono la Monaca
di Monza di manzoniana
memoria, e la Suor Angelica
dell’opera pucciniana).
Costruire sopra motivazioni inesistenti o spurie significa disturbare
tutta la crescita e vivere in modo infelice tutta la vita. La «chiamata»
ad una vita consacrata non dovrebbe mai portare, di per sé,
all’infelicità: dovrebbe essere sentita come un dono che Dio fa alle
persone che ama, e su questo amore - ricevuto e ricambiato – s’innestano
le motivazioni che altrove ho chiamato «soprannaturali».13
Costruire sopra motivazioni vere può
comportare anche sacrificio e rinuncia, ma fatte per scelta d’amore
verso Dio, secondo lo slogan di S. Agostino, diventano anch’esse
amore.
La donna ideale
suggerita dai modelli formativi
I modelli formativi che in ogni
Istituto vengono proposti a chi entra sono veramente modelli «ideali» (o
se si vuole «virtuali»), cioè staccati dalla persona concreta. Sono
stati elaborati sul carisma dei Fondatori, vengono spiegati in modo
radicale e vengono proposti come mete da realizzare con sforzo e
costanza. Qualche volta il carisma dei Fondatori corrisponde pienamente
agli ideali e alla tolleranza evangelica, ma altre volte è «radicalizzato»
dallo sforzo ascetico dei Fondatori stessi, legato troppo alla
situazione storica di allora e non adeguato (o non più adeguato) alla
società attuale.
La donna o l’uomo ideali vagheggiati
dalle Costituzioni non esistono: ogni membro di un Istituto incarna
l’ideale in qualche modo, come meglio riesce, e lo realizza nel corso
della sua vita secondo le connotazioni della propria personalità,
conformate e misurate sulla propria storia, anche se spesso assai
modificate dalla generosità di corrispondenza alla grazia di chiamata.
La traduzione dei modelli religiosi
per i tempi attuali è comandata dal Vaticano II (Perfectae charitatis
8, 18, 20…) a tutti gli Istituti, ma non sempre è realizzata in modo
soddisfacente, perché filtrata dal «magistero» di ogni Superiore
legalmente eletto, e forse anche per timore che la persona consacrata -
specie se donna - non si adegui più al modello «ideale» dei Fondatori
riproposto dalle Costituzioni.
Questo tema tocca il capitolo della
formazione ed è oggetto di contrasto e di diffidenze sia da parte
dei Superiori che da parte di consorelle (confratelli) anziani che hanno
fatto della Regola uno scudo o una trincea da combattimento.
Percorso complicato
sempre tra verità di sé e idealità
Ogni persona che raggiunge una certa
età in seno ad un Istituto religioso ha fatto indubbiamente su di sé uno
sforzo di perseveranza che la comunità come tale riconosce poco. Spesso
non riconosce affatto tale sforzo ascetico, perché non lo immagina
proprio, o forse perché lo «snobba» considerandolo cosa normale, dovuta…
Qualche volta l’atteggiamento della comunità offende la persona e la
rattrista perché nelle circostanze esterne vede spegnersi il proprio
contributo tra l’indifferenza di chi non l’ha conosciuta, quando era
prestante e più giovane. Se non si sente fluire dentro di sé la vita
nella sua fase adulta o di tramonto, la persona soffre e si deprime
perché non ha «terminato il suo programma»: sente che nel momento della
vita in cui si trova non ha adattato se stessa alle motivazioni profonde
relazionate alla «chiamata» (come ai tempi della giovinezza: cf Os
2,16-19), sente che avrebbe ancora qualche cosa da fare, da dare o da
capire, sente che è scollegato il presente dal passato… Tutto ciò
appartiene al mistero della perseveranza e della crescita spirituale.
Concludo con una bella ammonizione
del Guardini:
[Una crescita completa] anche secondo
una prospettiva sociologica e culturale, dipende dalla comprensione
dell’importanza che assume, nel contesto della totalità della vita,
l’uomo che invecchia; dal superamento del pericoloso infantilismo per il
quale soltanto la vita giovane ha valore per l’uomo; molto dipende
ancora dal fatto che l’immagine che ci facciamo dell’esistenza contenga
la fase della vecchiaia come elemento di valore e che di conseguenza
l’arco della vita diventi completo, senza invece limitarsi ad un
frammento e considerare il resto come cascame. Egli allora resta in vita
biologicamente e diventa un peso sia per sé, sia per chi gli è attorno.
Ne consegue però che la comunità deve da parte sua dare a chi diventa
vecchio la possibilità di invecchiare nel modo giusto, perché questo
solo in parte dipende da lui…14
Note
1.
Questa problematica è stata abbastanza studiata nell’approccio
psicoterapeutico junghiano. Rimando per una conoscenza alla monografia
della moglie dello stesso Jung: E. Jung,
Animus e anima, Boringhieri, Torino 1992. Cf ancora: M. Valcareggi, L’aggressività femminile, Mondatori, Milano
2003.
2.
C. G. Jung, «Gli
stadi della vita» (op. orig. 1930), in Opere complete,
Boringhieri, Torino 1976, VIII, 410-432.
3.
Idem,
421-422.
4.
Idem,
423-424.
5.
Idem,
428-430.
6.
R. Guardini,
Le età della vita
(orig. 1957), Vita e pensiero, Milano 2004.
7.
Idem,
33-34.36.
8.
Idem,
82.
9.
Ho sviluppato questi concetti in modo più completo di recente in
un volume che tratta un poco di tutti i problemi che una persona
consacrata (e non) può incontrare nella vita. Rimando per tanto al mio:
U. Fontana, Senza perdersi, professionalità nelle
relazioni pastorali, Messaggero, Padova 2005.
10.
Idem,
1457-158.
11.
Qualche anno fa ho sviluppato questo tema in un fortunato libro
(ora purtroppo esaurito): U.
Fontana, «Dinamiche di crisi nella vita consacrata: criteri per
impostare una psicoterapia corretta»,
in Pina Del Core (a
cura di), Difficoltà e crisi nella vita consacrata, Elledici,
Torino 1996.
12.
Ciò avviene quando nella vita consacrata si entra per entusiasmo,
per frustrazione, per obbligo, perché spinti da formatori che
«garantiscono»
loro della chiamata, per far contenti genitori e per ripicca ecc.
La casistica che ho osservato al consultorio delle crisi con i
religiosi/e è copiosissima. Qualche cosa ho detto nel libro citato
sopra: Difficoltà e crisi nella vita consacrata (83-90 e
147-165).
13.
Rimando alla monografia che ho scritto in occasione del
centenario della morte di Don Bosco (e anche del mio cinquantesimo
compleanno): U. Fontana, Uomo e consacrato, Elleici, Torino 1988.
14.
R. Guardini,
Le età della vita,
106
Umberto
Fontana
Istituto Salesiano S. Zeno
Via D. Minzoni, 50 – 37138
Verona
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