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Amore, santità,
quotidiano
L'esperienza
dell’amore ‘spiazza’ l’essere umano che dell’amore pensa di conoscere
tutto o quasi, avendolo studiato da varie angolature. La santità entra
in uno dei molteplici aspetti della tematica, l’amore tra esseri
disomogenei, creatura e divinità. Potrebbe sembrare un capitolo a sé, di
fatto forse lo è, e si radica nel quotidiano.
Quotidie
indica ciò che è di ogni giorno e
appartiene allo svolgersi di ciò che non ha vistosità di nessun tipo: è
quotidiano il formarsi della vita nel grembo di una donna; il portare
avanti la vita si snoda per lo più solo nel quotidiano; quotidiano è
anche il finire della vita, giovani o anziani che si sia. Nel
quotidiano, breve o lungo, si intrecciano e si esprimono santità e
amore.
Ne rintraccerò soltanto alcuni
segmenti e pochissime esperienze del passato, ma leggibili e parlanti
oggi. Utilizzando biografie e analoghi testi letterari, quelli a me più
familiari, individuo il cammino di alcuni che, seppure lontani nel
tempo, hanno la nostra stessa pasta umana e lasciano emergere, come
sintesi del loro esistere, due realtà visibili e comprensibili, estese
verso Dio e verso l’altro, amare e quotidie.
Mi ha guidato nella scelta il
manifestarsi della santità come semplice espressione di creature
consapevoli che la loro natura è amore. Alla santità-amore ho guardato
in alcuni aspetti: l’amore è personale, perciò ‘originale’; ha i suoi
momenti di nascita e di crescita, i suoi eventi e le sue tappe; mette a
confronto identità e nature diverse; rende ogni persona inconfondibile.
Anche se semplice, feriale e
quotidiano, perciò vicino e possibile, stupisce perché sappiamo che è
possibile e vicino, ma…sembra per persone ‘altre’ e per tempi ‘altri’.
Per chi la santità?
Il problema non è nuovo, lo rileggo
attraverso il prologo della Passione di Perpetua e Felicita, che
narra gli eventi relativi all’arresto, prigionia ed esecuzione delle
giovani cartaginesi e dei loro compagni, il 7 marzo 203 probabilmente.
L’ignoto redat-tore del testo riflette sulla tendenza a dare peso e
importanza agli eventi passati più che a quelli recenti. Eppure gli uni
e gli altri sono dono e opera dello Spirito Santo che, come ieri, anche
oggi ha il compito di distribuire i doni da Dio assegnati a ciascuno.
L’autore scrive affinché «una fede inferma o mortal-mente malata non
giudichi la gloria di Dio privilegio esclusivo degli antichi, quasi si
trattasse di un favore speciale accordato ai primi martiri e alle prime
visioni. Dio mantiene le sue promesse in ogni tempo, come testimonianza
per i non credenti, come grazia per i credenti…». E, nella conclusione:
«è giusto leggere queste testimonianze non inferiori alle antiche
affinché anche i nuovi atti di virtù testimonino che un unico e sempre
medesimo Spirito Santo è tuttora operante, e con esso l’onnipotente Dio
Padre e il Figlio suo…». La santità, questa forma di santitamore che
dona tutto se stesso, non è realtà del passato ma, essendo opera dello
Spirito Santo, è anche di oggi. L’operare di Dio è costante: Dio, per
esempio, avrebbe potuto affidare l’annuncio della salvezza ad oratori
valenti, invece è stato predicato da pescatori.
Negli anni tra il 156 e il 167
l’anziano Policarpo ottiene che la sua morte avvenga dopo un dialogo di
amore (dura 2 ore) con il suo Dio. A chi tenta di persuaderlo che non
c’è nulla di male a dire «Cesare Signore» e ad aver riguardo della sua
età, Policarpo risponde: «Sono ottantasei anni che servo il Cristo e mai
mi ha fatto torto. Come posso bestemmiare il mio re e salvatore?». Viene
messo sul rogo e ottiene di essere lasciato come è perché, dice: «Colui
che mi dà il fuoco da sopportare mi darà anche la forza di resistere in
esso pur senza esservi assicurato dai vostri chiodi».
Perché la santità?
A monte di queste esperienze, c’è la
consapevolezza che essere cristiani è essere imitatori di Dio: solo
questo è santità, e riguarda tutti, indistintamente.
Gregorio di Nissa così definisce il
cristianesimo: «Consiste nell’imitazione della natura divina. Nessuno
muova rimproveri a questo mio ragionamento, come se fosse esagerato e
superasse gli angusti limiti della nostra natura… La primitiva
conformazione dell’uomo imitava la somiglianza a Dio; questo insegna
Mosè là dove dice: Dio creò l’uomo, lo creò secondo l’immagine di Dio (Gen
1,27). Essere cristiani consiste nel far ritornare l’uomo alla sua
primitiva condizione... Definirsi cristiano è dunque una cosa seria. Chi
fa professione di un nome senza uniformare la propria vita a questa
regola corre dei rischi. Chi desidera essere chiamato medico o retore o
geometra rende credibili questi nomi con i fatti, per evitare che
risultino falsi. Allo stesso modo anche noi, se riuscissimo a trovare il
vero significato della professione cristiana, non accetteremmo mai di
non essere ciò che il nostro nome esprime. Tutti sanno che professarsi
cristiani indica essere imitatori di Dio. Natura terre-na e natura
divina sono diverse l’una dall’altra e il nostro compito non è quello di
paragonarle tra loro, ma di imitare nella nostra vita, per quanto
possibile, le buone azioni di Dio: questo chiede il Vangelo.
Allontanarci da ogni vizio e purificarci dalle sue sporcizie nelle
opere, nelle parole e nel pensiero è l’imitazione vera della perfezione
del Dio celeste».
Santità è, semplicemente, essere
cristiani, non apparire tali.
Uno scambio d’amore
Lo scambio d’amore che intercorre tra
la creatura e Dio, allargandosi ad amare l’altro concreto che vive
accanto a noi, sembra fuori del nostro tempo e del nostro linguaggio,
forse anche della nostra esperienza? L’amore è capace di accostare
nature diverse, creatura e Creatore. Inizia col desiderio che muove
(«Come il cervo anela alle fonti dell’acqua, così l’anima mia anela a
te, Dio»: Sl 41,1; ma siamo assuefatti al linguaggio biblico-religioso e
non percepiamo il desiderio dell’acqua in un assetato?). C’è poi una
serie d’incontri, che fanno crescere l’amore fino al fidanzamento, fino
al matrimonio spirituale (è il linguaggio dei testi). Se si cerca la
causa e il movente dell’amore si scopre che esso non è la creatura,
invece «era Lui a far divampare nel mio cuore un così alto amore di Dio
da non sapere donde provenisse, totalmente soprannaturale e non da me
procurato. Mi sentivo morire dal desiderio di vedere Iddio…», dice
Teresa di Gesù (1515-1582), la santa di Avila.
Questo Dio, Creatore, Padre, Giudice,
Salvatore… ha una caratteristica: Egli è – dice Caterina da Siena
(1347-1380) - philocaptus (= preso d’amore) per la creatura che,
uscita dalle sue mani, si è allontanata da Lui (ha rotto la strada
dell’amicizia che la congiungeva a Lui), e Tu ti sei innamorato di lei.
Se Caterina e Teresa distano 2 secoli
l’una dall’altra e sono diverse per nazione, spiritualità, cultura,
attività, l’amore le accomuna: innamorate entrambe, entrambe disposte a
fare propri gli interessi dell’Amato così da dare tutte le loro energie
ai Suoi interessi e alla Sua causa nel tempo in cui vivono. A Lui non
possono fare nulla perché di nulla ha bisogno, ma alle creature uscite
dalle Sue mani e a ciò che Egli dispone per loro danno tutto quello che
hanno e possono fare, tutto quello che sono.
Il cammino dell’amore diversifica le
due donne che avevano iniziato con una esperienza uguale: ancora
bambine, tentano la ‘fuga’ da casa per andare Teresa verso la terra dei
Mori, Caterina nelle grotte degli eremiti. Le attrae la santità e
imitano altri. Più tardi imparano a vivere in proprio l’amore ed ognuna
avrà la sua fisionomia inconfondibile.
Amore, tormento,
gioia, concretezza del dono
Tormento e gioia abitano in Teresa di
Gesù e, «per quello che sente, può ben dire di essere stata ferita, ma…
da parte sua non ha fatto nulla per attirarsi tanto amore»; prova la
ferita che il dardo del Cherubino le configge nel cuore, lasciandola
«avvolta in una fornace di amore… Tra l’anima e Dio passa come un
soavissimo idillio». Amore e dolore si intrecciano e non può essere
altrimenti.
Analoga è l’esperienza di Caterina
che in risposta al desiderio di una fede grande vive l’esperienza delle
nozze mistiche: le appaiono la Vergine Madre, Giovanni Evangelista,
Paolo, san Domenico, Davide con l’arpa. Mentre Davide suona, la Vergine
Madre presenta al Figlio la mano di Caterina invitandolo a sposarla a sé
nella fede: «L’unigenito di Dio, graziosamente dicendo di sì, mise fuori
un anello d’oro, lo lasciò scorrere nell’anulare di Caterina e disse:
ecco, io ti sposo a me nella fede; a me tuo Creatore e Salvatore.
Conserverai illibata questa fede finché non verrai in cielo a celebrare
con me le nozze eterne. Da qui in avanti, agisci virilmente e senza
alcuna titubanza in tutto quello che ti sarà messo davanti». La visione
disparve, ma l’anello rimase nel dito e Caterina lo vedeva, sebbene gli
altri non lo vedessero. Avvenuto lo sposalizio il Signore, a poco a
poco, la condusse ad una grande attività, senza toglierle la
conversazione di Dio.
Più tardi Caterina riceve le
stigmate; ottiene che la ferita non si veda all’esterno e i raggi che
partono dal Crocifisso da sanguigni si cambiano in luminosi.
Dalla centralità dell’amore per Dio
viene una conseguenza: chi «in verità m’ama, fa utilità al prossimo suo;
e non può essere altrimenti, perché l’amore di me e del prossimo è una
medesima cosa; tanto quanto l’anima ama me, tanto ama lui, perché
l’amore verso di lui esce da me... Non potendo fare utilità a me la
dovete fare al prossimo… cercando l’onore mio e la salute dell’anime…
Non si ristà mai, l’anima innamorata della mia verità, di fare utilità a
tutto il mondo».
Sfide e inviti da
raccogliere
Rapportarsi a Dio-Amore è condizione
ordinaria e naturale del cristiano, consapevole che Dio lo abita, e
l’amore chiede consenso: «Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un
piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare,
e a noi nemmeno, se non attendere. Dobbiamo soltanto non rimpiangere il
consenso che abbiamo accordato, il sì nuziale. Non è facile come sembra,
perché la crescita del seme in noi è dolorosa… il seme, tutto sommato,
cresce da solo e viene un giorno in cui l’anima appartiene a Dio, un
giorno in cui non soltanto acconsente all’amore, ma ama veramente,
effettivamente. Bisogna allora che essa, a sua volta, attraversi
l’universo per giungere a Dio. L’anima non ama di un amore creato.
Questo suo amore è increato perché essa è pervasa dall’amore di Dio per
Dio. L’amore è un orientamento e non uno stato d’animo. Se lo si ignora,
si cade nella disperazione al primo contatto con la sventura. Mantenere
la propria anima orientata verso Dio mentre un chiodo la trafigge» (S.
Weil, Attesa di Dio, Milano 1972).
Si tratta di rinnovare il consenso,
quotidie.
Rimando ad alcune parole di Paolo VI
pubblicate di recente: «Chi ama non è assente. Chi ama, ricorda,
riflette, gode rievo-care e contemplare. Chi ama non si dissipa;
distratto, si richiama; stanco, si rianima; afflitto, si consola;
bisognoso, confida; tranquillo, s’indugia. Chi ama, geme, invoca, grida;
ma non si esibisce, non ostenta il suo sentimento; ne fa un segreto del
cuore; vi si rifugia, vi si ristora».
Maria Grazia Bianco
Docente presso la LUMSA
Via Traspontina, 21 – 00192 Roma
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