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La
Sacra Scrittura è ricca di storie di conflitti, di contrasti aspri, di
divisioni. Gli esempi potrebbero essere infiniti: a cominciare dalla
«paura» di Adamo dopo la disobbedienza nel Paradiso terrestre (Gen
3,10), con la conseguente «inimicizia» tra la stirpe di Eva e la stirpe
del serpente (Gen 3,15 ), e passando per la invidia rabbiosa di Caino di
fronte al fratello Abele (Gen 4,1-8). E poi via via scorrendo la storia
sacra si può dire che quasi non v’è pagina che non mostri la fatica di
andare d’accordo, il moltiplicarsi di riconciliazioni e di rotture, di
alleanze e di tradimenti, di banchetti di pace e di violenze barbare.
Spunti frammentati
dalla Bibbia
Episodi singoli ce ne sono senza
numero, ma nella Bibbia troviamo anche esperienze collettive più ad
ampia prospettiva. Il diluvio universale non è forse il frutto di un
conflitto fra progetti di Dio e perversione umana, che non diviene più
sanabile se non con una purificazione realizzata in maniera traumatica (cf
Gen 6,5-7)? Eppure già dopo il diluvio, nella stessa cerchia familiare
di Noè riappaiono i conflitti tra i suoi stessi figli, davanti al padre
ubriaco (Gen 9,18-25). E anche Abramo dovrà ricomporre la pace nella sua
parentela, separandosi da Lot, per non far incancrenire le tensioni
claniche (Gen 13,7-9). E la rottura traumatica fra Esaù e Giacobbe
rappresenta una tragedia che costa cara ad entrambi e vede la madre
addirittura fautrice della divisione, più che riconciliatrice (Gen
27,1-44)). Ma anche il grande Mosè ha ben da fare per tenere a bada una
turma di schiavi che non sanno liberarsi dalle proprie abitudini rissose
e non riescono a ripensare in modo creativo l’appartenenza ad una storia
unica con Dio.
Per saltare all’attività dei profeti,
essi spesso si trovano in mezzo a conflitti per dirimere tensioni e odi,
ma anche per far guardare più avanti, verso orizzonti meno tribali, e
riconoscere davanti a Dio una continua rottura, da parte del popolo,
delle esigenze dell’Alleanza. Samuele si trova a gestire gli inizi della
forma monarchica di governo, con la scelta prima di Saul e poi di
Davide, ma talora si impiccia un po’ troppo nella politica, rendendosi
la vita difficile e creando qualche problema anche ai re. Natan
rassicura Davide sui favori di Dio per il futuro della sua discendenza
(2Sam 7,1-17), ma non sa riconoscere nel progetto della costruzione di
un luogo centrale di culto, anche una manovra politico-religiosa per
tenere unite le tribù mediante un simbolo centrale di forte suggestione
religiosa.
Elia ha un bel gridare contro
l’idolatria del Regno del Nord, dove la regina Gezabele manipola il
debole Acab e lo porta a compiere atti violenti e ingiusti, che il
Signore punisce nelle generazioni future. E nonostante tante battaglie
furibonde neppure Elia riesce di fatto a mettere insieme il popolo sotto
l’unica alleanza di Jhwh. Il primo Isaia getta allarmi da tutte le parti
contro lo sfacelo della situazione socio-religiosa del regno del Nord,
come del resto più tardi faranno un grappolo di profeti alla vigilia
della deportazione della popolazione del regno del Sud, ma le tragedie e
le divisioni sembrano andare avanti in maniera inarrestabile.
Eppure nel contesto dell’esilio e
nell’immediato post-esilio, sono proprio i profeti che riescono a tenere
desta la coscienza collettiva di avere un destino che supera ogni
catastrofe (cf Is 40-55) e chiedono una rinascita radicale di fiducia e
solidarietà reciproca. Il lavoro di animazione e di consolazione di
Esdra e di Neemia, ma anche del terzo Isaia, di Aggeo, Zaccaria e altri
profeti, tengono a malapena uniti gli animi, in un contesto
socio-politico di frantumazione e rimescolamento delle attese e delle
memorie.
Possiamo leggere la storia della
prima alleanza proprio come una continua ricucitura di legami che
sembrano non trovare una forma di stabilità. Conflitti su conflitti si
sommano e incancreniscono il vivere solidale e il senso di identità. È
come se tutto venisse sistematicamente messo in discussione, provocato a
tensione disgregatrice, ricucito a malapena. Alla vigilia dell’avvento
del Salvatore promesso, la popolazione erede delle promesse e
dell’alleanza è quanto mai frantumata nel territorio e nella
disgregazione sociale, con una molteplicità di forme di emarginazione
sociale e religiosa che colpisce varie categorie di persone, e con delle
forme associative spontanee spesso rissose e aggressive.
Alla luce di questo si può capire
l’intensa attività di Gesù nel rompere le barriere legali, religiose,
culturali, nel dissacrare i tabù religiosi elevati a precetti divini,
nel continuo mettere in gioco come esempio e come protagonisti proprio
le vittime della discriminazione, per creare una società meno aggressiva
e più integratrice. I suoi miracoli, come il suo insegnamento verbale, i
suoi gesti come le sue frequentazioni, sono spesso segnali forti per una
rottura instauratrice di nuove relazioni, per una riconciliazione
dinamica, una vera e intensa shalom.
Ma anche con i suoi stessi discepoli,
Gesù deve spesso operare per una ricucitura dei conflitti che sorgono
fra di loro, oppure con lui stesso. È il caso per esempio della
discussione sui primi posti nel Regno (Mc 10,35-45), che i due fratelli
boanerges vorrebbero riservarsi a scapito degli altri, i quali
«si sdegnarono con Giacomo e Giovanni». Ma è anche il caso ancor più
complesso della ricostruzione del gruppo e della riconciliazione fra il
Maestro e i discepoli dopo la disgregazione della passione. Quei
quaranta giorni (almeno secondo Luca) che Gesù dedica loro con dialoghi
e apparizioni, sono segno di una guarigione dalle paure, dalle angosce e
dai conflitti reciproci. E forse non erano del tutto guariti quando Gesù
salì al cielo, ma a loro lasciò lo stesso in eredità la propria
missione, senza pretendere garanzie eccessive.
Un esempio dalla
Chiesa primitiva
Vorrei portare un esempio di gestione
intelligente e ben riuscita dei conflitti, come ci è presentato in un
episodio molto noto della Chiesa primitiva: la scelta dei primi sette
diaconi (At 6,1-7). Il testo parla esplicitamente di una
mormorazione (gonghysmòs), cioè un malcontento che avvelena i
rapporti nella comunità. Il fatto concreto, almeno secondo il testo,
consiste nella disparità di attenzione alle esigenze delle vedove degli
ellenisti, rispetto a quelle degli ebrei. E ciò irritava gli ellenisti:
ma probabilmente questa era solo la punta di iceberg, di una
sensibilità che riguardava molti altri aspetti, qui da Luca sottaciuti.
Luca vuole mostrare l’emergere del
protagonismo degli «ellenisti», cui lui stesso apparteneva, come
un’evoluzione pacifica e senza grossi traumi. In realtà la transizione
non doveva essere del tutto idilliaca, come vari segnali qua e là sparsi
nel testo degli Atti e nelle lettere paoline ce lo mostrano. Di fatto
gli ellenisti si sentivano a disagio anche per la chiusura culturale del
gruppo dei Dodici, così legati alle tradizioni ebraiche e alla lingua
ebraico/aramaica che si usava nelle sinagoghe, anche se di fatto gli
ellenisti avevano pure delle loro assemblee nella loro lingua, ma erano
ininfluenti sul complesso. Eppure delle personalità stavano per
emergere, di grande qualità fra gli ellenisti, e il malcontento
ha offerto l’occasione per venire alla luce da protagonisti.
Torniamo al nostro testo. Intanto
Luca aveva già accennato ad altri momenti meno sereni in comunità, come
lo scandalo di Anania e Saffira che avevano trattenuto parte del
ricavato dalla vendita di un podere (At 5,2), ma c’era anche il disagio
provocato dagli arresti di Pietro e Giovanni, che impedivano una
gestione serena e ordinata. E poi la crescita tumultuosa e disordinata
dei credenti aveva bisogno di una supervisione che non si poteva
improvvisare. Questo «malcontento» però appare agli occhi dei Dodici
come una opportunità per chiarire meglio anzitutto le proprie
responsabilità e il proprio ruolo. E per prima cosa hanno riconosciuto
che c’era un fondamento di verità oggettiva, anzi che una parte della
colpa apparteneva a loro: «Non è giusto che trascuriamo…».
Una autocritica che lascia di stucco,
e che ben difficilmente si sente echeggiare nelle nostre assemblee
ecclesiali. Non danno la caccia a chi ha sempre da criticare, ma
sinceramente trovano difetti nel proprio agire e confessano anche
le proprie colpe e confusioni. E da qui parte un processo di migliore
comprensione della propria identità, ma come conseguenza di una nuova
responsabilità altrui.
Danno la precedenza al nuovo
protagonismo: «cercate, fratelli, tra voi sette uomini… Noi invece ci
dedicheremo…». Non si aggrappano ad una porzione di autorità e concedono
ad altri una briciola, ma senza perdere troppo. La nuova responsabilità
è detta con tutta chiarezza e stima: «ai quali affideremo questo
incarico», e poi viene affermato il proprio ruolo, come un compito non
«diminuito», ma meglio focalizzato e gestibile: «Noi invece ci
dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola».
Non si tratta di scaricare su altri i
propri doveri, ma di riconoscere che c’è spazio e responsabilità per
tutti; bisogna avere il coraggio di condividere e di chiamare a
corresponsabilità. E l’assemblea allora non si è sentita accusata di
fare le «solite critiche», di lasciarsi influenzare dai soli
«scontenti», ma anzi incoraggiata a mettersi alla ricerca dei veri
leaders per quel nuovo compito, da compiersi con saggezza, senso di
fede e di onestà.
All’onestà dei dodici risponde
l’assemblea con altrettanta onestà, ma anche con coraggio: i sette nomi
sono tutti «greci», ad indicare che di fatto la minoranza viene ad
assumere un ruolo nuovo, non puramente complementare. E di fatto questi
saranno uomini che non si limitano al servizio delle mense, ma Stefano
sarà un predicatore di forte personalità e il primo martire della
giovane comunità. Mentre Filippo sarà il primo missionario itinerante,
che porterà la buona novella in Samaria e poi anche verso le terre
lontane, con il battesimo del funzionario etiope sulla strada di Gaza.
Per imparare qualche
cosa di utile
Vorrei indicare da questo episodio
alcuni criteri utili per i nostri conflitti, in un mondo che cambia e
rimescola culture e urgenze.
Anzitutto saper intuire che dietro
certe «mormorazioni» ci possono essere delle motivazioni molto serie e
gravi, come appunto lo sono le differenze culturali. Sembrava un
pretesto un po’ fanatico e puntiglioso, era invece un malessere più
ampio e profondo, che esigeva un esame serio e coraggioso, in cui i
primi ad essere chiamati a verità erano proprio i capi, i quali invece
presumevano di fare tutto da soli e a loro modo. Mettere a fuoco le
motivazioni implicite di certi malcontenti aiuta a prendere
soluzioni adeguate e corrette. Purtroppo spesso invece si vedono
reazioni difensive e ottuse, rifiuti di mettersi in discussione, bilanci
senza il minimo senso di autocritica onesta.
In secondo luogo la gestione del
conflitto è fatta con creatività: superando la paura di perdere
autorevolezza e controllo, hanno riconosciuto che era anche per loro
l’occasione di comprendere meglio la propria funzione e identità. E poi
che una concentrazione sul proprio ruolo specifico rendeva più credibile
ed efficace la guida, senza la presunzione di avere le qualità per tutto
e per tutti. Ma allo stesso tempo, proprio grazie alla propria
esperienza, potevano dare dei criteri per una selezione dei
collaboratori che rispondesse alle vere esigenze di quel servizio, che,
pure se male, avevano svolto con serietà. Le tre indicazioni sulle
qualità di questi «servitori» indicano dei profili dove non entrano
interessi di conservazione e di controllo: e l’assemblea ha risposto con
coraggio e piena autonomia. E i Dodici hanno accettato le scelte con
fiducia e piena solidarietà, imponendo le mani sui nuovi
corresponsabili.
Le nuove esigenze spingevano ad avere
il coraggio di inventare nuovi ruoli, nuovi stili, nuovi servizi stabili
e autonomi. E senza che per questo ai nuovi «scelti» fosse imposto di
stare a quel ruolo specifico e non ficcassero il naso altrove. Anzi -
come si vede dalla vicenda di Stefano e di Filippo - questi «diaconi»,
specializzati per le mense, si sentono allo stesso tempo corresponsabili
per tutte le esigenze della buona novella, e nessuno li rimprovera di
uscire dal recinto loro assegnato. Da parte dei diaconi e da parte dei
Dodici c’è chiara coscienza che il compito «generale» della Chiesa è
impegno di tutti e non monopolio di un gruppetto o di una élite di
specialisti.
Conclusione
Abbiamo fatto solo degli accenni
veloci sulla vasta miniera biblica e visto un po’ più da vicino
l’episodio del malcontento nella Chiesa primitiva che porta alla
scelta dei sette diaconi. Possiamo comunque concludere con alcune
indicazioni più generali.
I conflitti non sono una malattia,
molto spesso sono una situazione fisiologica di crescita, di
adattamento, di evoluzione e vanno quindi gestiti e non semplicemente
soppressi o demonizzati. Ci vuole saggezza, intuizione, diciamo di più,
ci vuole il «discernimento» per interpretare e gestire bene, in modo che
ne vengano dei progressi, e non delle involuzioni o delle cancrene.
Non temere di mediare quando si
tratta di esigenze che sembrano contrapporsi: la mediazione può essere
compromesso indecoroso e frutto di ignavia, ma può anche essere segno
della capacità di distinguere essenziale e secondario, urgenze e
tendenze, responsabilità e corresponsabilità. La mediazione non deve
però piombare dall’alto come «chiusura» d’autorità del problema e del
malcontento, ma deve essere frutto di sapienza e ricerca, apertura
mentale e accettazione della provvisorietà, nella fiducia reciproca.
Lasciare infine aperti gli spazi per
ulteriori evoluzioni: ogni conflitto risolto non toglie di mezzo futuri
altri contrasti, bisogno di ripensamenti e di equilibri nuovi,
sofferenze e fatiche. Proprio gli Atti degli Apostoli mostrano questo
con evidenza inconfutabile. Quella prima mediazione dovrà ripetersi in
altre circostanze e con coraggio ancora maggiore, come mostra il
Concilio di Gerusalemme. E come dimostrano, in ogni epoca della storia
della Chiesa, le ricorrenti tensioni fra centro e periferie, fra culture
e sensibilità, fra linguaggi e istituzioni.
L’avventura antropologica e culturale
della Chiesa primitiva - ma anche di tutt’intera la vicenda biblica,
nelle sue molteplici stagioni - dimostra che l’insorgenza dei conflitti
è una terapia sana per situazioni che a volte rischiano di perdere
vigore e creatività. E che la loro soluzione va gestita di volta in
volta e non imposta né improvvisata, e tanto meno ricopiata
pedissequamente dal passato.
Bruno
Secondin
Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 –
00193 Roma
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