n. 7
luglio/agosto 2009

 

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La stanza del cuore

di CETTINA MILITELLO

 

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Non è facile dal di fuori cogliere in profondità l’animo femminile; né è più facile entrare nel circolo misterioso e interiore, “spirituale” in senso stretto (dico, di Spirito Santo) che muove alla scelta della vita religiosa e, in aggiunta, nella sua forma radicale. Ebbene, questo romanzo di Luciano Marigo, La stanza del cuore, Editrice Santi Quaranta, Treviso 22004, ci riesce, e come! Mi si consenta di aggiungere che è verosimile, nei personaggi, nella vicenda, nelle luci e ombre di una vita nascosta, non poi così tanto diversa dalla vita vissuta al di fuori.

La giovane aspirante attrice

La trama è presto detta: un monastero, una santa da pubblicizzare – come sottrarsi al fascino d’averne nutrita almeno una nel proprio monastero? – e, modernamente, un film da girare che metta in circolo la vicenda e con essa la vita religiosa, i suoi ritmi, le sue idealità, i suoi silenzi, le sue modalità impervie e normalissime, incomprensibili dall’esterno, scontate e ovvie all’interno.

Se già questa pista inventiva - l’ambientazione di un film - ci immette nel circolo dell’oggi, a maggior ragione ciò avviene in forza della presunta o prevista protagonista, Cristiana, una giovane donna che dovrebbe impersonare la santa e che per tale ragione bussa alla porta del monastero per vivere da vicino la vita delle monache e dunque entrare nel personaggio. Il fatto è che questa giovanissima donna, che con un piccolo trucco si aumenta gli anni, di problemi ne ha tanti.

Il romanzo si apre con l’incontro di lei con Simone, un pittoresco psicanalista che dovrebbe – se collabora – tirarla fuori dai suoi molteplici problemi, soprattutto dall’anoressia. Sì, la nostra protagonista ha un rapporto perverso con il cibo e le ragioni emergono subito: pessimo rapporto con la madre e con il padre, ovviamente separati e in conflitto. Di qui la voglia di vivere la sua vita, anche sbagliando, seguendo l’estro del momento; da ultimo la passione per la recitazione (e per il regista). Insomma, a impersonare la santa – e non entriamo nei dettagli – dovrebbe essere una ragazza d’oggi piena di problemi irrisolti e, a maggior ragione, lontana non solo dalla santità, ma da qualsiasi prossimità alla vita religiosa.

Il suo squinternato mondo interiore entra immediatamente in conflitto con quello monastico, tanto più che da una parte – sia pure con qualche dubbio – c’è innanzitutto la voglia di sponsorizzare suor Crocifissa e la sua santità; dall’altra – quella di Cristiana - c’è solo l’esigenza, e quanto basta, di carpire quegli atteggiamenti, quei gesti che davanti alla macchina da presa possano rendere plausibile il personaggio.

Stride, dunque, la materna e sapiente comprensione della priora (Cristiana, ma non soltanto, sente il suo sguardo che le legge dentro) e delle monache, ognuna nel suo genere, con il vissuto della protagonista, chiusa a riccio nei suoi problemi, desiderosa solo di nasconderli e comunque impegnata a non lasciare che quelle strane interlocutrici possano farle breccia dentro.

È ovvio, tuttavia, che il consentirle d’acquisire gli strumenti per impersonare la santa obblighi la comunità a delle deroghe: prende i pasti nel refettorio monastico, ad esempio; le viene assegnata una cella monastica in luogo di una stanza nella foresteria, ma soprattutto le si mette a fianco una giovanissima monaca, anzi una novizia, che penetra immediatamente, benché sulle prime respinta, oltre la barriera che l’aspirante attrice frappone. Alla domanda impertinente e irritata: «che senso ha?» - Cristiana si riferisce alla vita religiosa - la giovane risponde: «la prima cosa che devi tenere a mente è che la fede è un grande amore» (p. 81).

La testimone di un dramma

Il clou della vicenda è la morte di suor Benedetta, l’ultima monaca che possa testimoniare la santità di suor Crocifissa, anzi, che ne è stata la più appassionata testimone. Nella sua agonia Cristiana viene suo malgrado coinvolta, con reazioni bene immaginabili: da una parte, l’orrore della morte cui per la prima volta assiste; dall’altra il gergo, il condursi, il viverla, anche nei suoi paradossi, le mostrano un mondo ben diverso da quello a cui è abituata e la scuotono profondamente. Ad esempio, pensare la morte come il ricongiungersi di due sposi che hanno celebrato le nozze per procura e che ora finalmente s’incontreranno per la prima volta, con tutta l’emozione che comporta il conoscere finalmente il volto dello sposo, per così tanto tempo negato, meglio, solo immaginato.

Suor Benedetta chiede e ottiene d’essere portata nella stalla, sulla carrozzella dove suor Crocifissa, dopo un incidente occorsole proprio in quel luogo, ha trascorso l’intera sua vita. Lì, infatti, si è svolto il dramma di cui è stata l’unica testimone.

Suor Crocifissa si era fatta monaca, più per raziocino elitario – scegliere la parte migliore - che per innamoramento vero. Giovane studiosa, già impegnata nella ricerca universitaria, aveva continuato in monastero i suoi studi prediletti, editando pregevoli saggi, e fingendosi “santa”, ossia vivendo di testa e non di cuore le regole tutte della vita scelta. Paradossalmente però questa santità formale, del tutto avulsa da una santità vera, dopo soli cinque anni l’aveva condotta a una crisi disperante. Proprio nella stalla era andata per porre fine ai suoi giorni, senza tuttavia riuscirvi, per l’arrivo improvviso di suor Benedetta che l’aveva raccolta agonizzante - era caduta dal soppalco, prima di riuscire a impiccarsi - e che, fatte sparire le tracce del tentato suicidio, a tutte aveva sempre detto d’essersi lì recata alla ricerca di una gallina ovaiola scomparsa da più giorni.

Il fatto è che nella “esperienza” della malattia, e poi della paralisi, suor Crocifissa ha incontrato l’Amato, è entrata nella “stanza del cuore” - «il Signore è venuto a cercarmi al confine tra la vita e la morte e in quel crepuscolo spaventoso è tornato a sedurmi […] la carrozzella sulla quale passo le mie giornate è la mano dolce e forte del Signore che mi sorregge» (p. 154) -. Ha vissuto e sperimentato, e non più per volontaristica assunzione di forme caparbiamente osservate, il senso vero, profondo, della sua scelta. Da questo momento la sua santità è divenuta reale e non esteriore soltanto. Insomma, da questo momento è la conversione, l’aprirsi senza rete, senza barriere, senza schemi prefissati, alla presenza amante dello Sposo.

L’ineffabile segreto svelato

Questo segreto, il tentato suicidio, suor Benedetta compartirà con le “due” suor Crocifisse che chiede l’accompagnino nelle sue ultime ore: la giovane novizia, che, appunto, ha ricevuto questo nome entrando in monastero, la giovane attrice che la santa deve impersonare.

Va detto che questo “segreto” a tutti ignoto - sarà svelato dopo le esequie di suor Benedetta a partire da una lettera a futura memoria scritta dalla santa - viene intuito da alcune monache poco inclini a va lutare nel senso della santità la vicenda della paralitica. Per queste, ella ha ostentato una santità non vera.

Questo conflitto tra favorevoli e non, supportato com’è anche da autorevoli figure ecclesiastiche, alla fine segnerà l’abbandono del progetto cinematografico. Tuttavia, l’incalzare degli eventi, delle atmosfere, delle parole dette e non dette, di quelle piuttosto intuite, pur nella lotta spasmodica ingaggiata all’interno, porterà la giovane aspirante attrice a capire che la sua vita, i suoi problemi, solo in quel monastero possono trovare risposta. La vedremo uscire con naturalezza dall’anoressia, pregare senza sapere ancora di stare pregando, entrare nella “stanza del cuore”, nell’esperienza dell’Amato, non senza che la sua carne si ribelli, non senza tuttavia che alla fine in Lui ella si acquieti.

 E tutto ciò mentre, nelle loro stesse ondulazioni di simpatia e di ostilità, le monache intuiscono il suo percorso. Soprattutto lo intuiscono la priora e la giovane novizia, non meno di quanto lo abbia intuito suor Benedetta, l’umile e illetterata ma sapiente cuoca, che l’ha voluta accanto a sé nell’agonia e la cui stretta Cristiana-Crocifissa non è riuscita a sciogliere, malgrado la paura e la repulsione, malgrado lo stupore dell’incredibile morire di cui è stata testimone.

La stanza del cuore è il titolo di un libricino scritto dalla santa. «“E io senza te non sono io”. Questo straordinario grido dell’anima innamorata dichiara quanto è strutturalmente decisiva la relazione amorosa persino rispetto alla identità dell’io. Questo vale per ogni grande amore, purché sigillato dall’unicità e dalla fedeltà. Ma per nessun amore quelle parole valgono quanto per l’amore dell’anima cristiana che della cella cuore ha fatto il luogo segreto e inaccessibile dell’incontro con il suo Amato » (p. 165). Queste le parole, certo non semplici, lette a lei dalla giovane suor Crocifissa, svelano a Cristiana il senso vero della sua vita e la introducono, appunto, nella “stanza del cuore”. Ora anch’essa può provare a comprendere il senso della frase: «la fede è un grande amore».

Cettina Militello
Docente alla Pontificia Facoltà Teologica «Marianum»
Viale di Villa Pamphili, 20 - int. 13/A - 00152 Roma

 

 

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