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Non
è facile dal di fuori cogliere in profondità l’animo femminile; né è più
facile entrare nel circolo misterioso e interiore, “spirituale” in senso
stretto (dico, di Spirito Santo) che muove alla scelta della vita
religiosa e, in aggiunta, nella sua forma radicale. Ebbene, questo
romanzo di Luciano Marigo,
La stanza del cuore,
Editrice Santi Quaranta, Treviso 22004, ci riesce, e come! Mi si
consenta di aggiungere che è verosimile, nei personaggi, nella vicenda,
nelle luci e ombre di una vita nascosta, non poi così tanto diversa
dalla vita vissuta al di fuori.
La giovane aspirante
attrice
La trama è presto
detta: un monastero, una santa da pubblicizzare – come sottrarsi al
fascino d’averne nutrita almeno
una nel proprio monastero? – e, modernamente, un film da girare che
metta in circolo la vicenda e con essa la vita religiosa, i suoi ritmi,
le sue idealità, i suoi silenzi, le sue modalità impervie e
normalissime, incomprensibili dall’esterno, scontate e ovvie all’interno.
Se già questa pista
inventiva - l’ambientazione di un film - ci immette nel circolo
dell’oggi, a maggior ragione ciò avviene in forza della presunta o
prevista protagonista, Cristiana, una giovane donna che dovrebbe
impersonare la santa e che per tale ragione bussa alla porta del monastero per
vivere da vicino la vita delle monache e dunque entrare nel personaggio.
Il fatto è che questa giovanissima donna, che con un piccolo trucco si
aumenta gli anni, di problemi ne ha tanti.
Il romanzo si apre con
l’incontro di lei con Simone, un pittoresco psicanalista che dovrebbe –
se collabora – tirarla fuori dai suoi molteplici problemi, soprattutto
dall’anoressia. Sì, la nostra protagonista ha un rapporto perverso con
il cibo e le ragioni emergono subito: pessimo rapporto con la madre e
con il padre, ovviamente separati e in conflitto. Di qui la voglia di
vivere la sua vita, anche sbagliando, seguendo l’estro del momento; da
ultimo la passione per la recitazione (e per il regista). Insomma, a
impersonare la santa – e non entriamo nei dettagli – dovrebbe essere una
ragazza d’oggi piena di problemi irrisolti e, a maggior ragione, lontana
non solo dalla santità, ma da qualsiasi prossimità alla vita religiosa.
Il suo squinternato
mondo interiore entra immediatamente in conflitto con quello monastico,
tanto più che da una parte – sia pure con qualche dubbio – c’è
innanzitutto la voglia di sponsorizzare suor Crocifissa e la sua
santità; dall’altra – quella di Cristiana - c’è solo l’esigenza, e
quanto basta, di carpire quegli atteggiamenti, quei gesti che davanti
alla macchina da presa possano rendere plausibile il personaggio.
Stride, dunque, la
materna e sapiente comprensione della priora (Cristiana, ma non
soltanto, sente il suo sguardo che le legge dentro) e delle monache,
ognuna nel suo genere, con il vissuto della protagonista, chiusa a
riccio nei suoi problemi, desiderosa solo di nasconderli e comunque
impegnata a non lasciare che quelle strane interlocutrici possano farle
breccia dentro.
È ovvio, tuttavia, che
il consentirle d’acquisire gli strumenti per impersonare la santa
obblighi la comunità a delle deroghe: prende i pasti nel refettorio
monastico, ad esempio; le viene assegnata una cella monastica in luogo
di una stanza nella foresteria, ma soprattutto le si mette a fianco una
giovanissima monaca, anzi una novizia, che penetra immediatamente, benché sulle prime
respinta, oltre la barriera che l’aspirante attrice frappone. Alla
domanda impertinente e irritata: «che senso ha?» - Cristiana si
riferisce alla vita religiosa - la giovane risponde: «la prima cosa che
devi tenere a mente è che la fede è un grande amore» (p. 81).
La testimone di un
dramma
Il
clou
della vicenda è la
morte di suor Benedetta, l’ultima monaca che possa testimoniare la
santità di suor Crocifissa, anzi, che ne è stata la più appassionata
testimone. Nella sua agonia Cristiana viene suo malgrado coinvolta, con
reazioni bene immaginabili: da una parte, l’orrore della morte cui per
la prima volta assiste; dall’altra il gergo, il condursi, il viverla,
anche nei suoi paradossi, le mostrano un mondo ben diverso da quello a
cui è abituata e la scuotono profondamente. Ad esempio, pensare la morte
come il ricongiungersi di due sposi che hanno celebrato le nozze per
procura e che ora finalmente s’incontreranno per la prima volta, con
tutta l’emozione che comporta il conoscere finalmente il volto dello
sposo, per così tanto tempo negato, meglio, solo immaginato.
Suor Benedetta chiede e
ottiene d’essere portata nella stalla, sulla carrozzella dove suor
Crocifissa, dopo un incidente occorsole proprio in quel luogo, ha
trascorso l’intera sua vita. Lì, infatti, si è svolto il dramma di cui è
stata l’unica testimone.
Suor Crocifissa si era
fatta monaca, più per raziocino elitario – scegliere la parte migliore -
che per innamoramento vero. Giovane studiosa, già impegnata nella
ricerca universitaria, aveva continuato in monastero i suoi studi
prediletti, editando pregevoli saggi, e fingendosi “santa”, ossia
vivendo di testa e non di cuore le regole tutte della vita scelta.
Paradossalmente però questa santità formale, del tutto avulsa da una
santità vera, dopo soli cinque anni l’aveva condotta a una crisi
disperante. Proprio nella stalla era andata per porre fine ai suoi
giorni, senza tuttavia riuscirvi, per l’arrivo improvviso di suor
Benedetta che l’aveva raccolta agonizzante - era caduta dal soppalco,
prima di riuscire a impiccarsi - e che, fatte sparire le tracce del
tentato suicidio, a tutte aveva sempre detto d’essersi lì recata alla
ricerca di una gallina ovaiola scomparsa da più giorni.
Il fatto è che nella
“esperienza” della malattia, e poi della paralisi, suor Crocifissa ha
incontrato l’Amato, è entrata nella “stanza del cuore” - «il Signore è
venuto a cercarmi al confine tra la vita e la morte e in quel crepuscolo
spaventoso è tornato a sedurmi […] la carrozzella sulla quale passo le
mie giornate è la mano dolce e forte del Signore che mi sorregge» (p.
154) -. Ha vissuto e sperimentato, e non più per volontaristica
assunzione di forme caparbiamente osservate, il senso vero, profondo,
della sua scelta. Da questo momento la sua santità è divenuta reale e non
esteriore soltanto. Insomma, da questo momento è la conversione,
l’aprirsi senza rete, senza barriere, senza schemi prefissati, alla
presenza amante dello Sposo.
L’ineffabile segreto
svelato
Questo segreto, il
tentato suicidio, suor Benedetta compartirà con le “due” suor Crocifisse
che chiede l’accompagnino nelle sue ultime ore: la giovane novizia, che,
appunto, ha ricevuto questo nome entrando in monastero, la giovane
attrice che la santa deve impersonare.
Va detto che questo
“segreto” a tutti ignoto - sarà svelato dopo le esequie di suor
Benedetta a partire da una lettera a futura memoria scritta dalla santa
- viene intuito da alcune monache poco inclini a va lutare nel senso
della santità la vicenda della paralitica. Per queste, ella ha ostentato
una santità non vera.
Questo conflitto tra
favorevoli e non, supportato com’è anche da autorevoli figure
ecclesiastiche, alla fine segnerà l’abbandono del progetto
cinematografico. Tuttavia, l’incalzare degli eventi, delle atmosfere,
delle parole dette e non dette, di quelle piuttosto intuite, pur nella
lotta spasmodica ingaggiata all’interno, porterà la giovane aspirante
attrice a capire che la sua vita, i suoi problemi, solo in quel
monastero possono trovare risposta. La vedremo uscire con naturalezza
dall’anoressia, pregare senza sapere ancora di stare pregando, entrare
nella “stanza del cuore”, nell’esperienza dell’Amato, non senza che la
sua carne si ribelli, non senza tuttavia che alla fine in Lui ella si
acquieti.
E tutto ciò mentre,
nelle loro stesse ondulazioni di simpatia e di ostilità, le monache
intuiscono il suo percorso. Soprattutto lo intuiscono la priora e la
giovane novizia, non meno di quanto lo abbia intuito suor Benedetta,
l’umile e illetterata ma sapiente cuoca, che l’ha voluta accanto a sé
nell’agonia e la cui stretta Cristiana-Crocifissa non è riuscita a
sciogliere, malgrado la paura e la repulsione, malgrado lo stupore
dell’incredibile morire di cui è stata testimone.
La stanza del cuore
è il titolo
di un libricino scritto dalla santa. «“E io senza te non sono io”.
Questo straordinario grido dell’anima innamorata dichiara quanto è
strutturalmente decisiva la relazione amorosa persino rispetto alla
identità dell’io. Questo vale per ogni grande amore, purché sigillato
dall’unicità e dalla fedeltà. Ma per nessun amore quelle parole valgono
quanto per l’amore dell’anima cristiana che della cella cuore ha fatto
il luogo segreto e inaccessibile dell’incontro con il suo Amato » (p.
165). Queste le parole, certo non semplici, lette a lei dalla giovane
suor Crocifissa, svelano a Cristiana il senso vero della sua vita e la
introducono, appunto, nella “stanza
del cuore”. Ora anch’essa può provare a comprendere il senso della
frase: «la fede è un grande amore».
Cettina Militello
Docente alla
Pontificia Facoltà Teologica «Marianum»
Viale di Villa Pamphili,
20 - int. 13/A - 00152 Roma
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