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La
società attuale vive uno strano rapporto con la realtà dell’amore. Se
utilizziamo questo termine in senso ampio, non possiamo non rico-noscere
una maggiore sensibilità rispetto al passato. Essa si manifesta, per
esempio, attraverso l’impegno nel campo della solidarietà, del
volontariato, nell’attenzione per i problemi del terzo mondo, dei
disabili: tutti ambiti pressoché ignorati dalle generazioni precedenti.
Anche l’attuale moratoria sulla pena di morte è indice di un crescente
riconoscimento del valore della persona e di un impegno nella fraternità
universale. Tuttavia, se per amore intendiamo in modo più specifico
l’affetto profondo che lega una persona ad un’altra, le cui
caratteristiche sono l’esclusività e la totalità, non riscontriamo la
stessa maturazione di cui siamo invece testimoni nell’ambito universale.
I cambiamenti notevoli, che in questi anni si sono manifestati, hanno
una qualità diversa e, più che di crescita, si dovrebbe forse parlare
d’involuzione.
All’origine di tali trasformazioni
nel vivere e concepire l’amore, possiamo collocare il modo diverso di
considerare il ruolo del soggetto all’interno della relazione. In
quest’ambito abbiamo assistito a una sorta di rivoluzione copernicana:
nel passato il soggetto si pensava come un pianeta che ruota intorno al
sole, orientato verso alcuni idea-li e valori per cui valeva la pena
vivere; ricordiamo, per esempio, la triade “patria, casa e chiesa”, che
ha motivato l’agire della maggioranza delle donne del secolo scorso,
fino a quella “data spartiacque” costituita dal sessantotto. Attualmente
invece l’Io si percepisce come un centro, verso il quale tutto deve
convergere. Tutto è pensato in funzione sua, della realizzazione
personale e questo non può che ripercuotersi anche sul modo di concepire
l’amore.
Conseguenze
La prima, e forse più drammatica,
conseguenza di tale cambiamento è la perdita di significato della
fedeltà che, a differenza di quanto avveniva in passato, ora non
costituisce più un valore. La capacità di mantenere nel tempo un
rapporto privilegiato è il naturale effetto del pensare all’amore come a
una realtà valida in sé, che supera le esigenze e gli stati d’animo dei
partner, una realtà cui si deve aderire perché costituisce un
bene oggettivo, per sé e per gli altri, in particolare per i figli, che
grazie ad esso trovano stabilità, sicurezza, fiducia. Quando la
relazione fra un uomo e una donna viene percepita non in funzione di un
ideale oggettivo, ma di un interesse soggettivo, la fedeltà perde di
significato: essa ha valore solo e fino a quando il soggetto è
coinvolto nella relazione; se quest’ultima però non suscita più
interesse, la fedeltà diventa una sorta di “cappio al collo”, un limite,
un peso di cui disfarsi, prescindendo dai sentimenti dell’altro – o
anche degli altri, se ci sono dei figli coinvolti – poiché ciò che conta
veramente è il benessere personale.
Gli effetti di tale modo di concepire
l’amore rischiano di essere drammatici: con la perdita del valore della
fedeltà, infatti, viene minato alla base un atteggiamento di fondo nei
confronti della vita, di cui abbiamo bisogno come dell’aria che
respiriamo: la fiducia. Essa presuppone una concezione dell’amore
come di una realtà duratura che, proprio perché continua nel tempo, dà
garanzie di solidità, sicurezza, stabilità. Se questa viene a mancare,
si corre il rischio di non poter più credere a nessuno e di trasformare
l’esperienza profonda dell’amore in una serie di relazioni passeggere e
frammentarie, capaci di procurare piacere o alleviare la sofferenza per
un breve lasso di tempo, finendo però per lasciare la persona ancora più
delusa e amareggiata.
Coloro che vedono nel valore della
fedeltà una minaccia all’autonomia personale e un limite alla propria
indipendenza, oltre a non prendere in considerazione gli effetti
deleteri di questa falsa libertà sui figli o sul membro più debole
all’interno della coppia, si pongono ingenuamente sempre dalla parte di
colui o colei che vuole essere libero di cambiare. Essi dimenticano che
la stessa possibilità deve essere accordata anche al partner, il
quale un giorno, sentendosi attratto da un’altra persona, potrà decidere
di abbandonarli. La tanto vituperata fedeltà, quindi, più che un laccio
rappresenta un’àncora di salvezza; essa, infatti, induce a riflettere
sull’opportunità di inter-rompere il rapporto, gesto che oggi invece
viene messo in atto con stupefacente leggerezza e superficialità.
Leggerezza e superficialità che minano le basi dell’amore: perché mai si
dovrebbe credere a un altro, quando questi si arroga il diritto di
abbandonarmi se non gli piaccio più o se qualcuno l’attrae più di quanto
non possa farlo io? Proprio da questo interrogativo nascono il sospetto
e la diffidenza, che caratterizzano la nostra società e si estendono
oltre i rapporti di coppia, inducendo a guardare gli altri – il vicino
di casa, il collega, lo straniero – con sfiducia e paura.
Superficialità nelle
relazioni
Il movimento copernicano in cui l’Io
viene posto al centro di tutto non ha però, come unica conseguenza,
l’aumento della diffidenza all’interno dei rapporti interpersonali.
Assistiamo anche a ciò che potremmo definire una perdita di
profondità nei legami. La centralità del soggetto, infatti, induce a
creare con l’altro rapporti di tipo utilitaristico. È il “per me”, i
vantaggi che io posso ottenere dall’altro, il benessere acquisito
attraverso la sua presenza, ciò che motiva la relazione. Abituata a
cercare la propria gratificazione, la persona sarà sempre più indotta a
trovarla in dimensioni superficiali dell’esistenza: il benessere
psichico e il piacere sessuale. Il partner rischierà quindi di
essere usato come un mezzo, per soddisfare i bisogni personali. Bisogni
che si possono collocare a livello psicologico, quali il desiderio di
poter mostrare a tutti di avere un partner, acquisendo così stima
e credibilità ai propri occhi o a quelli degli altri, o in ambito
sessuale. In questo caso la relazione diventa frammentata,
parcellizzata: il rapporto, infatti, s’instaura con il corpo dell’altro
o anche solo con quella parte che maggiormente attrae. La persona però
scompare, ridotta a semplice oggetto d’uso, mentre le sue esigenze,
difficoltà, paure, necessità profonde vengono negate, re-legate in un
angolo oscuro, dove forse rischieranno di rimanere per tutta la vita.
Si viene così a perdere un’altra
caratteristica essenziale dei legami profondi, fonte di gioia per coloro
che si amano davvero: l’unicità che nasce dall’esperienza dell’intimità,
dal donarsi all’altro “dicendosi”, rivelando i segreti nascosti nelle
profondità del cuore e mai consegnati a nessuno. Uno dei grandi limiti
del modo attuale di concepire l’amore sta invece nella tendenza a
proporre una visione parziale dell’intimità, limitata al puro ambito
della fisicità. Quando questa, però, non è accompagnata dall’apertura,
dal comunicare ciò che ci “abita dentro”, ingenera sospetto e favorisce
la superficialità. “Questa o quella per me pari sono”, cantava il don
Giovanni. Quest’atteggiamento nei confronti dell’amore rischia però di
diventare abituale nella nostra società: se il rapporto è limitato al
contatto superficiale con il corpo dell’altro, da cui cerco di trarre
tutto il piacere possibile, l’amore rischia di perdere quella dimensione
d’unicità, che permette di dire all’altro “tu sei mio”, non come
atteggiamento di possesso, ma come riconoscimento della preziosità ed
esclusività della sua persona e della relazione.
Prospettive
Il quadro finora descritto può
apparire alquanto pessimistico; esso, tuttavia, trova riscontri nella
realtà che ci circonda e spiega l’infelicità di molti giovani – la
generazione che dovrebbe vivere con maggior slancio e passione l’età
dell’amore – e il loro rifiuto di affrontare la vita, ricorrendo alla
fuga nei paradisi della droga e del mondo virtuale, pur di evitare la
delusione e la sofferenza nelle relazioni. La presa di coscienza dei
limiti di una società non può non interpellare il credente. Nasce,
infatti, l’urgenza di una testimonianza diversa a proposito dell’amore.
Il mondo ha bisogno di coppie la cui
vita sia in grado di “dire”, non tanto a parole ma soprattutto
attraverso l’esperienza, la bellezza di un volersi bene vissuto nella
continuità, capace di superare i conflitti e le incomprensioni e di
vivere la fedeltà non come dovere, ma come aiuto ad approfondire
l’amore. La nostra società ha bisogno di riscoprire la maternità e la
pater-nità vissuti come dono, di pensare ai figli come a una grazia e a
un mistero, e non come a un diritto, quando sono desiderati, o a un peso
di cui disfarsi, qualora non siano stati in precedenza programmati.
Non
solo le coppie cristiane, però, hanno una parola da pronunciare a
proposito dell’amore e di un impegno a cui essere fedeli. Anche la vita
consacrata, infatti, deve lasciarsi interpellare
da questa “crisi”. Essa impone una domanda a proposito della capacità
dei religiosi di offrire una testimonianza efficace, di saper parlare
dell’amore – con la vita e le parole – in un modo diverso, rispetto
all’impoverimento che esso attualmente subisce.
La verginità per il Regno,
elemento essenziale della vita consacrata, può essere risposta alla
crisi dell’amore, cui stiamo assistendo. Essa, infatti, è in funzione di
una relazione stabile, fedele, esclusiva con il Dio della vita. Conosce
la bellezza di un rapporto unico, basato su una fiducia totale, una
fiducia chiamata a crescere nel tempo, a credere all’impossibile, ad
affidarsi totalmente. La castità consacrata, inoltre, attinge alle
profondità dell’essere, rinuncia alle dimensioni più superficiali del
voler bene – l’uso dell’altro, la ricerca del piacere reciproco – per
scavare spazi nel mondo interiore e lì intessere legami profondi con
l’Amato.
Dobbiamo però domandarci se la realtà
che la vita religiosa oggi vive risponde davvero alle esigenze della
nostra chiamata. Se la verginità per il Regno può essere una
risposta all’attuale crisi dell’amore, essa deve rimanere fedele alle
motivazioni profonde per cui è nata nei primi secoli della Chiesa ed è
stata scelta da uomini e donne, desiderosi di seguire il Signore con
cuore indiviso. Ciò impone la necessità d’interrogarsi sulla
qualità della nostra testimonianza.
Il voto di castità rappresenta e
conferma davvero una scelta d’amore? Chi ci avvicina, vede in noi delle
donne capaci di relazione, donne cresciute nel dono di sé, nell’apertura
del cuore? La nostra scelta di Gesù, come unico Sposo, si è perpetuata
nel tempo non solo come fedeltà a una decisione iniziale, ma anche come
capacità di coltivare nel silenzio, nella preghiera, nella ricerca di
momenti e spazi d’interiorità, un rapporto privilegiato con Lui?
Sono questi alcuni interrogativi
doverosi per una vita consacrata che corre il rischio d’imborghesirsi e
non rimanere fedele alle motivazioni iniziali. Solo se avremo il
coraggio di porci tale domande e di conver-tire il cuore di fronte alle
nostre infedeltà, potremo diventare quei testimoni dell’amore di cui la
società contemporanea ha urgentemente bisogno.
Anna Bissi
Psicologa e psicoterapeuta
Piazza Roma, 35 – 13100
Vercelli
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