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La vita religiosa è spesso qualificata come dono, grazia,
carisma, stato di vita, consacrazione, ma assai raramente come una
risorsa. Forse per non ricadere in quella cattiva abitudine di misurarne
l’efficacia a partire dai servizi pratici che può assumersi o forse per
un pigro pregiudizio che la colloca fra le cose ormai passate e non più
capaci di vita e di servizio. La connotazione di risorsa è comunque
coerente con l’impegnativa affermazione di
Vita consecrata:
«La vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento
decisivo per la sua missione, giacché esprime l’intima natura della
vocazione cristiana e la tensione di tutta la Chiesa sposa verso
l’unione con l’unico Sposo. Al sinodo è stato più volte affermato che la
vita consacrata non ha svolto soltanto nel passato un ruolo di aiuto e
di sostegno per la Chiesa, ma che è dono prezioso e necessario anche per
il presente e per il futuro del popolo di Dio, perché appartiene
intimamente alla sua vita, alla sua santità, alla sua missione» (VC 3).
Per entrare nel tema
specifico che mi è stato dato cercherò d’indicare le correnti
sotterranee non del tutto percepite e userò un percorso non diretto.
Procedendo in forma circolare e ascensionale, da alcuni elementi più
periferici e lontani entrerò progressivamente nell’esperienza diretta
della vita consacrata, per cogliere nel suo cuore le possibilità e i
compiti del suo servizio ecclesiale. Vorrei evitare alcuni pericoli per
il nostro discernimento. Quello di annegare nelle nostre piccole
difficoltà, di trasformare le nostre contraddizioni in un giudizio
epocale e definitivo. Quello di interiorizzare uno schema inadeguato e
insufficiente: l’identificazione di tramonto con infedeltà. Un carisma
può storicamente esaurirsi (è capitato molte volte) senza che questo
significhi necessariamente corruzione e colpa. Non c’è mai stato
tantoVangelo in alcune congregazioni come davanti alla prova spirituale
della propria morte. Quello, infine, della semplificazione storica che
affida alle nuove forme della vita comune l’eredità dell’intera vita
consacrata. Non è un atto di onestà, ma di pigrizia. La storia della
Chiesa ci insegna che le nuove forme, da accettare e valorizzare come
frutto dello Spirito, si affiancano e si compongono con le esperienze
più tradizionali e coi carismi più provati.
Solidarietà dei Benedettini con i monaci birmani
Partirei da lontano,
anzi da molto lontano. Dall’estremo Oriente. Fra agosto e ottobre del
2007 i media ci hanno portato in casa le immagini suggestive e gravi
delle manifestazioni che i monaci buddisti di Myanmar (Birmania) hanno
compiuto per le strade delle città del paese e della capitale, Rangoon.
Le informazioni e le testimonianze ci hanno spiegato le ragioni
immediate della protesta (l’improvviso rialzo dei prezzi dei beni di
prima necessità), ma anche le domande più profonde di pacificazione e di
rispetto che erano il contenuto degli ordinati cortei, purtroppo
travolti dalla violenza poliziesca della dittatura locale. Le ciotole
rovesciate che le foto ci hanno mostrato dicevano con evidenza che la
tradizionale richiesta di cibo dei monaci veniva sospesa in ragione
della fame della popolazione o meglio di domande più radicali e profonde
(dalla democrazia al cibo spirituale) volutamene ignorate da un
esercizio del potere senza qualità e consenso.
Fra le molte
solidarietà espresse in quell’occasione non ha avuto l’attenzione che
avrebbe meritato una inusuale lettera dei monaci di Francia a sostegno
dell’azione dei monaci birmani. In essa i monaci e le monache di
tradizione benedettina esprimevano la loro «viva emozione e simpatia».
«La pace - così scrivevano - è la nostra divisa. Non dubitiamo che essa
sia condivisa da molti altri. Pensiamo che la ricerca della pace
alimenti la parte migliore di tutti i popoli e di tutta la nostra
umanità. In questo senso ci è impossibile non vedere negli avvenimenti
che segnano oggi la vita del vostro paese una volontà di avanzare
ulteriormente sul cammino della pace. E quindi deploriamo unanimemente
la violenta repressione messa in opera per sradicare il grande movimento
che si è svluppato dal di dentro del popolo birmano desideroso di più
grande dignità umana e libertà vera. Per noi c’è stata una grave ferita
ai diritti dell’uomo che va in senso contrario a ogni sforzo autentico
verso una pace durevole». Firmata da dom Philippe Piron, abate di
Sainte-Anne de Kergonan, a nome della Conferenza Monastica di Francia (CMF),
la lettera è, a mia conoscenza, la prima manifestazione pubblica e
formale di solidarietà istituzionale dopo decenni di rapporti personali
di studio e di frequentazione che il mondo monastico e religioso coltiva
verso le espressioni del monachesimo delle religioni orientali.
Mi è tornato alla
mente la sorpresa di molti davanti all’affermazione della comune radice
antropologica del fenomeno religioso e monastico che attraversa le
religioni, risuonata in alcune relazioni del convegno internazionale dei
religiosi e delle religiose cattoliche del 1993, in preparazione al
sinodo sulla vita consacrata che si sarebbe celebrato l’anno successivo.
Non si trattava affatto di ignorare la specifica identità cristologia ed
ecclesiologica della vita consacrata cattolica, né della vana ricerca di
un minimo comune multiplo che avrebbe costituito il dato comune del
fenomeno, prima e a prescindere dalle fedi. Era piuttosto la percezione
di una possi-bile alleanza fra uomini e donne di diverse tradizioni in
ordine alle domande spirituali del cuore umano. Come ha scritto il
cardinal T. Spidlik: il fenomeno mona-stico è «un fenomeno
universal-mente umano. In tutte le società si distinguono delle persone
che considerano il modo di vivere degli uomini, tra i quali si trovano,
non corrispondente interamente alla dignità dell’essere umano, dal
momento che la loro esistenza è turbata interiormente ed esteriormente.
Da ciò nasce il desiderio di trovare un’armonia differente con il mondo,
con Dio, con gli altri, con se stessi» (T. Splidlik-M. Tenace-R. Cemus,
Il
monachesimo secondo la tradizione dell’Oriente cristiano,
Lipa, Roma 2007, 286).
Nelle strade delle
città birmane si ripeteva un fenomeno percepito come strano sulle nostre
sponde: un ceto religioso e spirituale interpretava le domande umane più
radicali di un popolo. Come già i monaci birmani avevano fatto nel 1988
e come era successo ai cattolici delle Filippine del 1986 e a Timor nel
2002 e ancora in Sri Lanka, Vietnam del Sud, Indonesia e Tibet dove
negli ultimi giorni si sono registrate violenze e disordini attorno ai
monasteri in coincidenza con il 49° anniversario della rivolta contro il
dominio cinese. Una lunghezza d’onda che la vita consacrata e monastica
dell’Occidente percepisce come sintonica e condivisibile.
Fioritura
di comunità nelle chiese della Riforma
Un secondo passaggio
ci permette di entrare nella tradizione cristiana, ma in quella più
lontana dalla pratica e dalla valorizzazione della vita consacrata: la
tradizione protestante. Nell’aprile dell’anno scorso (2007) è uscito un
sorprendente documento di verifica e di pieno apprezzamento per le
esperienze di vita comunitaria presenti nel contesto protestante. Le
chiese evangeliche tedesche (EKD) hanno condiviso un voto del Consiglio
su «Comunità e società di vita spirituale nella Chiesa evangelica
tedesca». Si ricorda che la ragione della durissima opposizione della
Riforma ai monasteri e ai conventi era dovuta non al fatto in sé, ma ai
comportamenti e ai princìpi correlati: la sovradimensione del ruolo del
papato impediva di fatto la crescita delle chiese locali e l’elevazione
dello stato di perfezione del religioso impediva lo svilupparsi della
spiritualità legata al fatto familiare, al lavoro e all’impegno civile.
Nonostante ciò, fin dall’inizio della Riforma vi fu una sorprendente
resistenza di alcune comunità all’imperativo della dispersione e uno dei
primi riformatori, Martin Bucero, fondò nel 1546 una comunità di vita
comune. L’onda pietistica del Seicento-Settecento ha alimentato una
residuale, ma resistente domanda di vita comune fino all’esplosione
dell’esperienza diaconale durante i grandi mutamenti della rivoluzione
industriale dell’Ottocento. In parallelo alla nostra dottrina sociale
nascevano in Germania numerose forme di vita comune destinate al
servizio dei ceti disagiati e della classe operaia. Dopo la prima e la
seconda guerra mondiale del ‘900 si registrano altre ondate di interesse
per la vita consacrata. Basti ricordare la Bruderhaus di Bonhoeffer e la
comunità di Taizé.
Oggi le comunità e le
società di vita spirituale attive nelle chiese luterane e riformate
tedesche sono 234: 56 sono comunità con voti di stabile vita comune, 33
sono fraternità di vario tipo con la presenza simultanea di maschi e
femmine, 28 sono comunità di famiglie, 105 sono fraternità della
tradizione caritativa, 12 sono di indirizzo ecumenico. Dal 1978 è attiva
una conferenza delle comunità evangeliche e, dal 2003, si rinnovano gli
incontri delle società di vita spirituale.
Sono numeri
sorprendenti per quanti ritengono che la vita religiosa non esista su
quelle sponde, ma sono comunque numeri assai ridotti rispetto alla
nostra tradizione e a quella ortodossa. L’importanza di questa presenza
è in modo significativo valorizzata in correlazione con un passaggio
critico importante delle chiese evangeliche tedesche. Nel gennaio 2007
si sono radunati a Wittenberg i rappresentanti delle chiese regionali
per approvare gli orientamenti per il prossimo futuro delle chiese.
Missionarietà, identità e rinnovamento istituzionale hanno dato origine
alla proposta di alcune riforme di grande peso nell’arco dei prossimi
decenni, come la riduzione delle chiese regionali da 23 a 12, la
contrazione del numero dei pastori da 21.000 a 13.000, il rafforzamento
delle comunità dei fedeli non territoriali (le chiese dei giovani, o
quelle cittadine di passaggio), la riduzione e specializzazione delle
molte attività caritative. Le chiese evangeliche hanno perso in questi
decenni 3,4 milioni di fedeli (misurati con la specifica tassa per la
chiesa in atto in Germania) e prevedono di scendere nel prossimo futuro
dagli attuali 25 ai 17 milioni di fedeli a causa dell’azione congiunta
della secolarizzazione, della denatalità e dell’invecchiamento della
popolazione. Tutto questo si traduce in un drastico ridimensionamento
della raccolta finanziaria: si prevede di scendere dagli attuali 4 ai 2
miliardi di euro all’anno.
Tutto ciò ha spinto le
comunità protestanti (che sono ancora il cuore pulsante e teologicamente
più consistente dell’intero protestantesimo, anche se sono fortemente in
crescita le comunità neoprotestanti di recente tradizione americana) a
discernere con attenzione le nuove domande spirituali e di fede, a
rafforzare il profilo identitario e annunciante e a porre in atto le
riforme delle strutture necessarie al popolo credente nel prossimo
futuro.
Esattamente in questo
passaggio epocale è tornato ad emergere il ruolo non secondario della
vita comune e religiosa (di cui peraltro si indicano anche i possibili
limiti e le contraddizioni). Come se l’appello al profilo evangelico del
proprio futuro incrociasse inevitabilmente la dimensione della
testimonianza della vita comune. Il testo da cui siamo partiti proclama:
«Le comunità e le società di vita spirituale della tradizione
protestante sono una specifica figura della spiritualità evangelica […]
un tesoro delle Chiese evangeliche da alimentare e stabilizzare».
Rilancio della vita monastica ortodossa
Il terzo passaggio è
sul versante della vita monastica ortodossa. Si registra un singolare
rilancio, in parte dovuto alla caduta dei regimi comunisti, in parte ad
una crescente attenzione alla spiritualità. Il fenomeno del sacro monte
dell’Athos, straordinaria concentrazione di vita mona-stica della
tradizione ortodossa, conosce oggi una rinnovata centralità. All’inizio
del secolo scorso la popolazione dell’Athos contava oltre 4.700 monaci.
Dopo la rivoluzione russa che tagliò ogni alimentazione da quel paese, e
dopo la guerra civile che devastò la Grecia alla fine della seconda
guerra mondiale, il numero dei monaci è calato fino a raggiungere nel
1971 la quota minima di 1.100 presenze. In quel frangente alcune voci
posero seriamente la questione della sopravvivenza dell’Athos, ritenendo
che il monachesimo non corrispondesse più alla situazione della Chiesa.
A metà degli anni ’70 il governo dei colonnelli pensò ad uno sviluppo
turistico dell’area. Ma l’emergere di alcune figure di rilievo, proprio
in quegli anni, da padre Iosiph l’esicasta a padre Ephraim di Katounakia
a padre Paisios, ha permesso una lenta ma costante inversione di
tendenza. Ai monaci-contandini si sono via via succeduti i
monacicittadini e letterati formati a una scuola spirituale esigente. A
fine degli anni ’70 si registrarono 200 nuovi ingressi che divennero 700
a metà degli anni ’90. Oggi i monaci sono oltre i 1.700, con un’età
media molto più giovane. Pur in presenza di problemi non risolti (come
la scomunica patriarcale verso il monastero Esphigmenou, la condivisa
posizione antiecumenica, la forza corrosiva del turismo) l’Athos è
tornato ad essere un polo di riferimento per tutta l’Ortodossia. Anche
per l’Ortodossia russa che ha deciso di favorire la presenza di monaci
russi dando il via a una specifica fondazione (d’intesa col potere
politico) per sostenerli anche economicamente.
Più comprensibile e
più evidente l’espansione del fenomeno monastico nei territori del
Patriarcato russo. Parlando nel dicembre 2007 ai suoi preti, il
patriarca Alessio II ha parlato di 732 monasteri (quattro anni fa erano
650), divisi equamente fra maschili e femminili con più di
10.000 presenze. In un precedente e organico intervento del
2004 si rallegra dell’enorme sviluppo della vita monastica, ma ne indica
anche le sfide più gravi: l’emergenza costruttiva e finanziaria da un
lato e la dimensione formativa e spirituale dall’altro. «In alcuni
monasteri ci sono degli eremi (skit), dove gli asceti monaci dalla mattina presto alla sera
tardi sono occupati dalla cura degli animali domestici, dai pascoli,
dall’orto e da altre faccende dell’andamento domestico. È chiaro che la
destinazione iniziale dell’eremo come luogo di cura dell’anima e di
attenti sforzi di preghiera in questo caso si perde» (cf
Regno-documenti
1/2007,
50).
Per questo vanno
sorvegliate le domande di ingresso e va messo in opera un
accompagnamento all’altezza delle sfide attuali. Rifacendosi alla
disposizione sinodale ricorda la figura decisiva dello starec (padre
spirituale): «Gli stareci ai quali si affida il compito di seguire i
fratelli sono monaci e monache che sono progrediti nella vita
spirituale, che hanno una familiarità con la parola di Dio, con le opere
e le regole dei santi padri e capaci di guidare la vita spirituale» (Ibidem
52). Meno
della metà dei monasteri ha oggi una figura di questo tipo. Solo
dall’approfondimento spirituale, dalla pratica liturgica e sacramentale
può nascere un rinnovamento della disciplina interna e un giusto
collocamento rispetto alla gerarchia. Tenendo conto che l’autorità
monastica è spesso più riconosciuta di quella episcopale, il patriarca
si preoccupa del troppo facile riferimento dei monaci al sinodo
piuttosto che al vescovo locale.
Cirillo di Smolensk,
metropolita e responsabile del dipartimento per le relazioni
ecclesiastiche esterne del Patriarcato, ha invece sottolineato un’altra
tensione importante: quella che, nei nostri linguaggi, può essere
indicata come vita monastica e vita attiva. Ritenuta indebita la
contrapposizione di queste due esigenze tende a valorizzare la vita
accademica, sapiente, oltre che spirituale. Soprattutto per i monaci che
diventano vescovi e responsabili di funzioni ecclesiali. E indica nel
metropolita Nikodim, morto nel 1978, il riferimento di questa «scuola di
monaci sapienti».
La
vita religiosa in ambito cattolico
Dopo questa rapida
scorribanda in territori di vita comune non cattolici e non cristiani
possiamo entrare nell’ambito del cattolicesimo. Ma prima di affrontare
direttamente i servizi ecclesiali della vita consacrata accenno ad
alcune esperienze che si collocano verso il futuro della esperienza
religiosa.
La prima riguarda un
tema molto trattato negli ultimi anni dai capitoli e dalle
organizzazioni dei religiosi e delle religiose: il legame con i laici.
Nell’ottobre scorso si sono dati appuntamento a Lourdes 1500 aderenti a
famiglie spirituali che si alimentano del carisma di ordini e
congregazioni religiose. Dietro di loro si calcolano 35.000 persone che
partecipano a vario titolo ad un cammino spirituale dello stesso tipo.
Un vescovo francese mi confermava l’ampiezza del fenomeno: mentre molti
stanno guardando alle nuove comunità (su cui ritorneremo) pochi
avvertono l’emergere di questo ambito di chiesa. «All’inizio ero
contrario. Mi sembrava una fuga dalla diretta responsabilità laicale.
Anche le nuove comunità si sono rivelate poco adatte ad alimentare quel
contatto elementare e forte della fede che è tipico delle parrocchie. Mi
sembrava che anche questo fenomeno legato ai religiosi fosse più
dipendente dall’emozione che dal compito della missione. Ma mi sono
dovuto ricredere. Sono spesso le persone più attive nelle parrocchie,
più disponibili nei servizi diocesani, più generose anche in quelli
civili, che richiedono un di più di formazione, ma dentro ambiti che la
tradizione ha già ampiamente provato e verificato».
Così un mondo che si
riteneva in forte contrazione e scarsamente fecondo come quello dei
religiosi (330 congregazioni, 40.000 religiosi e religiose, 5000
comunità) ha visto fiorire attorno a sé una domanda di condivisione
spirituale inaspettata. I gruppi di laici, pur presenti in tutta la
tradizione (terz’ordini e simili), sono nati per oltre l’80% dopo gli
anni ’70 e di questi, oltre il 50% dopo il 1995. I gruppi sono cresciuti
prima con riferimento ai singoli religiosi o religiose o a particolari
comunità e poi si sono riconosciuti come «famiglia spirituale» anche
grazie al lavoro di discernimento operato dai capitoli delle famiglie
religiose. Essi cercano elementi caratterizzanti la propria sensibilità
ecclesiale e spirituale, una specifica maniera di pregare, testi biblici
ispiranti, radicati in carismi provati dalla storia della Chiesa.
La seconda non è
un’esperienza, ma una ricerca effettuata nel 2006 dalla Georgetown
University di Washington fra 259 comunità nuove ed emergenti di vita
consacrata e movimenti laicali con caratteri comunitari negli Stati
Uniti. Ad una scrematura più attenta le nuove comunità sono risultate
essere 165, distribuite in 88 diocesi e in 40 Stati dell’Unione. La
grande maggioranza delle forme emergenti è costituita da comunità
religiose in senso convenzionale, ovvero da gruppi che si propongono di
seguire i modelli tradizionali della vita religiosa, ivi compresi la
professione dei voti e la vita comune. Vi sono forme miste (con o senza
voti; maschi e femmine), appartenenze diversificate, compresenze di
famiglie. Si ha l’impressione che per un certo numero di queste comunità
la ricerca di uno statuto definitivo non sia ancora concluso. In
maggioranza sono associazioni di fedeli, pubbliche o private; poi ci
sono: un sesto di istituti religiosi veri e propri, 2 istituti secolari
e 3 società di vita apostolica.
Le spiritualità più
frequentemente evocate come riferimento sono quelle francescana,
carmelitana e benedettina. Solo dopo seguono i carismi salesiano,
domenicano, gesuita, agostiniano ecc. Un terzo delle comunità non si
identifica con alcuna delle spiritualità tradizionali e afferma di avere
una nuova visione o centro spirituale. I tratti devoti e tradizionali
(devozione mariana, riferimento al Papa, evangelizzazione diretta) si
combinano con attenzioni nuove (la povertà come stile di vita e ambito
del ministero). Il compito evangelizzante e missionario viene legato più
che alla ricerca teologica, alla preghiera, ai ritiri, alle missioni
popolari e alla catechesi. Per quanto riguarda la vita comune, essa è un
dato condiviso da oltre due terzi.
Rispetto a una
rilevazione precedente, quasi 60 comunità sono scomparse mentre 68 sono
in sviluppo, e negli ultimi 25 anni se ne sono aggiunte una ventina.
Anche dal punto di vista vocazionale le situazioni sono diverse. Solo le
esperienze monastiche non hanno problemi di entrate, mentre le altre li
hanno, anche se in misure diverse. Mentre le comunità tradizionali
calano, le nuove sono in crescita, anche se in forma diversificata e in
maniera non paragonabile allo sviluppo conosciuto dagli istituti
religiosi del XIX secolo.
Le
nuove comunità in Europa
Sul filo delle nuove
comunità statunitensi aggiungo, come terzo elemento, un accenno alle
nuove comunità dal nostro punto di vista, cioè dall’Europa. Le nuove
comunità e le nuove fondazioni hanno la loro incubazione negli anni ’40
e ’50 (cf in proposito il saggio di Giancarlo Rocca su
Informationes SCRIS,
n. 4, 2004; e n. 12/2007 di
Consacrazione e
Servizio,
19-26) quando comincia ad apparire la crisi della vita religiosa in
Occidente. L’espandersi del fenomeno della secolarizzazione, lo sviluppo
della spiritualità laicale e coniugale e il rinnovato senso della
radicalità evangelica sono alcune delle condizioni di partenza. A queste
vanno aggiunte anzitutto il Vaticano II che ha riformulato la coscienza
ecclesiale dando legittimità a tentativi guardati prima con sospetto e i
fenomeni sociali che, per esempio, alla fine degli anni ’60 hanno
facilitato il rico-noscimento di esperienze comunitarie le più diverse.
A 40-50 anni di distanza appare assai più evidente la continuità
religiosa ed ecclesiale di molte esperienze, mentre è stata rimossa la
prossimità con fenomeni come il ’68 o simili.
Incerti sono i numeri
delle fondazioni; ancora più incerti quelli degli aderenti. In linea
generale si può dire che le nuove comunità impostesi per il loro numero
sono poche. In Italia, ad esempio, i «Memores Domini» (vita comune
proposta ad alcuni del movimento Comunione e liberazione) sono circa un
migliaio. Gli appartenenti ai Focolari (quelli di vita comune) sono
circa 1.500 (820 donne, 650 maschi). Superano i cinquecento appartenenti
alcune comunità francesi come «Chemin Neuf», «Emmanuel», «Beatitudini» e
«Fondation pour un monde nouveau» e la comunità spagnola «Adsis». Delle
altre comunità quasi nessuna arriva a 100 membri. Tuttavia nell’insieme
le diverse comunità sono alcune centinaia e le persone con voti o
promesse sono alcune migliaia. Teniamo conto che le congregazioni
religiose più consistenti arrivano a circa 20.000 membri e che, nel
corso della storia, il limite massimo registrato (su periodi lunghi) è
di 40.000 persone.
Il cammino delle nuove
fondazioni (sia sul versante delle congregazioni religiose che su quello
delle associazioni laicali) non è esente da comprensibili fatiche e da
verifiche esigenti. Sapendo quanti passaggi complicati sono stati
attraversati dalle nostre famiglie religiose non dovrebbero stupirci
momenti di tensione e sofferenze sperimen-tate dalle nuove comunità.
Cito solo alcuni casi. Fra le congregazioni religiose si è imposta in
questi decenni quella dei «Legionari di Cristo»: 700 sacerdoti, 2500
seminaristi con attività pastorali in 18 paesi; 1000 laici consacrati,
65.000 membri del
Regnum Cristi,
22 centri universitari, 158 istituti scolastici, 340.000 volontari; un
ateneo pontificio (Regina Apostolorum), una università (Università
Europea), alcuni collegi, e una presenza mediale consistente
(dall’agenzia Zenit al mensile
Il Timone
dell’Editrice
A.R.T). Ma anche una censura grave della Congregazione della dottrina
della fede nei confronti del fondatore (recentemente scomparso). Oppure
la «Congregazione di San Giovanni»: quasi 600 religiosi, 200 in
formazione, presente in una ventina di paesi. Ma sottoposta a suo tempo
a critiche severe dal vescovo di riferimento (mons. S-guy di Autun) e da
una attenta vigilanza della Congregazione per i religiosi. O la Comunità
delle Beatitudini (1.500 fratelli e sorelle diffusi in 35 paesi) che
deve fare i conti con accuse presso i tribunali francesi per
comportamenti formativi pregressi, non sufficientemente sorvegliati e
attenti. O ancora la comunità francese del «Verbo di vita» (un centinaio
di aderenti con 18 comunità di Francia) che ha dovuto lasciare dietro di
sé i propri cinque fondatori per poter affrontare con chiarezza le sfide
del futuro.
Quale risorsa rappresentiamo?
Quale risorsa
rappresentano i 945.210 religiosi e religiose attivi nella Chiesa
(136.171 preti, 532 diaconi permanenti, 55.107 religiosi, 753.400
religiose), i 370.000 operanti in Europa e i 130.000 presenti in Italia?
Qual è oggi il loro possibile servizio ecclesiale? Non penso ai servizi
pratici perché ciascuna delle nostre e vostre congregazioni sa farlo.
Penso a quelle dimensioni spirituali e pastorali che danno forma alla
testimonianza cristiana oggi. Identificherei quattro assi maggiori di
riflessione. I religiosi e le religiose possono servire in maniera
originale alla vita ecclesiale nell’or-dine della sacramentalità della
comunione, della comune vocazione alla santità, nella ricerca della
spiritualità oggi, nel mantenere vive nella Chiesa alcune parole
decisive del Vaticano II (cf
Vie religieuse e
vie consacrée aujourd’hui, Documents episcopat, 5/2007).
Sacramentalità della comunione
Parlare di
sacramentalità della comunione significa rifarsi al ruolo che il termine
«sacramen-
to» ha avuto nel Vaticano II. Nel congresso internazionale
sulla vita consacrata p. J. B. Libanio ha prospettato per il futuro
della vita consacrata un’interpretazione di tipo sacramentale:
«L’espressione “sacramentalità di comunione” dev’essere spiegata. Alle
sue spalle c’è l’esperienza della Chiesa nel concilio Vaticano II. Essa
si trovava davanti al doloroso dilemma: da una parte la tradizione
ecclesiologica tridentina e del Vaticano I che sottolineavano fortemente
gli elementi esteriori dell’appartenenza alla Chiesa, dall’altra c’era
la tradizione della Riforma che insisteva sul polo opposto. […] il
concilio ha trovato nella categoria “sacramentum” un ponte tra le due
tradizioni, superando l’impasse
[...]. Il
problema fondamentale di questo modello è farsi delle domande sul senso,
il significato, la realtà interiore che le regole, le norme, i segni, i
simboli, le pratiche della vita consacrata possiedono. Se non
favoriscono nessuna esperienza personale, interiore e spirituale non
hanno ragione di essere. A sua volta se l’interiorità non si
esteriorizza in segni e pratiche, nasce il timore che la vita consacrata
diventi pura soggettività arbitraria. La struttura sacramentale si
converte in criterio di discernimento. La vita consacrata si distanzia
dalla pura interiorità, affermando l’incarnazione della grazia e
rifuggendo dal fariseismo, dal legalismo, dall’esteriorità dei riti
religiosi senza una corrispondente esperienza interiore» (J. B. Libanio,
Passione
per Cristo passione per l’umanità, Paoline, Milano 2005, 164-165).
Se la Chiesa è la casa
e la scuola della comunione, la vita consacrata, nella varietà dei suoi
carismi, ne rappresenta alcune declinazioni pratiche, una sorta di
figura sacramentale rispetto al mistero. Come si ricorda nel documento
Ripartire
da Cristo:
«In questo cammino di tutta la Chiesa si attende il decisivo contributo
della vita consacrata per la sua specifica vocazione alla vita di
comunione nell’amore. “Alle persone consacrate - si legge in
Vita consecrata
- si chiede
di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità,
come testimoni ed artefici di quel progetto di comunione che sta al
vertice della storia dell’uomo secondo Dio” (n. 46). […]. La
spiritualità di comunione si prospetta come clima spirituale della
Chiesa all’inizio del terzo millennio, compito attivo ed esemplare della
vita consacrata a tutti i livelli» (RdC 28 e 29).
Concretamente questo
significa un lavoro spirituale sulla vita comunitaria come luogo
privilegiato di comunione, e una capacità di esemplarità e dialogo con
gli altri stati di vita cristiani.
La vita comune
costituisce un luogo particolarmente suscetti-bile per significare la
comunione a cui Dio chiama tutta l’umanità. Le nostre comunità
raccolgono infatti persone che non si sono scelte, che spesso non hanno
molte affinità, ma che sono state convocate dalla comune chiamata del
Signore che le porta verso relazioni di fraternità in vista del Regno.
La fedeltà a questo cammino fa dei religiosi segni parlanti della
comunione a cui Dio convoca tutti gli uomini. Nella varietà delle sue
forme «la vita fraterna in comune è sempre apparsa come una
radicalizzazione del comune spirito fraterno che unisce tutti i
cristiani. La comunità religiosa è visibilizzazione della comunione che
fonda la Chiesa e insieme profezia dell’unità alla quale tende come sua
meta finale» (Vita
fraterna in comunità,
10).
Il
servizio profetico della comunione
L’attuale contesto
sociale ed ecclesiale rende particolarmente urgente il servizio
profetico della comunione. L’individualismo crescente e l’esposizione
sempre maggiore del singolo credente davanti alla marea
dell’agnosticismo suscitano un crescente interesse per la vita
comunitaria, come mostrano sia i movimenti ecclesiali sia le nuove
comunità e fondazioni. Ma non si tratta solo di suggestione esterna. Una
domanda rinnovata di comunità è da tempo presente nell’esperienza
interna della vita consacrata. Dopo il Concilio anche le comunità
apostoliche o quelle deputate a singole opere hanno riscoperto
l’elemento costitutivo della comunità. In altri termini, il
discernimento e il mandato comunitari sono decisivi per non fare
scivolare la propria attività e testimonianza nell’individualismo
diffuso. Tutte le esperienze relative alle «piccole comunità» o alle
«comunità inserite» o alle «comunità miste» (religiosi e laici) o alle
«comunità intercongregazionali» sono variazioni di una comune
convinzione: la priorità della comunità in quanto tale sulle molte cose
e compiti dei singoli.
Fa parte del servizio
alla sacramentalità della comunione la capacità della vita religiosa di
mantenere aperto il rapporto fra generazioni diverse (il che non
significa sacrificare le scarse generazioni giovanili al servizio
infermieristico delle numerose anziane) e di contemperare diverse
nazionalità nella stessa comunità. Il sommo demografo italiano, Massimo
Livi Bacci, a chi chiedeva quando scatta il livello di intolleranza per
la presenza straniera nella società, ha risposto: Non c’è; guardate il
Vaticano, è pieno di stranieri e non c’è nessuna crisi. Avrebbe potuto
dire: guardate le comunità religiose e non c’è nessun problema
insuperabile.
La sacramentalità
della comunione vale anche per il rap-porto con gli altri stati di vita;
per le nuove comunità e i movimenti ecclesiali. La stagione
dell’opposizione (per altro più da parte dei movimenti che dei
religiosi) è davvero alle nostre spalle. I movimenti e le nuove forme
comunitarie possono offrire un esempio di freschezza evangelica e
carismatica, come anche un impulso generoso e creativo
all’evangelizzazione. È bello vedere una certa chiarezza di vocazione,
il fervore della preghiera, il tempo dedicato alla comunità, l’amore
alla Chiesa e alla Vergine Maria. Naturalmente movimenti e comunità
possono imparare dalla vita religiosa la testimonianza serena, fedele e
carismatica come anche la custodia di un ricco patrimonio spirituale e
di esperienza ecclesiale.
La stessa profezia
comunionale vale per i laici, cui abbiamo già accennato parlando del
caso francese, e vale anche nei rapporti tra vita consacrata e gerarchia
ecclesiale. Va riconosciuto che in questo ambito, almeno per il contesto
italiano, il contenzioso è praticamente scomparso. Ho contato in questi
decenni un’ottantina di prese di posizione di vescovi italiani sul tema
della celebrazione neocatecumenale, ma non una sola lettera pubblica di
critica di un ordine religioso. Le numerose tensioni del passato sono in
gran parte (anche se non tutte) alle nostre spalle. L’accusa di
«magistero parallelo» sopravvive in qualche area dell’America Latina
(più come
slogan
che come realtà), ma
non c’è mai stato sulle nostre sponde. Semmai ora è il tempo per un
intervento saggio e calibrato volto a dare forza e sostanza ai programmi
pastorali delle Chiese locali.
La
comune vocazione alla santità
Il contributo dei
religiosi e delle religiose è prezioso in ordine alla vocazione del
popolo cristiano alla santità. I consigli evangelici non sono proprietà
dei religiosi. «Ogni rigenerato in Cristo è chiamato a vivere, con la
forza proveniente dal dono dello Spirito, la castità corrispondente al
proprio stato di vita, l’obbedienza a Dio e alla Chiesa, un ragionevole
distacco dai beni materiali, perché tutti sono chiamati alla santità,
che consiste nella perfezione della carità. Ma il battesimo non comporta
per se stesso la chiamata al celibato o alla verginità, la rinuncia al
possesso dei beni, l’obbedienza a un superiore, nella forma propria dei
consigli evangelici» (VC 30). La stessa esortazione apostolica sviluppa
lungamente la qualità di giudizio che la pratica dei voti innesta nella
vita del mondo. In un contesto edonistico, materialistico e averitativo,
la pronuncia pubblica dei voti introduce una potente forma di
interrogazione e di giudizio degli schemi culturalmente più recepiti e
non discussi. Ma la radice teologica dei voti è ancorata alla vita
trinitaria: «Il riferimento dei consigli evangelici alla Trinità santa e
santificante rivela il loro senso più profondo. Essi infatti sono
espressione dell’amore che il Figlio porta al Padre nell’unità dello
Spirito Santo. Praticandoli, la persona consacrata vive con particolare
intensità il carattere trinitario e cristologico che contrassegna tutta
la vita cristiana» (VC 21).
Vivere la castità non
è dunque in prima istanza rinunciare al matrimonio, ma sforzarsi di
amare l’altro per quello che è, sull’esempio delle Persone divine.
Vivere la povertà è certo il rifiuto del possesso dei beni, ma
soprattutto è l’accettazione e il dono di sé all’altro alla maniera
della Trinità. Così l’obbedienza. Non è anzitutto rinuncia alla propria
volontà, ma disponibilità all’ascolto per un cammino di amore alla
maniera della processione trinitaria. Insomma i voti sono un proclama
del Regno di Dio che ci libera.
Ricerca di senso e di spiritualità
La sacramentalità
della vita religiosa in ordine alla domanda di senso oggi è anzitutto il
rico-noscimento della domanda stessa. La spiritualità è la frontiera
della testimonianza cristiana. La dissipazione delle forme di vita, la
difficile costruzione dell’identità personale, lo sbriciolarsi delle
grandi narrazioni e dell’ideologia del progresso, e delle forze
associative e culturali, suggeriscono di riconoscere nel centro della
coscienza credente e non il luogo per tornare a parlare del Dio di Gesù,
dell’Abbà
del
Vangelo. Spiritualità cristiana non è semplice riconoscimento
dell’interiorità, né emozione al riparo dal rigore razionale o
dogmatico, neppure specificità non narrabile e non soggetta al
riconoscimento ecclesiale. È l’esperienza dell’uomo e della donna
credenti a mano a mano che diventano personalmente credenti, quando cioè
nel loro vissuto emerge la storia e l’immagine di Cristo. In altri
termini, quando il Cristo morto e risorto conduce il proprio discepolo o
discepola a uno stile di vita. Vi è quindi una fondamentale ed
essenziale spiritualità cristiana comune che è propria del battesimo.
Solo in riferimento ad essa prendono senso e bellezza i vari carismi di
fondazione.
Qualcosa di
profondamente diverso non solo dalla rincorsa della spiritualità di
altre religioni e di altri contesti (dal buddismo allo sciamanismo,
dalla scientologia al druidismo ecc.), ma anche rispetto a quelle vaghe
e mai verificate esigenze che accorpano la visione olistica (una
inter-pretazione complessiva e forzosamente armonica della realtà)
all’ecologismo: dall’androgenismo (forma di sessualità indistinta) al
misticismo come armonia del corpo.
È bene resistere al
«lato dimissionario dell’odierna cultura civile, che si ritrae dalle
responsabilità di indicare o anche solo riconoscere i modelli compiuti
della vita buona; e rinvia indefinitamente l’assestamento dell’esistenza
intorno alla stabilità di scelte che vanno semplicemente onorate: non
continua-mente messe in discussione» (P. Sequeri).
Se la spiritualità è
il cardine di un cristianesimo a venire e per una fede ecclesiale
vivibile, è chiaro che non si può procedere per itinerari separati: qui
la vita religiosa, là gli sposi; qui il mini-stero ordinato, là il
vissuto cristiano comune; qui il cristiano formato, là il cristiano
domenicale. Ciò che si persegue è il primato del Regno e la sapienza di
vita, l’affermazione della verità di Gesù e le mediazioni quotidiane che
persuadono rispetto alla sua bontà per tutti, l’affermazione di libertà
dai vincoli della carne e la serietà con cui si forma una famiglia e si
accolgono i piccoli che vengo alla vita.
La diversità dei
carismi è funzionale all’alimentazione della spiritualità battesimale
comune. La fedeltà alla propria spiritualità è il servizio per
rispondere alla diffusa domanda di senso. «È necessario aderire sempre
di più a Cristo, centro della vita consacrata e riprendere con vigore un
cammino di conversione e di rinnovamento che, come nell’esperienza
primigenia degli apostoli, prima e dopo la risurrezione, è stato un
ripartire
da Cristo.
[…] Ripartire da Cristo significa proclamare che la vita consacrata è
speciale sequela di Cristo, “memoria vivente del modo di esistere e di
agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai
fratelli”. Questo comporta una particolare comunione di amore con lui,
diventato il centro della vita e la fonte continua di ogni iniziativa» (RdC
21 e 22).
Nell’incontro di
Benedetto XVI con il consiglio esecutivo dei superiori e delle superiore
gene-rali, il 18 febbraio 2008, il Papa ha ricordato: «Più volte
anch’io, come già i miei venerati predecessori, ho voluto ribadire che
gli uomini di oggi avvertono un forte richiamo religioso e spirituale,
ma sono pronti ad ascoltare e seguire solo chi testimonia con coerenza
la propria adesione a Cristo» (L’Osservatore
romano, 20
febbraio 2008).
Le
parole scomparse del Vaticano II
Chiudo queste riflessioni sugli orientamenti di fondo che i
religiosi possono contribuire a rafforzare con l’accenno alle «parole
scomparse» a quei punti di riferimento conciliari che, dopo
quarant’anni, hanno visto annebbiare il loro fascino.
Povertà
Partiamo dalla
questione «povertà». Nel 1962, al Concilio, il cardinal G. Lercaro
chiedeva che la povertà fosse il «principio unificatore e vivificante»
dell’intero lavoro conciliare: «Dove cercheremo questo impulso vitale,
questa anima, diciamo veramente questa pienezza dello Spirito? Se non
proprio in questo: in un atto di sovrannaturale docilità di ciascuno di
noi e del concilio tutto all’indicazione che sembra farsi sempre più
chiara e imperativa: questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri,
questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero».
Nel documento
La vita fraterna
in comunità
si ricapitola, trent’anni dopo, il cammino compiuto dai religiosi: «La
povertà è stata in questi anni uno dei temi che più hanno appassionato e
toccato il cuore dei religiosi. La vita religiosa si è chiesta con
serietà come mettersi a disposizione dell’“evangelizare pauperibus”, ma
anche come “evangelizari a pauperibus”, come essere in grado di
lasciarsi evangelizzare dal contatto con il mondo dei poveri. In questa
grande mobilitazione i religiosi hanno scelto il programma d’essere
“tutti per i poveri”, “molti coi poveri”, “alcuni come i poveri”» (La
vita fraterna in comunità,
63). La fine delle ideologie del progresso e della rappresentanza
politica dei poveri, la loro questione è diventata invisibile e le
stesse comunità cristiane hanno conosciuto la fatica di permanere in
questa dimensione oblativa. Come religiosi siamo aiutati dalla nostra
dimensione internazionale. Dalla solidarietà coi poveri nasce una nuova
spiritualità che «accetta le purificazioni della fede e le esigenze
ascetiche di abnegazione evangelica come conseguenza di una nuova
solidarietà col mondo dei poveri. Questa nuova spiritualità appare la
condizione necessaria per rispondere al clamore dei poveri e come frutto
maturo di questa risposta» (C. Maccise,
Cento temi di vita
consacrata,
Dehoniane, Bologna 2007, 151).
Donna
Una seconda parola è
«donna». Le donne costituiscono la grande maggioranza della vita
consacrata e non sempre, annota p. Maccise, sia nella vita mona-stica
che in quella apostolica la loro identità e il loro genio sono stati
riconosciuti e valorizzati. «Non possiamo certamente negare che, a
partire dal Vaticano II, le donne consacrate hanno cominciato anche a
dire una parola dalla loro prospettiva femminile nel campo della
teologia della vita consacrata. […] Continua a predominare la
riflessione teologica maschile anche in quello che riguarda la vita
religiosa femminile, specialmente quella contemplativa, privando così la
teologia di una ricca gamma di punti di vista validi non solo per la
vita religiosa femminile, ma anche per quella maschile» (Ibidem, 364).
In una recente
intervista suor Enrica Rosanna, sottosegretario alla Congregazione per
gli Istituti di vita consacrata, sottolinea: «Mi sembra si sia fatto un
grande cammino per equiparare la vita consacrata maschile e femminile,
per liberare le religiose dalla tutela maschile, per permettere al genio
femminile di esprimere al meglio la propria ricchezza, senza
rivendicazioni sterili o, peggio, dannose. Questo non vuol dire che poi,
in pratica, non ci sia ancora un cammino da fare» (L’Osservatore
Romano,
18-19 febbraio 2008).
Chiudo con una
citazione che giudico provocatoria e interessante, quella di N. Hausman:
«Nel momento in cui le donne rassomigliano sempre più agli uomini e gli
uomini alle donne ci si può domandare se i dinamismi narcisistici,
omosessuali e infantili di onnipotenza che è necessario rapire all’altro
(parlo in quanto donna) non abbiano investito in molti aspetti la vita
consacrata. Ora uno dei problemi più difficili per la Chiesa di domani
non sarà la questione del ruolo delle donne, ma quella del posto ancora
lasciato agli uo-mini per essere se stessi secondo Dio. Per essere come
l’uomo la donna impone così all’uomo di essere meno che se stesso. E
l’uomo, per una sorta di affezione al contrario, dona alla donna di
accedere con lui al mondo narcisistico ove ciascuno rende l’altro
infecondo a forza di rassomigliargli. Ora tocca alla donna di ridonare
l’uomo a se stesso rendendolo sposo e padre, come tocca all’uomo di
ridare la donna a se stessa nell’amore e nella maternità».
Parola
La «Parola» è la terza
questione decisiva. Non si può certo dire che essa sia scomparsa
dall’agenda ecclesiale. La vicinanza e la pratica della Scrittura
connotano molti aspetti di questi decenni postconciliari. Ne
rappresentano anzi una fra le caratteristiche maggiori. E, tuttavia,
proprio nei
Lineamenta
del prossimo
sinodo, che sarà dedicato alla Parola di Dio, si denuncia una certa
fatica di allargare l’approccio alla Parola: «Nonostante tante
insistenze, occorre ammettere che la maggioranza dei cristiani non ha
contatto effettivo e personale con la Scrittura, e quelli che lo hanno
vivono non piccole incertezze teologiche e metodologiche in vista della
comunicazione. […]. Diventa indispensabile una promozione pastorale
robusta e credibile della Parola» (Regno-documenti,
9/2007,
271).
La vita consacrata ha
in questo un compito rilevante, non solo in ordine all’allargamento
della pratica della Scrittura, ma anche a quell’affidabile approccio che
unisce competenza e devozione, comunità e singoli che è la
lectio divina.
La vita consacrata è una sorta di ermeneutica ecclesiale degli
acta et passa
di Cristo,
in particolare nel rapporto con la forma di vita che egli ha scelto per
se stesso e che la Vergine Madre ha abbracciato. Non è frutto di una
pretesa ecclesiale, ma del compito dei discepoli di testimoniare il
mistero del Cristo incar-nato. Per questo la vita consacrata è una
interpretazione viva e una lettura veramente spirituale delle parole del
Signore contenute nel Vangelo. È quindi prossima sia all’origine del
mistero di Gesù sia alla fine del compimento del Regno.
«La vita consacrata
non rappresenta solamente una sorta di lettura spirituale della
Scrittura, ma anche una delle interpretazioni più autentiche, poiché vi
si attesta come - così come afferma Ignazio di Loyola alla fine degli
Esercizi
spirituali
- l’amore debba collocarsi più nelle opere che nelle parole. Ciò
significa che questa tradizione ecclesiale è capace d’ispirare non solo
quelli e quelle che vi partecipano, ma ancora gli altri stati di vita
che essa continua a confermare» (N. Hausman).
Segni dei tempi
La quarta parola è
«segni dei tempi». Anche in questo caso non si tratta di rimozione. In
molti modi e per molte vie ci vengono ricordate le caratteristiche
peculiari e caratterizzanti la nostra generazione e la contemporaneità.
Quello che invece sembra succedere confrontando l’uso del termine
all’inizio del Concilio ed oggi è un singolare rovesciamento di fronti.
Mentre allora l’espressione connotava con forza elementi anche positivi
del vivere civile e del processo storico, oggi la Chiesa sembra tornata
(perché vi è una ben lunga traccia in merito nella predicazione
ecclesiastica dei secoli precedenti) a denunciare con pertinenza i
fenomeni negativi senza adeguato sforzo d’indicare anche quelli
positivi. Un approccio preoccupato e negativo che si sposa bene con le
«passioni tristi» che connotano lo Zeit Geist, lo spirito dei nostri
giorni.
Per questo è utile che
la vita consacrata si faccia carico, all’interno di quell’ermeneutica
conciliare, che Benedetto XVI ha indicato come «Ermeneutica della
riforma», di indicare con la sapienza del Vangelo i segni positivi che
appaiono anche oggi. Di compiere cioè lo stesso gesto di Giovanni XXXIII
nella bolla
Humanae salutis
con cui il
25 dicembre 1961 indisse il Vaticano II. Il documento, richiamandosi
all’unico passo neotestamentario in cui quest’esortazione compare in
modo esplicito (Mt 16,4), riproponeva la raccomandazione di saper
leggere il proprio tempo individuando la presenza in mezzo a molte
tenebre di non pochi indizi che fanno sperare a proposito della Chiesa e
dell’umanità.
Nei successivi
documenti conciliari sono apparsi molti riconoscimenti coerenti con
quell’invito: l’irreversibile e crescente senso di solidarietà fra i
popoli, l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso
della donna nella vita pubblica, l’indipendenza dei popoli, la carta dei
diritti e le costituzioni, il ricorso ai negoziati per porre fine ai
contrasti, la presenza di organismi internazionali. Alcuni di questi
titoli mostrano subito la loro struttura di promesse non adeguatamente
mantenute, e tuttavia rimane a noi il compito di alimentare il dono del
discernimento sulla storia di oggi. Di rifare quel gesto, ad un tempo di
vicinanza e profezia, che ha consentito alla Chiesa di rinnovare «come
aquila la sua giovinezza» (Sal 103,5).
Lorenzo Prezzi
Direttore
de «Il Regno documenti e attualità»
Via Nosadella, 6 - 40123 Bologna
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