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Dice
bene Papa Benedetto XVI: «Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di
un grande amore, quello è un momento di “redenzione” che dà un senso
nuovo alla sua vita (Spe Salvi, 26). È l’amore il senso della
vita e il segreto della felicità. Gli innamorati lo sanno per esperienza
diretta e chi li osserva se ne accorge immediatamente: il volto è
luminoso, gli occhi brillano di gioia. C’è forse qualcosa di più bello?
Il tempo sembra sospeso, il quotidiano si trasfigura, è il magico
momento dell’incanto: «come sei bello - come sei bella!».
Ma è possibile vivere la vita così?
Vivere d’incanto e di poesia? Cosa dice al riguardo la Scrittura? Quali
indicazioni emergono a partire dal Cantico dei Cantici? Articolerò la
mia riflessione in tre momenti: l’incanto, il desiderio e la ricerca
nella notte.
L’incanto
Momento primo è l’incanto. La
bellezza è irresistibile attrazione, rapisce gli occhi e il cuore. E Dio
è somma Bellezza. Francesco d’Assisi nelle Laudi dell’Altissimo
lo ripete estasiato: «Tu sei bellezza».
Per la Bibbia la bellezza del
Creatore si riflette in tutto il creato, inseparabilmente dalla
sapienza, che presiede l’opera creatrice ed è «più bella del sole» (Sap
7,29). In ogni cosa brilla un riflesso della bellezza sapiente del
Creatore. Perciò la natura non è semplicemente ornamen-tale nel Cantico
ma consenziente con i due innamorati; essa concorre al loro sogno
d’amore. È nella natura che avviene l’in-canto e delle sue splendide
immagini si nutre quel poema d’amore che è il Cantico: lei è come
«colomba», lui come «un cerbiatto» e «un cucciolo di gazzella» (Ct
2,8-14). I due innamorati pulsano in sintonia con la natura. Il luogo
dell’incontro è nel verde, tra i profumi dei giardini d’Oriente, sotto i
cedri e le palme, in una campagna prima-verile ancora bagnata di
rugiada: «All’alba andiamo alle vigne, vediamo se è germogliata la vite,
se sono sbocciati i fiori, se sono fioriti i melograni! Là ti darò le
mie carezze!» (Ct 7,13).
Ma come discernere il vero incanto
dell’Amore? Anche l’idolo incanta! Anche il male ha una sua forza
attraente, anche «Lucifero, figlio dell’aurora» (Is 14,12; cf. Ez
28,17).
In Eden la prima coppia umana rimase
affascinata dal frutto proibito, bello a vedersi, «gradito agli occhi e
desiderabile per acquistare saggezza» (Gn 3,6). Ma ecco che dopo averlo
mangiato si aprirono i loro occhi e finì l’incanto: «si accorsero di
essere nudi» e ne provarono vergogna (Gn 3,7-10).
Dunque, di quale incanto si parla nel
Shir hashirim, il Cantico dei Cantici, ovvero il cantico più
sublime? In esso, più che la natura ferita dal peccato, si rispecchia la
situazione di bellezza originaria. La nudità non è affatto motivo di
vergogna, ma di contemplazione e gioia. Il corpo femminile è esaltato in
tutte le sue parti, con sguardo ascendente e discendente (Ct 4,1-7;
6,4-9) e similmente quello maschile (Ct 5,9-16). Sono coinvolti tutti i
sensi: la bocca che bacia e assapora (il tuo amore è più buono del
vino!), l’odorato con la sua funzione istintiva di base nel rapporto
intimo e i diversi profumi che soprattutto in Oriente fanno da
immancabile contorno, il tatto con abbracci e carezze, l’udito e la
vista: «fammi vedere il tuo volto, fammi sentire la tua voce…» (Ct
2,14).
Tutto concorre all’incanto. Basta un
ricciolo dei suoi capelli o uno sguardo per stregare l’amato e rapirgli
il cuore: «Mi hai rapito il cuore, sorella mia sposa, mi hai rapito il
cuore con uno sguardo, con una sola gemma della tua collana» (Ct 4,9).
Se dal piano della realtà passiamo a
quello simbolico, dove i due innamorati sono figura rispettivamente di
Israele/Chiesa e del Cristo/Dio, cosa dice questo incanto? Come non
restare stupiti del fatto che Dio consideri la creatura sua sposa e ne
sia così perdutamente innamorato? Eppure è proprio su questo che fa leva
il Cantico in sintonia con la voce dei Profeti, primo fra tutti Osea,
che ci presenta un Dio amante del suo popolo/sposa, anche se adultera e
infedele. Egli non desiste dal conquistarla, l’attira nel deserto e
parla al suo cuore (cf Os 2,16-25). Ecco la sorgente dell’Amore, al
contempo eros e divina misericordia! Non è anzitutto nostro
l’incanto, ma Suo: «Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie
mani…» (Is 49,16).
Il desiderio
Non c’è dubbio, il desiderio -
fortemente erotico - è la nota dominante del Cantico. E la cosa più
bella è che il desiderio appare qui liberato da ogni
sopraffazione e dominio. Diversamente da Genesi 3,16, dove leggiamo:
«verso il tuo uomo ti spingerà la tua passione (teshuqah) e lui
vorrà dominare su di te», l’innamorata del Cantico sperimenta la gioia
della piena reciprocità: «il mio amato (dodì) è per me e io sono
per lui» (Ct 2,16; 6,3), e al colmo dell’entusiasmo può dire: «Io sono
del mio dodì e verso di me è la sua passione (teshuqah)» (Ct
7,11).
È un vero
capovolgimento di situazione: lei sente tutta la forza passionale del
suo uomo e ne è pienamente gratificata. Può affermare così non solo di
amare, ma di essere amata. E senza dominio, senza sopraffazione
alcuna. In purezza e libertà.
Desiderio pieno e vibrante quello del
Cantico, e tuttavia elusivo. I due innamorati si cercano, si incontrano,
stanno insieme. Ma improvvisamente cala il sipario e si ritrovano
distanti. Eloquente al riguardo è la struttura di questo poema
che ritengo un dramma in sei atti.1 I primi cinque
atti si aprono tutti allo stesso modo, con i due che sono separati: lui
è da una parte, lei da un'altra. Non così nell’ultimo atto dove i due
avanzano insieme, lei teneramente appoggiata all’amato. È giunto
finalmente il tempo di coronare il sogno? È giunto il tempo delle nozze,
dell’unione per sempre? Non ancora perché, a sorpresa, l’ultima parola è
il congedo. Lei dice al suo tesoro: «Corri, fuggi via!»(Ct 8,14). Così
il Cantico comincia con i due che sono separati e finisce che lo sono di
nuovo.
È la fine di tutto o ricomincia il
gioco? A mio avviso la ragazza invita l’amato a fuggire per poterlo
nuovamente attendere… Dalla struttura emerge che giunti alla fine, il
ciclo ricomincia. Si produce una sequenza ininterrotta di cercarsi,
trovarsi, godere dell’unione ma solo per breve tempo, per poi perdersi
e tornare a cercarsi. Si potrebbe ipotizzare una risposta di questo
tipo: cinque atti sono compiuti, mentre il sesto è aperto e rinvia al
settimo ancora da scrivere… o meglio, che vai scrivendo nella tua vita.
La ricerca nella
notte
La ricerca è dimensione che
attraversa l’intero Cantico, ma in due casi avviene di notte, con
angoscia e travaglio. Improvvisamente la camera da letto, luogo
dell’amore, si trasforma in luogo di terrore. «Lungo le notti», dice lei
alludendo alle veglie di una notte interminabile, <<ho cercato colui
che il mio cuore ama. L’ho cercato e non l'ho trovato…» (Ct 3,1).
Cosa è successo? Brutto sogno o
realtà? Il suo Amore se n’è andato senza avvertirla, oppure non c’è mai
stato in quel letto dove lei allunga la mano e trova il vuoto? È la
notte e il vuoto profondo di cui fanno esperienza soprattutto i mistici:
«Dove ti nascondesti in gemiti lasciandomi, o Diletto?», esclama S.
Giovanni della Croce nella prima strofa del suo Cantico spirituale.
Il poeta descrive con grande
efficacia l’angoscia della giovane innamorata che cerca senza tregua e
non si rassegna: «Aqma, mi alzerò - dice - e farò il giro della
città, per le strade e per le piazze cercherò l’amato dell’anima mia» (Ct
3,2). Non diversamente Maria di Magdala, davanti al sepolcro vuoto:
«Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto», dice
agli angeli. E al presunto giardiniere: «Se l’hai portato via tu, dimmi
dove lo hai posto e io andrò a prenderlo» (Gv 20,13.15).
L’innamorata del Cantico sfida la
notte con i suoi pericoli. S’inoltra per le strade vuote e buie della
città, cerca ad ogni angolo, chiama il suo amore, ma invano: «l’ho
cercato, ma non l’ho trovato» (Ct 3,2). Che delusione!
Ma ecco un bagliore di fiaccole, un
rumore di passi e voci maschili: sono le guardie di ronda nella città:
«Avete visto l’amore dell’anima mia?», chiede lei speranzosa. Nessuna
risposta. Come se neppure avessero udito, le sentinelle continuano
imperterrite per la loro strada. Nel secondo notturno le capiterà anche
di peggio; sarà presa, umiliata, picchiata: «Mi hanno trovata le
sentinelle che facevano la ronda per la città, mi hanno percossa, mi
hanno ferita: mi hanno strappato di dosso il mio velo…» (Ct 5,7).
Ma nel secondo notturno c’è un altro
elemento che complica la scena e ne acuisce il dramma: lei si sente in
colpa per il fatto che non è stata pronta ad aprire la porta quando lui
la chiamava. Cosa è successo? Il testo muove da una situazione di
dormi-veglia, tipica degli innamorati. Troppo bello questo brano dove
lei ripercorre l’accaduto e lo racconta:
Io dormivo, ma il mio cuore era
desto.
Voce del mio tesoro che bussa:
«Aprimi, sorella mia, amica mia,
mia colomba, mia perfetta,
perché il mio capo si è riempito di rugiada,
i miei riccioli di gocce della notte».
Ho levato la mia tunica,
come indossarla di nuovo?
Ho lavato i miei piedi
come sporcarli di nuovo?
Il mio tesoro ha allungato la sua mano
attraverso il foro,
e le mie viscere si sono commosse per lui.
Mi sono alzata, io,
per aprire al mio tesoro
e le mie mani hanno stillato mirra
e le mie dita mirra liquida
sulla maniglia del chiavistello.
Ho aperto, io, al mio tesoro,
ma il mio tesoro si era ritirato,
era partito.
La mia anima era venuta meno quando egli parlava!
L’ho cercato e non l'ho trovato,
l’ho chiamato e non mi ha risposto…
(Ct 5,2-6).
L’amato bussa, ma anzitutto parla:
«Aprimi, sorella, amica mia…». Ha i riccioli bagnati di rugiada il suo
tesoro, ha addosso l’umidità e il freddo della notte, desidera entrare e
riscaldarsi.
Strano: lei che tanto lo ama e
desidera, ora fa la ritrosa, è pigrizia o civetteria, voglia di essere
desiderata? In ogni caso, quando si accorge che lui tenta di aprirsi la
porta da sé, sollevando con la mano il chiavistello, è attraversata da
un fremito: si alza e corre ad aprire. Ma ecco, l’amato è sparito, non
c’è più. Sulla maniglia della porta è rimasta la mirra, il suo profumo,
ma lui se n’è andato. In preda all’angoscia esce allora di casa, nel
cuore della notte. Ritorna l’incubo di una ricerca che non approda a
risultato: «l’ho cercato e non l’ho trovato, l’ho chiamato e non mi ha
risposto» (Ct 5,6).
Umiliata dalle sentinelle che la
picchiano e le strappano il velo di dosso, alla giovane innamorata resta
un’ultima possibilità: rivolgersi alle amiche, le figlie di Gerusalemme.
A loro affida un messaggio: se trovano il suo tesoro dovranno dirgli che
lei è «malata d’amore» (Ct 5,8; cf. 2,5). Ha bisogno assoluto di lui,
non può farne a meno!
La tradizione giudaica ha
interpretato l’accorata richiesta di lui e la resistenza di lei come
allusiva della drammatica esperienza dell’esilio. Ma nell’Apocalisse
l’immagine dell’amato che bussa alla porta è riferita al Risorto che
dice: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi
apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap
3,20). L’Amore non fa violenza. Attende, bussa, promette intimità,
suggerita dall’immagine del cenare insieme. Ma all’Amore piace anche
giocare a nascondino e vuole essere cercato.
Mi sovviene di un racconto dei
Chassidim, narrato da Martin Buber: «Il nipote di Rabbi Baruch, il
ragazzo Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo.
Egli si nascose ben bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver
atteso a lungo uscì dal nascondiglio; ma l'altro non si vedeva. Jehiel
si accorse allora che quello non l'aveva mai cercato. Questo lo fece
piangere, piangendo corse nella stanza del nonno e si lamentò del
cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono
allora di lacrime ed egli disse: Così dice anche Dio: Io mi nascondo, ma
nessuno mi vuole cercare».2
Colui che da sempre è alla ricerca
dell’uomo, attende a sua volta di essere cercato. Anche nella notte,
fino al sorgere di un grido: «Ecco lo sposo, andategli incontro!» (Mt
25,5).
Note
-
Cf E.
Bosetti, Il cantico dei Cantici. «Tu che il mio cuore ama». San
Paolo, Milano 22006.
-
M. Buber, I
racconti dei Chassdim, Garzanti, Milano 1985, 140.
Elena Bosetti
Docente alla Pontificia Università Gregoriana
c/o Figlie della Croce
Via dell’Arancio, 68 – 00186 Roma
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