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Io raffreno il mio cuore
nella quiete e nel silenzio.
(Sal 131,2)
Se tu ami la verità, sii
amante del silenzio.
Questo ti farà risplendere in Dio come il sole,
e ti libererà dalla dissipazione.
Il silenzio unifica il tuo cuore, unendolo a Dio.
(Isacco di Ninive, Prima collezione 65)
Ai
nostri giorni siamo invasi dalle parole, dal rumore, dalle chiacchiere,
al punto che l’inquinamento sonoro può ormai essere annoverato tra i
problemi ecologici. Nella società cacofonica in cui viviamo, inoltre, la
parola è diventata quasi uno strumento obbligato per l’affermazione e la
celebrazione di se stessi, anche a costo di assumere forme quanto mai
aggressive e capaci di ferire: «parole come armi», è stato giustamente
detto… Si comprende dunque perché molti avvertano il bisogno del
silenzio, vorrebbero cioè imparare a tacere per riscoprire la
bellezza del silenzio e, insieme, la bellezza di forme di comunicazione
non verbali. Tacere equivale a digiunare verbalmente e il silenzio è
paragonabile al digiuno fisico, entrambi salutari quando lo esigono il
corpo e la psiche, cioè l’intera persona umana.
Ma occorre chiedersi con franchezza:
che cos’è il silenzio? La prima difficoltà consiste proprio
nel parlarne, poiché il silenzio lo si comprende veramente solo
quando se ne fa esperienza nella solitudine; inoltre, è elementare ma
essenziale ricordare che il silenzio non è una realtà uguale per tutti,
e per la stessa persona può cambiare con le diverse età della vita.
Di più, quando si scandagliano le
profondità del silenzio, si scopre che il silenzio non è in primo luogo
un’esperienza spirituale, anzi può persino esserle di impedimento. Il
silenzio è un’esperienza umana e ogni persona conosce di fatto nel corso
della sua vita diversi silenzi, silenzi al plurale, che in alcuni
casi possono essere assunti in quanto giudicati come positivi e
necessari, altre volte vengono respinti come negativi e mortiferi. Il
silenzio non è dunque un bene in sé né un bene assoluto, ma può trovare
giustificazione e senso solo a certe condizioni, solo quando è vissuto
con consapevolezza e orientato a un fine, a uno scopo.
Silenzio o mutismo?
A uno sguardo attento non sfugge il
fatto che le valenze positive del silenzio possono essere
comprese in pienezza solo se si ha il coraggio di guardare in faccia
innanzitutto il suo lato negativo. Realtà costitutivamente
ambigua, il silenzio può infatti essere senza vita, può assumere la
forma di un mutismo che impedisce e rifiuta la comunicazione. Il
rigetto della comunicazione umilia la parola e lo stesso silenzio,
finendo per rinchiudere l’uomo in una sorta di prigione. Questa è una
patologia che, non a caso, si manifesta quando l’equilibrio psichico è
gravemente ferito; chi ha potuto incontrare l’abisso del mutismo in
persone colpite dalla follia, sa che cosa significa questa forma di «no»
alla comunicazione: è un rifiuto della vita!
Ma c’è anche un silenzio cattivo,
malvagio, che si nutre di rabbia e di odio. Elias Canetti ha scritto
giustamente in proposito: «Alcuni raggiungono la loro più grande
malvagità nel silenzio». Giudizio negativo sull’altro, disprezzo
dell’altro, volontà – alimentata e «accudita» ogni giorno – di non avere
di fronte o accanto a sé un altro, poiché la sua diversità ci
infastidisce, ce lo rende nemico: non lo si saluta, non gli si indirizza
una parola, lo si tratta come fosse già morto! Non serve neppure
giungere all’ostilità manifesta, è ben più perversa questa ostilità
sorda e muta. Non è forse questa realtà che talvolta abita i vissuti
quotidiani delle nostre famiglie e delle nostre comunità?
Un’altra forma di silenzio negativo è
quella dell’autoillusione: un silenzio custodito per preservare
l’immagine che si ha di sé dal confronto con la realtà e con gli altri.
Ciò si traduce poi in forme di vita «autistiche», la cui raffigurazione
più efficace è quella di un deserto popolato da fantasmi che finiscono
per dominare ossessivamente il malcapitato. Davvero il silenzio può
diventare un luogo di disperazione, una forma di angoscia: silenzio
talora imposto dall’aguzzino alla sua vittima, talaltra scelto
liberamente da chi si incammina su vie mortifere.
Con grande realismo occorre ammettere
che queste forme di silenzio non ci sono estranee: l’importante è
esserne consapevoli e, nel contempo, predisporsi a lottare per
trasformarle in quel silenzio vitale da cui sgorgano una vita e una
parola colma di senso.
Il silenzio
come forma di comunicazione
Chi intraprende questa lotta giunge
lentamente a discernere che esistono anche silenzi positivi,
irrinunciabili. In primo luogo il silenzio rispettoso della parola
dell’altro, ma poi anche il silenzio scelto nella consapevolezza che
«c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7). Un silenzio
particolare è quello dell’amicizia e dell’amore: l’amore crea un
linguaggio non verbale, molto più eloquente e intenso di qualsiasi
parola, linguaggio in cui il silenzio stesso diventa parola. Nasce così
quel silenzio di presenza e di pienezza, in cui il semplice stare
insieme è fonte di gioia: silenzio che è ascolto amoroso, attento,
contemplativo, raccolto; «silenzio sottile» che si fa voce come per Elia
sul monte Oreb (cf. 1Re 19,12). Vi è infine il silenzio interiore, nel
cuore di ciascuno di noi, per accogliere la presenza degli altri e
dell’Altro, Dio: è quella disposizione che scava nel nostro intimo uno
spazio per il Signore e consente che la sua Parola prenda dimora in noi.
Ma perché fare silenzio,
perché imparare il silenzio in modo progressivo e ragionevole?
Innanzitutto perché nel silenzio possono emergere energie che si
traducono in un’attività intellettuale più feconda, capace di stimolare
la nostra memoria e di aguzzare le nostre facoltà di ragionamento e di
immaginazione. Sì, nel silenzio diventiamo più ricettivi alle
impressioni trasmesseci dai nostri sensi, sappiamo meglio ascoltare,
vedere, odorare, toccare, anche gustare. Si pensi solo a un’esperienza
comune: quando si vuole fare o ricevere una carezza non diventa forse
naturale restare in silenzio? Lunghe ore di silenzio ci rendono diversi,
ci aiutano a guardare dentro di noi, a dimorare con noi stessi e,
soprattutto, ad ascoltare ciò che ci abita in profondità.
E così impariamo poco a poco quali
sono le ragioni per cui parliamo, venendo a conoscenza di verità non
supposte. Scopriamo cioè che le nostre parole sono sovente strumento di
conquista e di seduzione, mezzi per permettere al nostro «io» di
acquistare potere, successo, dominio sugli altri: parole aggressive e
interessate, piegate a scopi inconfessati e inconfessabili, strumenti di
manipolazione. Insomma, grazie al silenzio impariamo a parlare,
decidiamo quando e se vale la pena di rompere il silenzio, dominiamo il
modo e lo stile con cui ci rivolgiamo agli altri.
Attraverso la pratica consapevole del
silenzio possiamo vigilare affinché le nostre parole siano sempre fonte
di dialogo e di conoscenza, di consolazione e di pace. Solo allora, per
grazia, la nostra comunicazione può anche edificare la comunione;
solo allora possiamo anche aprirci all’ascolto di Dio.
Il silenzio di Dio
Tra le numerose accezioni del
silenzio ve n’è una che ai nostri giorni è chiamata in causa con
eccessiva facilità: il silenzio di Dio. E non nel senso
tragicamente interrogativo del suo apparente tacere di fronte all’abisso
del male, bensì in quello più spicciolo, quotidiano, personale. Quante
volte, infatti capita di ascoltare lamentele che paiono accuse scagliate
verso il cielo: «Dio non mi parla, non mi dice nulla!». Parole
pronunciate sovente non da grandi figure spirituali, avanzate negli
anni, la cui lunga esperienza di preghiera può aver conosciuto anche la
«notte oscura» dell’assenza di Dio, bensì da giovani o da comuni
credenti che paiono quasi giustificare così la loro mancanza di fede, il
loro allontanarsi dai luoghi e dai tempi della preghiera, del dialogo
con il Signore nella fedeltà dell’amore. È diventato quasi un vezzo
chiedersi «dov’è Dio?» ogni volta che siamo scossi da
qualche evento terribile e imputargli un silenzio colpevole nel
dipanarsi della storia come nelle nostre vicende personali. Questo, tra
l’altro, ci libera dai ben più inquietanti interrogativi: «Dov’è
l’uomo, fratello del suo simile? Dove sono io? Che ne ho
fatto della mia responsabilità e solidarietà?».
In realtà, il «silenzio di Dio» è
un’espressione biblica che l’Antico Testamento in particolare
mette in bocca a uomini e donne in preghiera. Questo suggerisce
che il Dio silente non è tanto un argomento di chiacchiera o discussione
ma piuttosto l’interrogativo al culmine di un cammino di sofferenza:
quando si è colti dal dolore, dall’oppressione, dallo sterminio,
dall’ingiustizia che uccide e non vi è nessun uomo che venga in aiuto,
nessuno che ascolti, che prenda le difese, che denunci il male, allora
il credente chiama Dio e, se ancora nulla cambia, lo supplica
accoratamente: «O Dio, non restare muto, non startene in silenzio!» (Sal
82,2); «Dio della mia lode, esci dal silenzio!» (Sal 109,1); «Se tu
resti muto, io sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,1). Chi prega
così non pretende che Dio parli, ma pretende che qualcosa cambi nella
propria situazione, che vi sia un mutamento nella realtà circostante e
un cambiamento in se stesso: infatti, si può anche vivere un cammino di
sofferenza e non denunciare il silenzio di Dio, ma questo è possibile
solo se si giunge a capire che quel cammino ha un senso. Gesù nel suo
estremo abbandono sulla croce si è rivolto a Dio chiedendogli: «Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?», intonando così il salmo 22, il
canto del giusto perseguitato a morte. Ma proprio in quel salmo, dopo il
lamento, quando sembra che tutto ormai sia solo aporia, che tutto sia
ormai finito, la voce dell’orante si leva ad esclamare: «Tu mi hai
risposto!» (Sal 22,22).
Ma queste invocazioni dei salmisti,
queste suppliche a Dio perché cessi di starsene in silenzio vanno
decodificate: si tratta cioè di discernere se è Dio che fa
silenzio o non piuttosto il credente, il popolo, l’orante che non
ascolta, che è incapace di cogliere la parola di Dio, pronunciata
magari in altro modo, attraverso eventi e vicende inattese e non
prevedibili. E comunque, perché non cogliere che Dio può parlare anche
nel silenzio, attraverso la sua «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12)?
Sì, il silenzio può essere una modalità altra del suo linguaggio,
accanto a quella della parola pronunciata e della parola-evento che si
realizza. Non dovremmo scordare un testo biblico estremamente
illuminante in proposito, che un tempo risuonava come antifona di
introito nella messa della notte di Natale: «Mentre un silenzio profondo
avvolgeva ogni cosa... dall’alto dei cieli... la tua Parola onnipotente
si lanciò dal trono regale» (Sap 18,14-15); ad esso fa eco la suggestiva
espressione di Ignazio di Antiochia, secondo cui «Gesù Cristo è la
Parola uscita dal silenzio» (Ai Magnesii 8,2).
Sì, Dio è in verità silenzio e
parola: non silenzio muto e sordo, ma silenzio che è un modo di
comunicare altro rispetto alla parola, un modo che in determinate
circostanze può rivelarsi più efficace ed «eloquente» di qualsiasi
discorso. La parola di Dio resta iscritta nel suo grande silenzio e in
esso trova la propria origine e la propria leggibilità: da parte nostra
dobbiamo ascoltare l’uno e l’altra, perché entrambi sono presenza di
Dio, di quel Dio che non può non essere presenza, perché come tale si è
sempre manifestato. Sappiamo che la tentazione dell’ateismo, del nulla,
della «nientità» è costantemente in agguato anche, e forse soprattutto,
per gli uomini e le donne di preghiera, per i grandi contemplativi che
vivono nella fede e nella salda adesione al Signore: anche loro possono
giungere a lamentarsi del silenzio di Dio, a piangerne l’assenza e a
invocarne una parola. Ma proprio costoro ci testimoniano che non per
questo la presenza di Dio viene meno: Dio è sempre presente all’uomo, da
lui creato a propria immagine e da lui amato fino all’estremo.
Quando incolpiamo Dio di mutismo,
quando attribuiamo a lui il vuoto del nostro cuore è perché in realtà
siamo noi incapaci di ascoltarlo, perché cerchiamo da lui una parola che
sia a nostra immagine e somiglianza.
Enzo
Bianchi
Comunità di Bose – 13887 Magnano (Biella)
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