 |
 |
 |
 |
Quando mi assale la
malinconia e niente riesce a sottrarmi ad essa, quando sono sola e
tagliata fuori dal resto del mondo, separata, so cosa debbo fare. Apro
un libro di poesia o un libro sacro e parto alla ricerca della frase che
darà alle mie gambe il formicolio di uno strano rapimento».1
Per alcuni aspetti l’esperienza del
silenzio e della preghiera nella Bibbia, l’incontro tra silenzio e
parole umane, silenzio e Parola divina, sono narrati come una realtà a
volte di sofferenza rigenerante, a volte di maturazione dello stupore,
sempre necessari in ogni crescita autenticamente umana. La Parola di Dio
non può essere funzionale agli stati d’animo di ogni singolo uomo, però
sa mettere in luce, in quanto storia di alleanza e d’incontro, di lotta
e attesa, il senso di molte vicende grigie o insignificanti.
Un tema complesso
C’è tanta paura della pausa, del
silenzio: perchè? Non è difficile accorgersi che molti di noi soffrono
di horror vacui, quell’incredibile malessere che assale,
quando tutto tace e si è quasi spinti a guardare in faccia alle cose
finite e a quelle che appaiono infinite.
La stampa, i media, il modus
vivendi comune, non aiutano a dare un senso a dimensioni
dimenticate. I padri chiamavano statio una forma di quiete: il
desiderio di non preoccuparsi troppo delle cose, per prepararsi alla
preghiera.
Perché tanta enfatizzazione dei media
sui silenzi di viltà, di omertà e di divisione e così poco spazio a quel
silenzio che è luce capace di generare parole trasparenti e luminose?
Perché in molte celebrazioni ecclesiali si fa tanto rumore, come se si
potesse pregare solo parlando o suggerendo a Dio, così come agli idoli?
Cosa fare e in che direzione andare?
L’orante in alcuni testi biblici
intuisce la speranza, che sta lì dove si attende l’aurora e si accolgono
nuovi segnali (Sal 63). Sappiamo che nel leggere e meditare la Parola
ognuno interpreta anche la propria storia, con emozioni e linguaggio
personale.
Nel parlare della preghiera e del
silenzio nella Bibbia, inoltre, bisogna vigilare sulla tentazione di
cercare definizioni teoriche, perché non è tipico della mentalità
semitica formulare teorie. Esiste poi una sorta di discrezione
dell’animo quando dobbiamo occuparci di questi temi: avvertiamo un
disagio interiore che ci rende consapevoli della particolarità
dell’argomento. Il cardinale Martini afferma: «… mi pare che la
preghiera sia una realtà di cui non si possa parlare».2
Aspettare in silenzio
Nella Sacra Scrittura la preghiera è
presente come esperienza di relazione. Quando preghiamo non siamo soli:
c’è un Tu al quale volgiamo lo sguardo e porgiamo l’orecchio. Ci sono
poi, tutto il cosmo e la sua storia: i dolori e le gioie di un popolo in
cammino. E, come in ogni relazione, nella preghiera biblica il silenzio
è ascolto, attesa, stupore.
Bisogna ritrarsi sempre un po’ quando
si prova ad ascoltare, occorre aprire uno spazio, in qualche forma fare
esperienza del dono. Per l’uomo non sempre ciò significa gioia
immediata. È significativo che la mistica ebraica parli della Simsun,
il ritiro di Dio dalla creazione, perché possa dispiegarsi
liberamente il mondo ed esprimersi. «Il silenzio nella Bibbia acquista
un valore positivo e umanizzante soltanto quando, quale moto interiore
che scaturisce di fronte all’ignoto, predispone a cogliere il mistero
dell’alterità, quando favorisce la comunione, quando è espressione
dell’apertura dell’accoglienza dell’altro e soprattutto dell’Altro».3
Come nella vita, così nella Bibbia,
ci sono silenzi e preghiere non assimilabili tra loro. C’è il silenzio
dell’incomunicabilità e della divisione che genera l’odio (Gen 37,4),
c’è il silenzio del dolore e del pianto collettivo (Lam 2,10). Mentre
nel primo l’uomo tace perché è prigioniero di se stesso, nel secondo
l’uomo tace perché tacendo prega: invoca il perdono e la vita.
Il silenzio orante in alcuni testi biblici esprime il desiderio
di «affidarsi» anche
in situazioni drammatiche dal punto di vista umano, nelle quali
l’esistenza sembra svuotata di senso, colpita dalla tragedia, ma
sorprendentemente animata dalla volontà di riprendere a vivere.
Troviamo un passaggio interessante e
suggestivo nelle Lamentazioni. Sembra la fine: Gerusalemme parla
attraverso il frastuono dei suoi palazzi distrutti (Lam 2,5), i bimbi
muoiono nel grembo delle madri, quasi inghiottiti dall’abisso (Lam
2,11). Tutto sembra parlare solo di
distruzione: «Siedono a terra in silenzio gli anziani dei figli di Sion,
hanno cosparso di cenere il capo, si sono cinti di sacco, curvano a
terra il capo le vergini di Gerusalemme» (Lam 2,10). Si sperimenta la
difficoltà di una comunicazione fatta di parole ormai poco credibili, ma
l’assenza di parole diventa supplica, pianto, dunque preghiera!
È un silenzio orante e iniziatico,
che conduce fuori di sé per guardare in un’altra prospettiva, è l’esodo.
Commenta S. Baez: «Gli anziani con il loro silenzio accettano di
meritare la morte a causa del peccato e l’assumono; riconoscendo le loro
colpe e accettando la morte dell’esilio, esprimono la loro fede nel Dio
della vita nel momento della sofferenza».4
Un sofferenza che non uccide la
speranza della Pasqua: «Le misericordie del Signore non sono finite» (Lam
3,22). «Buono è il Signore con chi spera in lui, con l’anima che lo
cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (vv.
25-26). «Sieda costui solitario e resti in silenzio, poiché egli glielo
ha imposto» (v. 28).
Gli occhi di Gerusalemme sono pieni
di lacrime (Lam 1,16), ma dal suo silenzio s’intravede la speranza: è la
Pasqua! «La salvezza è quella esultanza interiore che deriva dalla
certezza dell’amore di Dio. Di conseguenza, vi è anche un nesso molto
stretto tra la salvezza e la preghiera, perché la preghiera è un altro
modo per dire la nostra fiducia in Dio che mi ama e mi ama
personalmente».5
Gettare un’arcata
Nell’ora in cui abbiamo fatto di
tutto per far tacere la misericordia del Signore, spezzando il legame,
il silenzio apre le imposte alla Luce! A. Neher parla del Dio dalle
arcate spezzate: sull’abisso che ci separa da Lui, ci lascia la
possibilità di gettare un arco. Un arco che non sempre è fatto di
parole, a volte di gesti, altre di lacrime, altre ancora di silenzio: è
il mistero dell’incontro al quale in modo semplice si può dare il nome
di preghiera.
Una forma di preghiera che può
sembrare insolita, ma questo silenzio apparentemente tenebroso sembra
esprimere una distanza profonda tra la vita umana e Dio, permette
all’oscurità di schiarirsi e assumere altre sembianze, quelle del
silenzio mattutino, quando si attende l’aurora che permetterà di vivere
eventi nuovi.
E questo nuovo giorno si apre nel
testo con una presa di coscienza che bisogna andare oltre, dunque
convertirsi, chinare il capo e tacere, implorando il cambiamento. Con le
parole del salmista possiamo dire: «Sta in silenzio davanti al Signore e
spera in Lui» (Sal 37,7).
Il salmista fa intuire che l’amore si
nutre anche del silenzio, e lì dove sembra esserci una resa c’è invece
apertura alla comunicazione, attesa della misericordia del Signore. Una
misericordia che si conosce come duratura, fedele, salvifica. «Poiché
nella parola è evidente la sua provenienza proprio dal silenzio, e la
voce della parola è al tempo stesso destinata a tacere, non si può
insomma né pronunciare né ascoltare parola se non “dal silenzio” e “nel
silenzio”».6
Nell’amarezza
Se la preghiera nella Bibbia è lode,
supplica, pentimento, gratitudine, lamento, ha cioè una moltitudine di
sfumature, come pensare all’esperienza paradigmatica di Giobbe? Una
storia così dura che sembra sfiorare l’assurdo, come tante storie umane,
dove il dramma della sofferenza si consuma sulla pelle degli innocenti.
Se non partiamo da una concezione della preghiera semplicemente come
momento rituale, il testo sacro ci mostra come la vita del credente
stesso può essere preghiera silenziosa, o preghiera gridata, urlata,
silenzio amaro.
Ogni uomo compie un suo percorso.
Giobbe ad un certo punto «si mette la mano sulla bocca» (Gb 40,4),
comincia cioè a stupirsi; si tratta di uno stupore che nella vita spesso
ci appare come l’unica via d’uscita, quasi obbligatoria. Eppure da quel
gesto nasce un dialogo con il suo go’el fatto di silenzio
e parole, fino a quando lo scontro si tramuterà in incontro e visione.
Le parole che Giobbe pronuncia davanti a Dio esprimono un suo
cambiamento interiore di riscoperta del mistero.7
Possiamo dedurre che nella fatica di riconciliazione che Giobbe vive con
se stesso, con gli altri e con la sua «idea» di Dio, c’è un vero
percorso di iniziazione alla preghiera, intesa come un mettersi alla
presenza di Dio accettando e rispettando la Sua libertà: un’esperienza
umanamente delicata.
Come Giobbe, ogni credente, nel
dialogo con il Signore, precipita nel paradosso di dover accettare che
l’unica via di scampo è disporsi al cambiamento, quello difficile, che
si vive quando ciò che si è sempre pensato è incredibilmente opposto
rispetto a ciò che bisognerà pensare o vivere. Ed è in questo dover
andare oltre (metànoia vuol dire proprio andare oltre) che
Giobbe afferma: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti
hanno visto» (Gb 42,5).
Ora la conoscenza di Dio, che
sembrava ben consolidata nella tradizione rappresentata dai suoi amici e
dai loro ragionamenti, è una relazione viva e autentica. Il vedere
di cui parla il testo più che un fatto visivo è un cambiamento di tutta
la persona. È ormai diverso il proprio modo di esistere e di porsi
dinanzi a Dio e al suo mistero; nasce una nuova relazione d’ascolto:
«Questo ascolto suppone apertura e attenzione, esige un silenzio che
“ode” e “vede”, che concede la priorità all’altro, che fa sì che
germinino il dialogo e la comunione personale».8
Giobbe ci spinge a guardare oltre
l’orizzonte delle certezze consolidate e ben conservate per vie che non
avevamo previsto, a comprendere che il silenzio è ascolto di un
interlocutore che non si fa catturare dai nostri schemi e al quale è
importante affidarsi maturando nella speranza e nella fiducia. Possiamo
chiederci: non è legittimo affermare che questa faticosa danza tra
silenzio e parole di supplica e di smarrimento costituisca il cuore
della preghiera? È importante che la preghiera del credente sia «un
grido del cuore» e nel contempo, una pagina della Scrittura.
Molti pensano di non saper pregare e
con sofferenza parlano di questa difficoltà, soprattutto in situazioni
della vita che sembrano senza via d’uscita; eppure la Bibbia stessa ci
fa capire che nel riconoscimento di una simile inadeguatezza e povertà
si sta già pregando. A volte senza dir nulla, perché come Giobbe, non si
ha più la forza e ci si mette una mano sulla bocca, a volte pronunciando
il nome del Signore come il pubblicano nel tempio (cf Lc 18,13).
Autenticità e fiducia
Accettando di non poter possedere né
comprendere totalmente la verità e il senso degli eventi, né tanto meno
il mistero di Dio, nasce una preghiera autentica; è qualcosa a cui
bisogna educarsi ed aiutare gli altri a farlo, per poter sviluppare
l’attitudine alla preghiera come dialogo autentico e fiducioso col
Signore. La Bibbia dà la possibilità di guardare a storie come quelle di
Giobbe, di Elia, di Pietro come fossero la nostra storia; ci suggerisce
di non mentire davanti a chi ha il cuore più grande della nostra
fragilità (cf 1Gv 3,20).
La vita di ogni popolo è fatta di
lotte e di umiliazioni, dove la supplica e il lamento non mancano, dove
la menzogna distrugge esistenze indifese. Anche in queste situazioni la
preghiera diventa luogo di discernimento, di supplica, di lode, di
benedizione. In un Salmo troviamo l’orante (potrebbe essere ogni uomo
che prega sulla terra!) che subisce l’empietà degli uomini. Egli assume
un atteggiamento di supplica, parlando alza le mani e chiede al Signore
di non stare in silenzio (Sal 28,1).
Nonostante percepisca silenzio
dall’altra parte, continua a pregare attraverso una sorta di narrazione
della sua vita. Con il corpo rivolto verso la parte più santa del tempio
vive il silenzio di Dio come pericolo di distruzione: «Io sono come chi
scende nella fossa». Eppure non si ferma, dietro di lui sembra esserci
solo il vuoto, ma la conclusione è diversa da ogni previsione possibile:
«Sia benedetto il Signore che ha dato ascolto alla voce della mia
preghiera» (v. 6). Dalla paura alla lode, una lode che non è
semplicemente sua, ma appartiene alla comunità: «Salva il tuo popolo e
la tua eredità benedici» (v. 9).
L’orante ha la certezza che la sua
preghiera non cadrà nel vuoto. Chi prega va al di là del silenzio e si
fida totalmente, ostinandosi a non chiudere il dialogo con Lui:
«percepirlo come carenza, come vuoto, è già relazionarsi con lui».9
Alcuni silenzi sono di attesa, altri
sono difficilmente interpretabili. Come possiamo pensare che il Padre
celeste esiterà a dare «cose buone» ai propri figli? (Mt 7,1). La
supplica deve partire sempre dal presupposto che chi ci ascolta desidera
solo il bene. L’apparente «indifferenza» di Dio non può chiuderci alla
speranza, anche se al momento abbiamo la sensazione di parlare una
lingua contraria. L’evangelista ricorda chi è il Signore, e il salmista
aiuta ad attendere: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui»
(Sal 37,37).
Discernere
Nel silenzio si trovano le parole
giuste, si progettano gesti e scelte importanti: più volte la Scrittura
ce lo indica come dimensione essenziale del discernimento (Gn 24,21) e
della maturazione umana, un percorso dove l’uomo e in particolare il
credente si affida ad una visione altra e diversa da quella che potrebbe
percepire nell’immediato.
In più testi sapienziali s’insiste
sulla necessità di trovare un sano rapporto tra parole e silenzio
perché: «Morte e vita sono in potere della lingua e chi l’accarezza ne
mangerà i frutti» (Pr 18,21). È chiaro che s’invita a non perdere il
contatto con il proprio mondo interiore, per evitare di scadere nella
banale superficialità, che spesso è fonte di divisione e di malessere.
«Chi disprezza il suo prossimo è privo di senso, l’uomo prudente invece
tace» (Pr 11,12).
Questi testi non si riferiscono
esplicitamente alla preghiera, ma è evidente che indicano una qualità
dell’esistenza che incide sulla qualità della preghiera. Chi di noi non
si accorge che ci sono dei giorni in cui abbiamo veramente esagerato
nelle parole? Se non ci si educa alla prudenza, se non ci sono pause
emotive, anche la preghiera sarà un continuo ritorno sul proprio io,
un paradossale tentativo di sentirsi sempre nel giusto. Bisogna
riflettere e placarsi (Sal 4,5), cioè tacere, perché questa è la strada
per poter riconoscere la propria durezza di cuore e le proprie menzogne
e disporsi, come Giobbe, a cambiare in profondità.
Un cuore dai molti
silenzi
Nella Bibbia, come dicevamo, sono
molteplici i significati attribuiti al silenzio, ma tutti mettono in
luce che si tratta di una dimensione importante della vita dell’uomo,
che cerca risposte di senso e vuole capire dove va la storia, della
quale non è l’unico protagonista. Il silenzio nella Bibbia come nella
vita non è dello stesso «colore». C’è il silenzio di chi si sente
affascinato dalla presenza di Dio nel tempio e avverte la sua fragilità
(Sal 65), c’è il silenzio che esprime il linguaggio della creazione e
introduce nella bellezza del suo mistero (Sal 19), così come non manca
il silenzio dell’inquietudine e della sofferenza presentata a Dio (Sal
39,10).
La Scrittura dipinge con cura l’itineranza
del credente: i dubbi, il dolore, la supplica e la lode, lo stupore
accogliente, la fuga, la clandestinità. Il Nuovo Testamento ci presenta
il silenzio come una dimensione fondamentale dell’esistenza, che rende
più vera la relazione con se stessi, con gli altri e con l’Altro. C’è
un’essenzialità anche nell’uso della parola, che allora mostra un cuore
non sommerso dall’egoismo: «poiché la bocca parla dall’abbondanza del
cuore» (Mt 12,34).
Un simile stile di vita non
s’improvvisa. Il Vangelo non parla del silenzio come uno dei tanti
strumenti di purificazione, ma lascia intuire che per crescere
nell’amore e diventare adulti nella fede non se ne può fare a meno. A
volte bisogna cercarlo, attraversarlo, altre volte accettarlo come un
passaggio obbligato, perché la storia di ciascuno maturi e si compia (Lc
2,51). La preghiera sarà espressione di un vita roboante e senza troppi
punti di domanda se la vita è piena di rumori di ogni genere. Sarà
espressione di desiderio, di conversione, dove le parole sono ridotte al
minimo. La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) mostra
chiaramente quanto valgono le parole e i gesti dell’uno e dell’altro.
La vita è piena di parole e di
discorsi, che nascondono la verità, la paura del silenzio e della
riflessione interiore. Bisogna avere il coraggio di far discernimento su
certe suggestioni personali e comunitarie, e si può fare questo solo in
silenzio. E lì allora la preghiera diviene presa di distanza dalle
illusioni, luce che scandaglia e scopre equivoci e sottili ambizioni
ammantate di religione. Si fa più umile e semplice la parola, il gesto,
e Dio è onorato con «timore», che è amore e fiducia.
Note
1.
L. Singer,
Del buon uso della crisi,
Troina 2006,97. [Torna al testo]
2.
C. M.
Martini, La preghiera e la
vita, Milano 2004, 9. [Torna
al testo]
3.
S.J.Baez,
Quando tutto tace. Il
silenzio nella Bibbia,
Assisi 2007, 23. [Torna al testo]
4.
S.J.Baez,
Quando tutto tace, 40.
[Torna al
testo]
5.
A. Mello,
L’amore di Dio nei salmi,
Qiqajon, Magnano 2005,
12-13. [Torna al testo]
6.
M. Cacciari,
«La parolaa dal e nel
silenzio», in Il Messaggero, 2007/5,39. [Torna al
testo]
7.
S.J.Baez,
Quando tutto tace,
114-115. [Torna al testo]
8.
Ibidem,
116. [Torna al testo]
9.
S.J.Baez,
Quando tutto tace,
181. [Torna
al testo]
Antonietta
Augruso
Via Eurialo, 91/16A – 00181 Roma
 |