n. 4
aprile 2011

 

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Niente di più liberante

La povertà evangelica

MARIA PIA GIUDICI

 

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Nell’Editoriale della rivista Uni-Versum (esperienze, discussioni e ricerche orientate al futuro dell’umanità) è scritto: «Nell’odierno deserto culturale appiattito dal pensiero unico mercantilista e funzionalista appaiono sempre più urgenti delle presenze vivificanti, in grado di contrastare la deriva materialista e nichilista dominante» (n.2/2010).

 In questa svolta epocale, segnata da una crisi economica globale che strangola letteralmente tante popolazioni, si ingenera in modo sempre più abissale lo squilibrio tra paesi poveri e paesi ricchi. Il perverso meccanismo economicistico di questo squilibrio diventa sempre più devastante. Un giornalista, costatando la situazione, scriveva poco tempo fa: «Anche lo Stato è un coacervo di difese a oltranza, di cavilli istituzionali, d’interessi più o meno evidenti; il tutto condito d’ingiustizia spalmata sulla ragione crocefissa» (Vincenzo Andraous)

 Di fronte a queste denunce molto realistiche, potremmo essere tentate di arrenderci. Ti si stringe il cuore, e pensi: se la situazione è così grave, che cosa possiamo fare noi consacrate, se non pregare?

Un rischio e una sfida

 Certamente la scommessa di fondo resta sempre la necessità dell’intercessione: urgente, insostituibile. Però, in un mondo che rapidamente cambia, dentro queste derive travolgenti persone, famiglie, gruppi sociali, popoli, noi non possiamo affatto tirarci da parte, esimerci dall’essere provocate; pena il venirne poi, in tempi più o meno lunghi, totalmente distrutte, cancellate dalla storia. Al contrario, se raccogliamo la sfida di questa ora storica, potremmo essere, per grazia di Dio, quelle presenze vivificanti di cui si è detto sopra.

 Ramon Panikkar, il pensatore scomparso da pochi mesi e simbolo di una possibile sintesi tra cultura europea e cultura orientale nell’oggi, parla di un’urgenza irrimandabile. Si tratta di realizzare, al più presto, una demonetizzazione della cultura odierna in modo che il denaro smetta di essere l’imperatore supremo (più o meno riconoscibile come tale) della vita. D’altro canto non sono certo sopite voci qualificate come quella del Direttore Generale della FAO che afferma: «C’è il rischio concreto di una crisi alimentare globale». Ecco, è tempo di aprire il terzo occhio, quello dell’interiorità che, sola, abbraccia la visuale completa del reale. Allora, lungi dall’andare in depressione, cogliamo un richiamo forte, una promessa luminosa che non cessa di essere rivolta a tutti i cristiani, ma in modo particolare a noi che abbiamo professato il voto di povertà: «Beati i poveri nello spirito perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5,3).

 

  Sì lungi dall’essere un richiamo solo tinteggiato di ascetica austerità, nonostante tutto, o meglio attraverso tutto quello che sta capitando, il richiamo evangelico alla beatitudine della povertà esplode fortemente attuale.

  Dentro l’orizzonte socioculturale dissanguato da tanta cattiva gestione dei beni, è una promessa che colora di positività un possibile futuro plasmato da chi crede e vive ciò che il Vangelo promette. Anzitutto si tratta di credere non a parole ma coi fatti che Gesù ha vinto il mondo. Gesù, il Verbo di Dio incarnato, così come si propone a noi col suo esserci, il suo modo di vivere e il suo dire, il suo modo di rapportarsi al Padre, agli uomini, al ricco e al povero, al giusto e al delinquente.

Disobbedire al mercato

  È più che mai la sua presenza d’amore nel vivo dei nostri giorni a rivelarsi come guida e modello nell’attualità delle urgenze sociali e di quelle che provengono a noi, oggi e sempre, dal nostro voto di povertà.

 «Il Signore Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi attraverso la sua povertà» (2 Cor 8,9). Gesù è il povero beato, cioè contento nella sua che, va detto, non è miseria né sciatteria, degrado, abbrutimento. Il giovane falegname di Nazareth, nel laboratorio di Giuseppe, è un artigiano: povero sì, ma propenso a una manualità creativa, intento a un lavoro da poveri, ma non depauperato umanamente da meccanismi lavorativi che guardano solo al profitto.

  La povertà di Gesù a Nazareth e poi nella sua vita itinerante coincide con quella libertà vera, profonda, umanissima, che nasce dall’esproprio della roba, dalla negazione dell’accumulo, dall’essenzialità di desideri e dei bisogni tutti ordinati a quell’unico necessario che è il regno dell’amore. Forse qualcuna, tra noi religiose, potrebbe rendere più acuminata la domanda: Protette come siamo nei nostri conventi, come può riguardarci questo giro di affari, arrivismi, alienazioni?

  Francesco Gesualdi, fondatore e animatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, a cui fanno eco altre personalità eminenti, scrive: «Oggi facciamo sostanzialmente una cosa sola: obbediamo ciecamente al mercato, al furore tecnico-economico che domina il mondo. Lavoriamo di più, più in fretta, più ansiosamente. Per che cosa? Già chiederselo è un miracolo, perché non c’è più tempo per chiederselo».

  Non è forse un problema anche nostro questo stato di cose? Non si riflette pure all’interno non di tutte ma certo di molte nostre case religiose? Qui, proprio qui sta il punto.

I tarli nascosti

 «Beati i poveri nello spirito». Per chi come noi ha fatto voto di povertà, proprio per gestire una vita che sia veramente spirituale, è importante guardare in faccia la realtà di oggi: ciò che accade e che potrebbe accadere.

  Il pericolo però esiste anche per noi. Come certi tarli che rodono nascostamente tutto. Non ti accorgi che hanno scavato buchi e cunicoli e vuoto; un bel giorno però quell’utensile, quel mobile, quell’oggetto è letteralmente corroso, svuotato, da buttare.

 Il tarlo è l’acquiescenza ai comodi, anzi il volerne sempre di più. Guarda come è funzionale questo piccolo strumento, guarda come è pratico! E quest’altro aggeggio mi potrebbe servire, e quest’altro ancora, così carino!... Sono certa che qualche benefattore è pronto a comprarmelo; in occasione del mio onomastico me lo regala con tutto il cuore. Che male c’è?

 Il male non sta fuori ma dentro. Immagina una casa bella e tinteggiata a nuovo, circondata da pini e faggi. Se entri però ti accorgi che le pareti, corrose dall’umidità stanno per crollare; dentro ci si sta male. No, il male non sta nella nostra ordinatissima vita organizzata da orari precisi, nemmeno nell’efficienza con cui il lavoro educativo-apostolico viene compiuto, ma proprio nell’accumulo di cose da fare e da possedere. Il male non è in quel che facciamo ma nel troppo tempo impiegato a correre, a produrre, a fare e strafare.

  Perché non mi regalo più tempo per pregare? Più tempo per relazionarmi bene con me stessa, con le sorelle, con gli altri, più tempo per accorgermi che le gemme degli alberi hanno colorato di verde la loro peluria protettiva fino a ieri rossiccia? Perché non imparo qualcosa di nuovo anche dalla lucertola beatamente immobile al sole di primavera?

Un cuore sgombro

 «Beati i poveri nello spirito», dice Gesù. Si tratta di sgombrare anzitutto proprio lo spirito dai bisogni indotti dal grande ipermercato ovunque promosso dal battage pubblicitario. Prenderne consapevolezza è il primo atteggiamento che conta.

 Mi accorgo che, anche se quella consorella o quei collaboratori laici si sono procurati diversi paia di scarpe, io sto bene con quelle che ho. Che bello assaporare libertà e leggerezza perché non ho ceduto alla vogliuzza di farmi comperare quella borsa in più o quell’originalità da poco prezzo e bell’apparenza che potrebbe vivacizzare il mio scrittorio!

 Non mi dilungo in casistica; e volutamente resto ai margini di quel bosco di desideri che, incentivato dalla società attuale, letteralmente gonfia il mio inconscio e pretende poi di dettar legge alle mie decisioni in ordine a tante cose.

 Voglio invece ricordare a me e a chi legge quanto sia importante invocare lo Spirito Santo stesso a introdurci là dove la beatitudine della povertà diventa più esigente ma certo più luminosa che mai.

 Non esigere che gli altri si accorgano del bene che facciamo, lasciar perdere quello che, a volte, nei discorsi comunitari ci punzecchia; al contrario fare gran conto di quello che ci edifica, rallegrarsi con chi lo compie o lo manifesta, senza mai appropriarsene.

 Chiedere la grazia (perché solo essa ce l’ottiene) di correre sulla strada dei giorni fugaci a cuore sgombro e a mente pulita da tutto quello che impedisce all’amore di essere in noi sovrano.

 Roba conveniente bella e buona, successi, riuscita, utilità, eventi favorevoli e promesse accattivanti: tutto ha un senso, però è come il fiore dell’erba che presto dissecca e muore. Perché desiderare ciò che muore? Solo l’amore si oppone alla morte. L’amore è vita. «Tutto ciò che io comprendo - dice Tolstoj - io lo comprendo perché amo. Tutto è, tutto esiste solamente perché amo. Tutto è unito soltanto dall’amore. L’amore è Dio e morire significa che io, una particella d’amore, ritorno alla sorgente eterna».

  Ecco, in un mondo che cerca nuove strade per sopravvivere al disastro del consumismo e di tutte le sue perniciose conseguenze, la beatitudine della povertà ci si offre, oggi, come una via di salvezza, uno scenario di libertà.

  Buttar via tutti i formalismi, la crosta, l’esteriorità dell’apparire poveri senza l’impegno diuturno di volerlo essere in profondità per grazia di Dio, ecco ciò che ci farà scoprire attuale, come forse non fu mai, la povertà nello spirito: quella che rese beato Gesù in terra e che renderà libere e beate anche noi alla sua sequela, libere della sua libertà. Per amare.

 E, in finalissima, un episodietto esilarante. Quando insegnavo latino, mi capitò di avere tra mano l’elaborato di un’allieva che, traducendo dal latino e trovandosi impacciata coi diversi significati del vocabolo sumptus, tradusse: Menenio Agrippa morì così povero che non gli trovarono neppure il corpo per seppellirlo.

Maria Pia Giudici fma
San Biagio del Sacro Speco C. P. 106
00028 Subiaco (Roma)

 

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