n. 7/8
luglio/agosto 2008

 

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Spiritualità, santità, domanda di senso
Una prospettiva teologico-pastorale

di LORENZO PREZZI

 

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La vita religiosa è spesso qualificata come dono, grazia, carisma, stato di vita, consacrazione, ma assai raramente come una risorsa. Forse per non ricadere in quella cattiva abitudine di misurarne l’efficacia a partire dai servizi pratici che può assumersi o forse per un pigro pregiudizio che la colloca fra le cose ormai passate e non più capaci di vita e di servizio. La connotazione di risorsa è comunque coerente con l’impegnativa affermazione di Vita consecrata: «La vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché esprime l’intima natura della vocazione cristiana e la tensione di tutta la Chiesa sposa verso l’unione con l’unico Sposo. Al sinodo è stato più volte affermato che la vita consacrata non ha svolto soltanto nel passato un ruolo di aiuto e di sostegno per la Chiesa, ma che è dono prezioso e necessario anche per il presente e per il futuro del popolo di Dio, perché appartiene intimamente alla sua vita, alla sua santità, alla sua missione» (VC 3).

Per entrare nel tema specifico che mi è stato dato cercherò d’indicare le correnti sotterranee non del tutto percepite e userò un percorso non diretto. Procedendo in forma circolare e ascensionale, da alcuni elementi più periferici e lontani entrerò progressivamente nell’esperienza diretta della vita consacrata, per cogliere nel suo cuore le possibilità e i compiti del suo servizio ecclesiale. Vorrei evitare alcuni pericoli per il nostro discernimento. Quello di annegare nelle nostre piccole difficoltà, di trasformare le nostre contraddizioni in un giudizio epocale e definitivo. Quello di interiorizzare uno schema inadeguato e insufficiente: l’identificazione di tramonto con infedeltà. Un carisma può storicamente esaurirsi (è capitato molte volte) senza che questo significhi necessariamente corruzione e colpa. Non c’è mai stato tantoVangelo in alcune congregazioni come davanti alla prova spirituale della propria morte. Quello, infine, della semplificazione storica che affida alle nuove forme della vita comune l’eredità dell’intera vita consacrata. Non è un atto di onestà, ma di pigrizia. La storia della Chiesa ci insegna che le nuove forme, da accettare e valorizzare come frutto dello Spirito, si affiancano e si compongono con le esperienze più tradizionali e coi carismi più provati.

Solidarietà dei Benedettini con i monaci birmani

Partirei da lontano, anzi da molto lontano. Dall’estremo Oriente. Fra agosto e ottobre del 2007 i media ci hanno portato in casa le immagini suggestive e gravi delle manifestazioni che i monaci buddisti di Myanmar (Birmania) hanno compiuto per le strade delle città del paese e della capitale, Rangoon. Le informazioni e le testimonianze ci hanno spiegato le ragioni immediate della protesta (l’improvviso rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità), ma anche le domande più profonde di pacificazione e di rispetto che erano il contenuto degli ordinati cortei, purtroppo travolti dalla violenza poliziesca della dittatura locale. Le ciotole rovesciate che le foto ci hanno mostrato dicevano con evidenza che la tradizionale richiesta di cibo dei monaci veniva sospesa in ragione della fame della popolazione o meglio di domande più radicali e profonde (dalla democrazia al cibo spirituale) volutamene ignorate da un esercizio del potere senza qualità e consenso.

Fra le molte solidarietà espresse in quell’occasione non ha avuto l’attenzione che avrebbe meritato una inusuale lettera dei monaci di Francia a sostegno dell’azione dei monaci birmani. In essa i monaci e le monache di tradizione benedettina esprimevano la loro «viva emozione e simpatia». «La pace - così scrivevano - è la nostra divisa. Non dubitiamo che essa sia condivisa da molti altri. Pensiamo che la ricerca della pace alimenti la parte migliore di tutti i popoli e di tutta la nostra umanità. In questo senso ci è impossibile non vedere negli avvenimenti che segnano oggi la vita del vostro paese una volontà di avanzare ulteriormente sul cammino della pace. E quindi deploriamo unanimemente la violenta repressione messa in opera per sradicare il grande movimento che si è svluppato dal di dentro del popolo birmano desideroso di più grande dignità umana e libertà vera. Per noi c’è stata una grave ferita ai diritti dell’uomo che va in senso contrario a ogni sforzo autentico verso una pace durevole». Firmata da dom Philippe Piron, abate di Sainte-Anne de Kergonan, a nome della Conferenza Monastica di Francia (CMF), la lettera è, a mia conoscenza, la prima manifestazione pubblica e formale di solidarietà istituzionale dopo decenni di rapporti personali di studio e di frequentazione che il mondo monastico e religioso coltiva verso le espressioni del monachesimo delle religioni orientali.

Mi è tornato alla mente la sorpresa di molti davanti all’affermazione della comune radice antropologica del fenomeno religioso e monastico che attraversa le religioni, risuonata in alcune relazioni del convegno internazionale dei religiosi e delle religiose cattoliche del 1993, in preparazione al sinodo sulla vita consacrata che si sarebbe celebrato l’anno successivo. Non si trattava affatto di ignorare la specifica identità cristologia ed ecclesiologica della vita consacrata cattolica, né della vana ricerca di un minimo comune multiplo che avrebbe costituito il dato comune del fenomeno, prima e a prescindere dalle fedi. Era piuttosto la percezione di una possi-bile alleanza fra uomini e donne di diverse tradizioni in ordine alle domande spirituali del cuore umano. Come ha scritto il cardinal T. Spidlik: il fenomeno mona-stico è «un fenomeno universal-mente umano. In tutte le società si distinguono delle persone che considerano il modo di vivere degli uomini, tra i quali si trovano, non corrispondente interamente alla dignità dell’essere umano, dal momento che la loro esistenza è turbata interiormente ed esteriormente. Da ciò nasce il desiderio di trovare un’armonia differente con il mondo, con Dio, con gli altri, con se stessi» (T. Splidlik-M. Tenace-R. Cemus, Il monachesimo secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Lipa, Roma 2007, 286).

Nelle strade delle città birmane si ripeteva un fenomeno percepito come strano sulle nostre sponde: un ceto religioso e spirituale interpretava le domande umane più radicali di un popolo. Come già i monaci birmani avevano fatto nel 1988 e come era successo ai cattolici delle Filippine del 1986 e a Timor nel 2002 e ancora in Sri Lanka, Vietnam del Sud, Indonesia e Tibet dove negli ultimi giorni si sono registrate violenze e disordini attorno ai monasteri in coincidenza con il 49° anniversario della rivolta contro il dominio cinese. Una lunghezza d’onda che la vita consacrata e monastica dell’Occidente percepisce come sintonica e condivisibile.

 Fioritura di comunità nelle chiese della Riforma

Un secondo passaggio ci permette di entrare nella tradizione cristiana, ma in quella più lontana dalla pratica e dalla valorizzazione della vita consacrata: la tradizione protestante. Nell’aprile dell’anno scorso (2007) è uscito un sorprendente documento di verifica e di pieno apprezzamento per le esperienze di vita comunitaria presenti nel contesto protestante. Le chiese evangeliche tedesche (EKD) hanno condiviso un voto del Consiglio su «Comunità e società di vita spirituale nella Chiesa evangelica tedesca». Si ricorda che la ragione della durissima opposizione della Riforma ai monasteri e ai conventi era dovuta non al fatto in sé, ma ai comportamenti e ai princìpi correlati: la sovradimensione del ruolo del papato impediva di fatto la crescita delle chiese locali e l’elevazione dello stato di perfezione del religioso impediva lo svilupparsi della spiritualità legata al fatto familiare, al lavoro e all’impegno civile. Nonostante ciò, fin dall’inizio della Riforma vi fu una sorprendente resistenza di alcune comunità all’imperativo della dispersione e uno dei primi riformatori, Martin Bucero, fondò nel 1546 una comunità di vita comune. L’onda pietistica del Seicento-Settecento ha alimentato una residuale, ma resistente domanda di vita comune fino all’esplosione dell’esperienza diaconale durante i grandi mutamenti della rivoluzione industriale dell’Ottocento. In parallelo alla nostra dottrina sociale nascevano in Germania numerose forme di vita comune destinate al servizio dei ceti disagiati e della classe operaia. Dopo la prima e la seconda guerra mondiale del ‘900 si registrano altre ondate di interesse per la vita consacrata. Basti ricordare la Bruderhaus di Bonhoeffer e la comunità di Taizé.

Oggi le comunità e le società di vita spirituale attive nelle chiese luterane e riformate tedesche sono 234: 56 sono comunità con voti di stabile vita comune, 33 sono fraternità di vario tipo con la presenza simultanea di maschi e femmine, 28 sono comunità di famiglie, 105 sono fraternità della tradizione caritativa, 12 sono di indirizzo ecumenico. Dal 1978 è attiva una conferenza delle comunità evangeliche e, dal 2003, si rinnovano gli incontri delle società di vita spirituale.

Sono numeri sorprendenti per quanti ritengono che la vita religiosa non esista su quelle sponde, ma sono comunque numeri assai ridotti rispetto alla nostra tradizione e a quella ortodossa. L’importanza di questa presenza è in modo significativo valorizzata in correlazione con un passaggio critico importante delle chiese evangeliche tedesche. Nel gennaio 2007 si sono radunati a Wittenberg i rappresentanti delle chiese regionali per approvare gli orientamenti per il prossimo futuro delle chiese. Missionarietà, identità e rinnovamento istituzionale hanno dato origine alla proposta di alcune riforme di grande peso nell’arco dei prossimi decenni, come la riduzione delle chiese regionali da 23 a 12, la contrazione del numero dei pastori da 21.000 a 13.000, il rafforzamento delle comunità dei fedeli non territoriali (le chiese dei giovani, o quelle cittadine di passaggio), la riduzione e specializzazione delle molte attività caritative. Le chiese evangeliche hanno perso in questi decenni 3,4 milioni di fedeli (misurati con la specifica tassa per la chiesa in atto in Germania) e prevedono di scendere nel prossimo futuro dagli attuali 25 ai 17 milioni di fedeli a causa dell’azione congiunta della secolarizzazione, della denatalità e dell’invecchiamento della popolazione. Tutto questo si traduce in un drastico ridimensionamento della raccolta finanziaria: si prevede di scendere dagli attuali 4 ai 2 miliardi di euro all’anno.

Tutto ciò ha spinto le comunità protestanti (che sono ancora il cuore pulsante e teologicamente più consistente dell’intero protestantesimo, anche se sono fortemente in crescita le comunità neoprotestanti di recente tradizione americana) a discernere con attenzione le nuove domande spirituali e di fede, a rafforzare il profilo identitario e annunciante e a porre in atto le riforme delle strutture necessarie al popolo credente nel prossimo futuro.

Esattamente in questo passaggio epocale è tornato ad emergere il ruolo non secondario della vita comune e religiosa (di cui peraltro si indicano anche i possibili limiti e le contraddizioni). Come se l’appello al profilo evangelico del proprio futuro incrociasse inevitabilmente la dimensione della testimonianza della vita comune. Il testo da cui siamo partiti proclama: «Le comunità e le società di vita spirituale della tradizione protestante sono una specifica figura della spiritualità evangelica […] un tesoro delle Chiese evangeliche da alimentare e stabilizzare».

Rilancio della vita monastica ortodossa

Il terzo passaggio è sul versante della vita monastica ortodossa. Si registra un singolare rilancio, in parte dovuto alla caduta dei regimi comunisti, in parte ad una crescente attenzione alla spiritualità. Il fenomeno del sacro monte dell’Athos, straordinaria concentrazione di vita mona-stica della tradizione ortodossa, conosce oggi una rinnovata centralità. All’inizio del secolo scorso la popolazione dell’Athos contava oltre 4.700 monaci. Dopo la rivoluzione russa che tagliò ogni alimentazione da quel paese, e dopo la guerra civile che devastò la Grecia alla fine della seconda guerra mondiale, il numero dei monaci è calato fino a raggiungere nel 1971 la quota minima di 1.100 presenze. In quel frangente alcune voci posero seriamente la questione della sopravvivenza dell’Athos, ritenendo che il monachesimo non corrispondesse più alla situazione della Chiesa. A metà degli anni ’70 il governo dei colonnelli pensò ad uno sviluppo turistico dell’area. Ma l’emergere di alcune figure di rilievo, proprio in quegli anni, da padre Iosiph l’esicasta a padre Ephraim di Katounakia a padre Paisios, ha permesso una lenta ma costante inversione di tendenza. Ai monaci-contandini si sono via via succeduti i monacicittadini e letterati formati a una scuola spirituale esigente. A fine degli anni ’70 si registrarono 200 nuovi ingressi che divennero 700 a metà degli anni ’90. Oggi i monaci sono oltre i 1.700, con un’età media molto più giovane. Pur in presenza di problemi non risolti (come la scomunica patriarcale verso il monastero Esphigmenou, la condivisa posizione antiecumenica, la forza corrosiva del turismo) l’Athos è tornato ad essere un polo di riferimento per tutta l’Ortodossia. Anche per l’Ortodossia russa che ha deciso di favorire la presenza di monaci russi dando il via a una specifica fondazione (d’intesa col potere politico) per sostenerli anche economicamente.

Più comprensibile e più evidente l’espansione del fenomeno monastico nei territori del Patriarcato russo. Parlando nel dicembre 2007 ai suoi preti, il patriarca Alessio II ha parlato di 732 monasteri (quattro anni fa erano 650), divisi equamente fra maschili e femminili con più di

10.000 presenze. In un precedente e organico intervento del 2004 si rallegra dell’enorme sviluppo della vita monastica, ma ne indica anche le sfide più gravi: l’emergenza costruttiva e finanziaria da un lato e la dimensione formativa e spirituale dall’altro. «In alcuni monasteri ci sono degli eremi (skit), dove gli asceti monaci dalla mattina presto alla sera tardi sono occupati dalla cura degli animali domestici, dai pascoli, dall’orto e da altre faccende dell’andamento domestico. È chiaro che la destinazione iniziale dell’eremo come luogo di cura dell’anima e di attenti sforzi di preghiera in questo caso si perde» (cf Regno-documenti 1/2007, 50).

Per questo vanno sorvegliate le domande di ingresso e va messo in opera un accompagnamento all’altezza delle sfide attuali. Rifacendosi alla disposizione sinodale ricorda la figura decisiva dello starec (padre spirituale): «Gli stareci ai quali si affida il compito di seguire i fratelli sono monaci e monache che sono progrediti nella vita spirituale, che hanno una familiarità con la parola di Dio, con le opere e le regole dei santi padri e capaci di guidare la vita spirituale» (Ibidem 52). Meno della metà dei monasteri ha oggi una figura di questo tipo. Solo dall’approfondimento spirituale, dalla pratica liturgica e sacramentale può nascere un rinnovamento della disciplina interna e un giusto collocamento rispetto alla gerarchia. Tenendo conto che l’autorità monastica è spesso più riconosciuta di quella episcopale, il patriarca si preoccupa del troppo facile riferimento dei monaci al sinodo piuttosto che al vescovo locale.

Cirillo di Smolensk, metropolita e responsabile del dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato, ha invece sottolineato un’altra tensione importante: quella che, nei nostri linguaggi, può essere indicata come vita monastica e vita attiva. Ritenuta indebita la contrapposizione di queste due esigenze tende a valorizzare la vita accademica, sapiente, oltre che spirituale. Soprattutto per i monaci che diventano vescovi e responsabili di funzioni ecclesiali. E indica nel metropolita Nikodim, morto nel 1978, il riferimento di questa «scuola di monaci sapienti».

La vita religiosa in ambito cattolico

Dopo questa rapida scorribanda in territori di vita comune non cattolici e non cristiani possiamo entrare nell’ambito del cattolicesimo. Ma prima di affrontare direttamente i servizi ecclesiali della vita consacrata accenno ad alcune esperienze che si collocano verso il futuro della esperienza religiosa.

La prima riguarda un tema molto trattato negli ultimi anni dai capitoli e dalle organizzazioni dei religiosi e delle religiose: il legame con i laici. Nell’ottobre scorso si sono dati appuntamento a Lourdes 1500 aderenti a famiglie spirituali che si alimentano del carisma di ordini e congregazioni religiose. Dietro di loro si calcolano 35.000 persone che partecipano a vario titolo ad un cammino spirituale dello stesso tipo. Un vescovo francese mi confermava l’ampiezza del fenomeno: mentre molti stanno guardando alle nuove comunità (su cui ritorneremo) pochi avvertono l’emergere di questo ambito di chiesa. «All’inizio ero contrario. Mi sembrava una fuga dalla diretta responsabilità laicale. Anche le nuove comunità si sono rivelate poco adatte ad alimentare quel contatto elementare e forte della fede che è tipico delle parrocchie. Mi sembrava che anche questo fenomeno legato ai religiosi fosse più dipendente dall’emozione che dal compito della missione. Ma mi sono dovuto ricredere. Sono spesso le persone più attive nelle parrocchie, più disponibili nei servizi diocesani, più generose anche in quelli civili, che richiedono un di più di formazione, ma dentro ambiti che la tradizione ha già ampiamente provato e verificato».

Così un mondo che si riteneva in forte contrazione e scarsamente fecondo come quello dei religiosi (330 congregazioni, 40.000 religiosi e religiose, 5000 comunità) ha visto fiorire attorno a sé una domanda di condivisione spirituale inaspettata. I gruppi di laici, pur presenti in tutta la tradizione (terz’ordini e simili), sono nati per oltre l’80% dopo gli anni ’70 e di questi, oltre il 50% dopo il 1995. I gruppi sono cresciuti prima con riferimento ai singoli religiosi o religiose o a particolari comunità e poi si sono riconosciuti come «famiglia spirituale» anche grazie al lavoro di discernimento operato dai capitoli delle famiglie religiose. Essi cercano elementi caratterizzanti la propria sensibilità ecclesiale e spirituale, una specifica maniera di pregare, testi biblici ispiranti, radicati in carismi provati dalla storia della Chiesa.

La seconda non è un’esperienza, ma una ricerca effettuata nel 2006 dalla Georgetown University di Washington fra 259 comunità nuove ed emergenti di vita consacrata e movimenti laicali con caratteri comunitari negli Stati Uniti. Ad una scrematura più attenta le nuove comunità sono risultate essere 165, distribuite in 88 diocesi e in 40 Stati dell’Unione. La grande maggioranza delle forme emergenti è costituita da comunità religiose in senso convenzionale, ovvero da gruppi che si propongono di seguire i modelli tradizionali della vita religiosa, ivi compresi la professione dei voti e la vita comune. Vi sono forme miste (con o senza voti; maschi e femmine), appartenenze diversificate, compresenze di famiglie. Si ha l’impressione che per un certo numero di queste comunità la ricerca di uno statuto definitivo non sia ancora concluso. In maggioranza sono associazioni di fedeli, pubbliche o private; poi ci sono: un sesto di istituti religiosi veri e propri, 2 istituti secolari e 3 società di vita apostolica.

Le spiritualità più frequentemente evocate come riferimento sono quelle francescana, carmelitana e benedettina. Solo dopo seguono i carismi salesiano, domenicano, gesuita, agostiniano ecc. Un terzo delle comunità non si identifica con alcuna delle spiritualità tradizionali e afferma di avere una nuova visione o centro spirituale. I tratti devoti e tradizionali (devozione mariana, riferimento al Papa, evangelizzazione diretta) si combinano con attenzioni nuove (la povertà come stile di vita e ambito del ministero). Il compito evangelizzante e missionario viene legato più che alla ricerca teologica, alla preghiera, ai ritiri, alle missioni popolari e alla catechesi. Per quanto riguarda la vita comune, essa è un dato condiviso da oltre due terzi.

Rispetto a una rilevazione precedente, quasi 60 comunità sono scomparse mentre 68 sono in sviluppo, e negli ultimi 25 anni se ne sono aggiunte una ventina. Anche dal punto di vista vocazionale le situazioni sono diverse. Solo le esperienze monastiche non hanno problemi di entrate, mentre le altre li hanno, anche se in misure diverse. Mentre le comunità tradizionali calano, le nuove sono in crescita, anche se in forma diversificata e in maniera non paragonabile allo sviluppo conosciuto dagli istituti religiosi del XIX secolo.

Le nuove comunità in Europa

Sul filo delle nuove comunità statunitensi aggiungo, come terzo elemento, un accenno alle nuove comunità dal nostro punto di vista, cioè dall’Europa. Le nuove comunità e le nuove fondazioni hanno la loro incubazione negli anni ’40 e ’50 (cf in proposito il saggio di Giancarlo Rocca su Informationes SCRIS, n. 4, 2004; e n. 12/2007 di Consacrazione e Servizio, 19-26) quando comincia ad apparire la crisi della vita religiosa in Occidente. L’espandersi del fenomeno della secolarizzazione, lo sviluppo della spiritualità laicale e coniugale e il rinnovato senso della radicalità evangelica sono alcune delle condizioni di partenza. A queste vanno aggiunte anzitutto il Vaticano II che ha riformulato la coscienza ecclesiale dando legittimità a tentativi guardati prima con sospetto e i fenomeni sociali che, per esempio, alla fine degli anni ’60 hanno facilitato il rico-noscimento di esperienze comunitarie le più diverse. A 40-50 anni di distanza appare assai più evidente la continuità religiosa ed ecclesiale di molte esperienze, mentre è stata rimossa la prossimità con fenomeni come il ’68 o simili.

Incerti sono i numeri delle fondazioni; ancora più incerti quelli degli aderenti. In linea generale si può dire che le nuove comunità impostesi per il loro numero sono poche. In Italia, ad esempio, i «Memores Domini» (vita comune proposta ad alcuni del movimento Comunione e liberazione) sono circa un migliaio. Gli appartenenti ai Focolari (quelli di vita comune) sono circa 1.500 (820 donne, 650 maschi). Superano i cinquecento appartenenti alcune comunità francesi come «Chemin Neuf», «Emmanuel», «Beatitudini» e «Fondation pour un monde nouveau» e la comunità spagnola «Adsis». Delle altre comunità quasi nessuna arriva a 100 membri. Tuttavia nell’insieme le diverse comunità sono alcune centinaia e le persone con voti o promesse sono alcune migliaia. Teniamo conto che le congregazioni religiose più consistenti arrivano a circa 20.000 membri e che, nel corso della storia, il limite massimo registrato (su periodi lunghi) è di 40.000 persone.

Il cammino delle nuove fondazioni (sia sul versante delle congregazioni religiose che su quello delle associazioni laicali) non è esente da comprensibili fatiche e da verifiche esigenti. Sapendo quanti passaggi complicati sono stati attraversati dalle nostre famiglie religiose non dovrebbero stupirci momenti di tensione e sofferenze sperimen-tate dalle nuove comunità. Cito solo alcuni casi. Fra le congregazioni religiose si è imposta in questi decenni quella dei «Legionari di Cristo»: 700 sacerdoti, 2500 seminaristi con attività pastorali in 18 paesi; 1000 laici consacrati, 65.000 membri del Regnum Cristi, 22 centri universitari, 158 istituti scolastici, 340.000 volontari; un ateneo pontificio (Regina Apostolorum), una università (Università Europea), alcuni collegi, e una presenza mediale consistente (dall’agenzia Zenit al mensile Il Timone dell’Editrice A.R.T). Ma anche una censura grave della Congregazione della dottrina della fede nei confronti del fondatore (recentemente scomparso). Oppure la «Congregazione di San Giovanni»: quasi 600 religiosi, 200 in formazione, presente in una ventina di paesi. Ma sottoposta a suo tempo a critiche severe dal vescovo di riferimento (mons. S-guy di Autun) e da una attenta vigilanza della Congregazione per i religiosi. O la Comunità delle Beatitudini (1.500 fratelli e sorelle diffusi in 35 paesi) che deve fare i conti con accuse presso i tribunali francesi per comportamenti formativi pregressi, non sufficientemente sorvegliati e attenti. O ancora la comunità francese del «Verbo di vita» (un centinaio di aderenti con 18 comunità di Francia) che ha dovuto lasciare dietro di sé i propri cinque fondatori per poter affrontare con chiarezza le sfide del futuro.

Quale risorsa rappresentiamo?

Quale risorsa rappresentano i 945.210 religiosi e religiose attivi nella Chiesa (136.171 preti, 532 diaconi permanenti, 55.107 religiosi, 753.400 religiose), i 370.000 operanti in Europa e i 130.000 presenti in Italia? Qual è oggi il loro possibile servizio ecclesiale? Non penso ai servizi pratici perché ciascuna delle nostre e vostre congregazioni sa farlo. Penso a quelle dimensioni spirituali e pastorali che danno forma alla testimonianza cristiana oggi. Identificherei quattro assi maggiori di riflessione. I religiosi e le religiose possono servire in maniera originale alla vita ecclesiale nell’or-dine della sacramentalità della comunione, della comune vocazione alla santità, nella ricerca della spiritualità oggi, nel mantenere vive nella Chiesa alcune parole decisive del Vaticano II (cf Vie religieuse e vie consacrée aujourd’hui, Documents episcopat, 5/2007).

Sacramentalità della comunione

Parlare di sacramentalità della comunione significa rifarsi al ruolo che il termine «sacramen-

to» ha avuto nel Vaticano II. Nel congresso internazionale sulla vita consacrata p. J. B. Libanio ha prospettato per il futuro della vita consacrata un’interpretazione di tipo sacramentale: «L’espressione “sacramentalità di comunione” dev’essere spiegata. Alle sue spalle c’è l’esperienza della Chiesa nel concilio Vaticano II. Essa si trovava davanti al doloroso dilemma: da una parte la tradizione ecclesiologica tridentina e del Vaticano I che sottolineavano fortemente gli elementi esteriori dell’appartenenza alla Chiesa, dall’altra c’era la tradizione della Riforma che insisteva sul polo opposto. […] il concilio ha trovato nella categoria “sacramentum” un ponte tra le due tradizioni, superando l’impasse [...]. Il problema fondamentale di questo modello è farsi delle domande sul senso, il significato, la realtà interiore che le regole, le norme, i segni, i simboli, le pratiche della vita consacrata possiedono. Se non favoriscono nessuna esperienza personale, interiore e spirituale non hanno ragione di essere. A sua volta se l’interiorità non si esteriorizza in segni e pratiche, nasce il timore che la vita consacrata diventi pura soggettività arbitraria. La struttura sacramentale si converte in criterio di discernimento. La vita consacrata si distanzia dalla pura interiorità, affermando l’incarnazione della grazia e rifuggendo dal fariseismo, dal legalismo, dall’esteriorità dei riti religiosi senza una corrispondente esperienza interiore» (J. B. Libanio, Passione per Cristo passione per l’umanità, Paoline, Milano 2005, 164-165).

Se la Chiesa è la casa e la scuola della comunione, la vita consacrata, nella varietà dei suoi carismi, ne rappresenta alcune declinazioni pratiche, una sorta di figura sacramentale rispetto al mistero. Come si ricorda nel documento Ripartire da Cristo: «In questo cammino di tutta la Chiesa si attende il decisivo contributo della vita consacrata per la sua specifica vocazione alla vita di comunione nell’amore. “Alle persone consacrate - si legge in Vita consecrata - si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come testimoni ed artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio” (n. 46). […]. La spiritualità di comunione si prospetta come clima spirituale della Chiesa all’inizio del terzo millennio, compito attivo ed esemplare della vita consacrata a tutti i livelli» (RdC 28 e 29).

Concretamente questo significa un lavoro spirituale sulla vita comunitaria come luogo privilegiato di comunione, e una capacità di esemplarità e dialogo con gli altri stati di vita cristiani.

La vita comune costituisce un luogo particolarmente suscetti-bile per significare la comunione a cui Dio chiama tutta l’umanità. Le nostre comunità raccolgono infatti persone che non si sono scelte, che spesso non hanno molte affinità, ma che sono state convocate dalla comune chiamata del Signore che le porta verso relazioni di fraternità in vista del Regno. La fedeltà a questo cammino fa dei religiosi segni parlanti della comunione a cui Dio convoca tutti gli uomini. Nella varietà delle sue forme «la vita fraterna in comune è sempre apparsa come una radicalizzazione del comune spirito fraterno che unisce tutti i cristiani. La comunità religiosa è visibilizzazione della comunione che fonda la Chiesa e insieme profezia dell’unità alla quale tende come sua meta finale» (Vita fraterna in comunità, 10).

Il servizio profetico della comunione

L’attuale contesto sociale ed ecclesiale rende particolarmente urgente il servizio profetico della comunione. L’individualismo crescente e l’esposizione sempre maggiore del singolo credente davanti alla marea dell’agnosticismo suscitano un crescente interesse per la vita comunitaria, come mostrano sia i movimenti ecclesiali sia le nuove comunità e fondazioni. Ma non si tratta solo di suggestione esterna. Una domanda rinnovata di comunità è da tempo presente nell’esperienza interna della vita consacrata. Dopo il Concilio anche le comunità apostoliche o quelle deputate a singole opere hanno riscoperto l’elemento costitutivo della comunità. In altri termini, il discernimento e il mandato comunitari sono decisivi per non fare scivolare la propria attività e testimonianza nell’individualismo diffuso. Tutte le esperienze relative alle «piccole comunità» o alle «comunità inserite» o alle «comunità miste» (religiosi e laici) o alle «comunità intercongregazionali» sono variazioni di una comune convinzione: la priorità della comunità in quanto tale sulle molte cose e compiti dei singoli.

Fa parte del servizio alla sacramentalità della comunione la capacità della vita religiosa di mantenere aperto il rapporto fra generazioni diverse (il che non significa sacrificare le scarse generazioni giovanili al servizio infermieristico delle numerose anziane) e di contemperare diverse nazionalità nella stessa comunità. Il sommo demografo italiano, Massimo Livi Bacci, a chi chiedeva quando scatta il livello di intolleranza per la presenza straniera nella società, ha risposto: Non c’è; guardate il Vaticano, è pieno di stranieri e non c’è nessuna crisi. Avrebbe potuto dire: guardate le comunità religiose e non c’è nessun problema insuperabile.

La sacramentalità della comunione vale anche per il rap-porto con gli altri stati di vita; per le nuove comunità e i movimenti ecclesiali. La stagione dell’opposizione (per altro più da parte dei movimenti che dei religiosi) è davvero alle nostre spalle. I movimenti e le nuove forme comunitarie possono offrire un esempio di freschezza evangelica e carismatica, come anche un impulso generoso e creativo all’evangelizzazione. È bello vedere una certa chiarezza di vocazione, il fervore della preghiera, il tempo dedicato alla comunità, l’amore alla Chiesa e alla Vergine Maria. Naturalmente movimenti e comunità possono imparare dalla vita religiosa la testimonianza serena, fedele e carismatica come anche la custodia di un ricco patrimonio spirituale e di esperienza ecclesiale.

La stessa profezia comunionale vale per i laici, cui abbiamo già accennato parlando del caso francese, e vale anche nei rapporti tra vita consacrata e gerarchia ecclesiale. Va riconosciuto che in questo ambito, almeno per il contesto italiano, il contenzioso è praticamente scomparso. Ho contato in questi decenni un’ottantina di prese di posizione di vescovi italiani sul tema della celebrazione neocatecumenale, ma non una sola lettera pubblica di critica di un ordine religioso. Le numerose tensioni del passato sono in gran parte (anche se non tutte) alle nostre spalle. L’accusa di «magistero parallelo» sopravvive in qualche area dell’America Latina (più come slogan che come realtà), ma non c’è mai stato sulle nostre sponde. Semmai ora è il tempo per un intervento saggio e calibrato volto a dare forza e sostanza ai programmi pastorali delle Chiese locali.

La comune vocazione alla santità

Il contributo dei religiosi e delle religiose è prezioso in ordine alla vocazione del popolo cristiano alla santità. I consigli evangelici non sono proprietà dei religiosi. «Ogni rigenerato in Cristo è chiamato a vivere, con la forza proveniente dal dono dello Spirito, la castità corrispondente al proprio stato di vita, l’obbedienza a Dio e alla Chiesa, un ragionevole distacco dai beni materiali, perché tutti sono chiamati alla santità, che consiste nella perfezione della carità. Ma il battesimo non comporta per se stesso la chiamata al celibato o alla verginità, la rinuncia al possesso dei beni, l’obbedienza a un superiore, nella forma propria dei consigli evangelici» (VC 30). La stessa esortazione apostolica sviluppa lungamente la qualità di giudizio che la pratica dei voti innesta nella vita del mondo. In un contesto edonistico, materialistico e averitativo, la pronuncia pubblica dei voti introduce una potente forma di interrogazione e di giudizio degli schemi culturalmente più recepiti e non discussi. Ma la radice teologica dei voti è ancorata alla vita trinitaria: «Il riferimento dei consigli evangelici alla Trinità santa e santificante rivela il loro senso più profondo. Essi infatti sono espressione dell’amore che il Figlio porta al Padre nell’unità dello Spirito Santo. Praticandoli, la persona consacrata vive con particolare intensità il carattere trinitario e cristologico che contrassegna tutta la vita cristiana» (VC 21).

Vivere la castità non è dunque in prima istanza rinunciare al matrimonio, ma sforzarsi di amare l’altro per quello che è, sull’esempio delle Persone divine. Vivere la povertà è certo il rifiuto del possesso dei beni, ma soprattutto è l’accettazione e il dono di sé all’altro alla maniera della Trinità. Così l’obbedienza. Non è anzitutto rinuncia alla propria volontà, ma disponibilità all’ascolto per un cammino di amore alla maniera della processione trinitaria. Insomma i voti sono un proclama del Regno di Dio che ci libera.

Ricerca di senso e di spiritualità

La sacramentalità della vita religiosa in ordine alla domanda di senso oggi è anzitutto il rico-noscimento della domanda stessa. La spiritualità è la frontiera della testimonianza cristiana. La dissipazione delle forme di vita, la difficile costruzione dell’identità personale, lo sbriciolarsi delle grandi narrazioni e dell’ideologia del progresso, e delle forze associative e culturali, suggeriscono di riconoscere nel centro della coscienza credente e non il luogo per tornare a parlare del Dio di Gesù, dell’Abbà del Vangelo. Spiritualità cristiana non è semplice riconoscimento dell’interiorità, né emozione al riparo dal rigore razionale o dogmatico, neppure specificità non narrabile e non soggetta al riconoscimento ecclesiale. È l’esperienza dell’uomo e della donna credenti a mano a mano che diventano personalmente credenti, quando cioè nel loro vissuto emerge la storia e l’immagine di Cristo. In altri termini, quando il Cristo morto e risorto conduce il proprio discepolo o discepola a uno stile di vita. Vi è quindi una fondamentale ed essenziale spiritualità cristiana comune che è propria del battesimo. Solo in riferimento ad essa prendono senso e bellezza i vari carismi di fondazione.

Qualcosa di profondamente diverso non solo dalla rincorsa della spiritualità di altre religioni e di altri contesti (dal buddismo allo sciamanismo, dalla scientologia al druidismo ecc.), ma anche rispetto a quelle vaghe e mai verificate esigenze che accorpano la visione olistica (una inter-pretazione complessiva e forzosamente armonica della realtà) all’ecologismo: dall’androgenismo (forma di sessualità indistinta) al misticismo come armonia del corpo.

È bene resistere al «lato dimissionario dell’odierna cultura civile, che si ritrae dalle responsabilità di indicare o anche solo riconoscere i modelli compiuti della vita buona; e rinvia indefinitamente l’assestamento dell’esistenza intorno alla stabilità di scelte che vanno semplicemente onorate: non continua-mente messe in discussione» (P. Sequeri).

Se la spiritualità è il cardine di un cristianesimo a venire e per una fede ecclesiale vivibile, è chiaro che non si può procedere per itinerari separati: qui la vita religiosa, là gli sposi; qui il mini-stero ordinato, là il vissuto cristiano comune; qui il cristiano formato, là il cristiano domenicale. Ciò che si persegue è il primato del Regno e la sapienza di vita, l’affermazione della verità di Gesù e le mediazioni quotidiane che persuadono rispetto alla sua bontà per tutti, l’affermazione di libertà dai vincoli della carne e la serietà con cui si forma una famiglia e si accolgono i piccoli che vengo alla vita.

La diversità dei carismi è funzionale all’alimentazione della spiritualità battesimale comune. La fedeltà alla propria spiritualità è il servizio per rispondere alla diffusa domanda di senso. «È necessario aderire sempre di più a Cristo, centro della vita consacrata e riprendere con vigore un cammino di conversione e di rinnovamento che, come nell’esperienza primigenia degli apostoli, prima e dopo la risurrezione, è stato un ripartire da Cristo. […] Ripartire da Cristo significa proclamare che la vita consacrata è speciale sequela di Cristo, “memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli”. Questo comporta una particolare comunione di amore con lui, diventato il centro della vita e la fonte continua di ogni iniziativa» (RdC 21 e 22).

Nell’incontro di Benedetto XVI con il consiglio esecutivo dei superiori e delle superiore gene-rali, il 18 febbraio 2008, il Papa ha ricordato: «Più volte anch’io, come già i miei venerati predecessori, ho voluto ribadire che gli uomini di oggi avvertono un forte richiamo religioso e spirituale, ma sono pronti ad ascoltare e seguire solo chi testimonia con coerenza la propria adesione a Cristo» (L’Osservatore romano, 20 febbraio 2008).

Le parole scomparse del Vaticano II

Chiudo queste riflessioni sugli orientamenti di fondo che i religiosi possono contribuire a rafforzare con l’accenno alle «parole scomparse» a quei punti di riferimento conciliari che, dopo quarant’anni, hanno visto annebbiare il loro fascino.

Povertà

Partiamo dalla questione «povertà». Nel 1962, al Concilio, il cardinal G. Lercaro chiedeva che la povertà fosse il «principio unificatore e vivificante» dell’intero lavoro conciliare: «Dove cercheremo questo impulso vitale, questa anima, diciamo veramente questa pienezza dello Spirito? Se non proprio in questo: in un atto di sovrannaturale docilità di ciascuno di noi e del concilio tutto all’indicazione che sembra farsi sempre più chiara e imperativa: questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero».

Nel documento La vita fraterna in comunità si ricapitola, trent’anni dopo, il cammino compiuto dai religiosi: «La povertà è stata in questi anni uno dei temi che più hanno appassionato e toccato il cuore dei religiosi. La vita religiosa si è chiesta con serietà come mettersi a disposizione dell’“evangelizare pauperibus”, ma anche come “evangelizari a pauperibus”, come essere in grado di lasciarsi evangelizzare dal contatto con il mondo dei poveri. In questa grande mobilitazione i religiosi hanno scelto il programma d’essere “tutti per i poveri”, “molti coi poveri”, “alcuni come i poveri”» (La vita fraterna in comunità, 63). La fine delle ideologie del progresso e della rappresentanza politica dei poveri, la loro questione è diventata invisibile e le stesse comunità cristiane hanno conosciuto la fatica di permanere in questa dimensione oblativa. Come religiosi siamo aiutati dalla nostra dimensione internazionale. Dalla solidarietà coi poveri nasce una nuova spiritualità che «accetta le purificazioni della fede e le esigenze ascetiche di abnegazione evangelica come conseguenza di una nuova solidarietà col mondo dei poveri. Questa nuova spiritualità appare la condizione necessaria per rispondere al clamore dei poveri e come frutto maturo di questa risposta» (C. Maccise, Cento temi di vita consacrata, Dehoniane, Bologna 2007, 151).

Donna

Una seconda parola è «donna». Le donne costituiscono la grande maggioranza della vita consacrata e non sempre, annota p. Maccise, sia nella vita mona-stica che in quella apostolica la loro identità e il loro genio sono stati riconosciuti e valorizzati. «Non possiamo certamente negare che, a partire dal Vaticano II, le donne consacrate hanno cominciato anche a dire una parola dalla loro prospettiva femminile nel campo della teologia della vita consacrata. […] Continua a predominare la riflessione teologica maschile anche in quello che riguarda la vita religiosa femminile, specialmente quella contemplativa, privando così la teologia di una ricca gamma di punti di vista validi non solo per la vita religiosa femminile, ma anche per quella maschile» (Ibidem, 364).

In una recente intervista suor Enrica Rosanna, sottosegretario alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata, sottolinea: «Mi sembra si sia fatto un grande cammino per equiparare la vita consacrata maschile e femminile, per liberare le religiose dalla tutela maschile, per permettere al genio femminile di esprimere al meglio la propria ricchezza, senza rivendicazioni sterili o, peggio, dannose. Questo non vuol dire che poi, in pratica, non ci sia ancora un cammino da fare» (L’Osservatore Romano, 18-19 febbraio 2008).

Chiudo con una citazione che giudico provocatoria e interessante, quella di N. Hausman: «Nel momento in cui le donne rassomigliano sempre più agli uomini e gli uomini alle donne ci si può domandare se i dinamismi narcisistici, omosessuali e infantili di onnipotenza che è necessario rapire all’altro (parlo in quanto donna) non abbiano investito in molti aspetti la vita consacrata. Ora uno dei problemi più difficili per la Chiesa di domani non sarà la questione del ruolo delle donne, ma quella del posto ancora lasciato agli uo-mini per essere se stessi secondo Dio. Per essere come l’uomo la donna impone così all’uomo di essere meno che se stesso. E l’uomo, per una sorta di affezione al contrario, dona alla donna di accedere con lui al mondo narcisistico ove ciascuno rende l’altro infecondo a forza di rassomigliargli. Ora tocca alla donna di ridonare l’uomo a se stesso rendendolo sposo e padre, come tocca all’uomo di ridare la donna a se stessa nell’amore e nella maternità».

Parola

La «Parola» è la terza questione decisiva. Non si può certo dire che essa sia scomparsa dall’agenda ecclesiale. La vicinanza e la pratica della Scrittura connotano molti aspetti di questi decenni postconciliari. Ne rappresentano anzi una fra le caratteristiche maggiori. E, tuttavia, proprio nei Lineamenta del prossimo sinodo, che sarà dedicato alla Parola di Dio, si denuncia una certa fatica di allargare l’approccio alla Parola: «Nonostante tante insistenze, occorre ammettere che la maggioranza dei cristiani non ha contatto effettivo e personale con la Scrittura, e quelli che lo hanno vivono non piccole incertezze teologiche e metodologiche in vista della comunicazione. […]. Diventa indispensabile una promozione pastorale robusta e credibile della Parola» (Regno-documenti, 9/2007, 271).

La vita consacrata ha in questo un compito rilevante, non solo in ordine all’allargamento della pratica della Scrittura, ma anche a quell’affidabile approccio che unisce competenza e devozione, comunità e singoli che è la lectio divina. La vita consacrata è una sorta di ermeneutica ecclesiale degli acta et passa di Cristo, in particolare nel rapporto con la forma di vita che egli ha scelto per se stesso e che la Vergine Madre ha abbracciato. Non è frutto di una pretesa ecclesiale, ma del compito dei discepoli di testimoniare il mistero del Cristo incar-nato. Per questo la vita consacrata è una interpretazione viva e una lettura veramente spirituale delle parole del Signore contenute nel Vangelo. È quindi prossima sia all’origine del mistero di Gesù sia alla fine del compimento del Regno.

«La vita consacrata non rappresenta solamente una sorta di lettura spirituale della Scrittura, ma anche una delle interpretazioni più autentiche, poiché vi si attesta come - così come afferma Ignazio di Loyola alla fine degli Esercizi spirituali - l’amore debba collocarsi più nelle opere che nelle parole. Ciò significa che questa tradizione ecclesiale è capace d’ispirare non solo quelli e quelle che vi partecipano, ma ancora gli altri stati di vita che essa continua a confermare» (N. Hausman).

Segni dei tempi

La quarta parola è «segni dei tempi». Anche in questo caso non si tratta di rimozione. In molti modi e per molte vie ci vengono ricordate le caratteristiche peculiari e caratterizzanti la nostra generazione e la contemporaneità. Quello che invece sembra succedere confrontando l’uso del termine all’inizio del Concilio ed oggi è un singolare rovesciamento di fronti. Mentre allora l’espressione connotava con forza elementi anche positivi del vivere civile e del processo storico, oggi la Chiesa sembra tornata (perché vi è una ben lunga traccia in merito nella predicazione ecclesiastica dei secoli precedenti) a denunciare con pertinenza i fenomeni negativi senza adeguato sforzo d’indicare anche quelli positivi. Un approccio preoccupato e negativo che si sposa bene con le «passioni tristi» che connotano lo Zeit Geist, lo spirito dei nostri giorni.

Per questo è utile che la vita consacrata si faccia carico, all’interno di quell’ermeneutica conciliare, che Benedetto XVI ha indicato come «Ermeneutica della riforma», di indicare con la sapienza del Vangelo i segni positivi che appaiono anche oggi. Di compiere cioè lo stesso gesto di Giovanni XXXIII nella bolla Humanae salutis con cui il 25 dicembre 1961 indisse il Vaticano II. Il documento, richiamandosi all’unico passo neotestamentario in cui quest’esortazione compare in modo esplicito (Mt 16,4), riproponeva la raccomandazione di saper leggere il proprio tempo individuando la presenza in mezzo a molte tenebre di non pochi indizi che fanno sperare a proposito della Chiesa e dell’umanità.

Nei successivi documenti conciliari sono apparsi molti riconoscimenti coerenti con quell’invito: l’irreversibile e crescente senso di solidarietà fra i popoli, l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica, l’indipendenza dei popoli, la carta dei diritti e le costituzioni, il ricorso ai negoziati per porre fine ai contrasti, la presenza di organismi internazionali. Alcuni di questi titoli mostrano subito la loro struttura di promesse non adeguatamente mantenute, e tuttavia rimane a noi il compito di alimentare il dono del discernimento sulla storia di oggi. Di rifare quel gesto, ad un tempo di vicinanza e profezia, che ha consentito alla Chiesa di rinnovare «come aquila la sua giovinezza» (Sal 103,5).

 

Lorenzo Prezzi
Direttore de «Il Regno documenti e attualità»
Via Nosadella, 6 - 40123 Bologna

   

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