Nell’Editoriale
della rivista
Uni-Versum
(esperienze, discussioni e ricerche orientate al futuro dell’umanità) è
scritto: «Nell’odierno deserto culturale appiattito dal pensiero unico
mercantilista e funzionalista appaiono sempre più urgenti delle presenze
vivificanti, in grado di contrastare la deriva materialista e nichilista
dominante» (n.2/2010).
In
questa svolta epocale, segnata da una crisi economica globale che
strangola letteralmente tante popolazioni, si ingenera in modo sempre
più abissale lo squilibrio tra paesi poveri e paesi ricchi. Il perverso
meccanismo economicistico di questo squilibrio diventa sempre più
devastante. Un giornalista, costatando la situazione, scriveva poco
tempo fa: «Anche lo Stato è un coacervo di difese a oltranza, di cavilli
istituzionali, d’interessi più o meno evidenti; il tutto condito
d’ingiustizia spalmata sulla ragione crocefissa» (Vincenzo Andraous)
Di
fronte a queste denunce molto realistiche, potremmo essere tentate di
arrenderci. Ti si stringe il cuore, e pensi: se la situazione è così
grave, che cosa possiamo fare noi consacrate, se non pregare?
Un rischio e una sfida
Certamente la scommessa di fondo resta sempre la necessità
dell’intercessione: urgente, insostituibile. Però, in un mondo che
rapidamente cambia, dentro queste derive travolgenti persone, famiglie,
gruppi sociali, popoli, noi non possiamo affatto tirarci da parte,
esimerci dall’essere provocate; pena il venirne poi, in tempi più o meno
lunghi, totalmente distrutte, cancellate dalla storia. Al contrario, se
raccogliamo la sfida di questa ora storica, potremmo essere, per grazia
di Dio, quelle
presenze vivificanti
di
cui si è detto sopra.
Ramon Panikkar, il pensatore scomparso da pochi mesi e simbolo di una
possibile sintesi tra cultura europea e cultura orientale nell’oggi,
parla di un’urgenza irrimandabile. Si tratta di realizzare, al più
presto, una
demonetizzazione
della cultura odierna in modo che il denaro smetta di essere
l’imperatore supremo (più o meno riconoscibile come tale) della vita.
D’altro canto non sono certo sopite voci qualificate come quella del
Direttore Generale della FAO che afferma: «C’è il rischio concreto di
una crisi alimentare globale». Ecco, è tempo di aprire il
terzo occhio,
quello dell’interiorità che, sola, abbraccia la visuale completa del
reale. Allora, lungi dall’andare in depressione, cogliamo un richiamo
forte, una promessa luminosa che non cessa di essere rivolta a tutti i
cristiani, ma in modo particolare a noi che abbiamo professato il voto
di povertà: «Beati i poveri nello spirito perché di essi è il Regno dei
cieli» (Mt 5,3).
Sì
lungi dall’essere un richiamo solo tinteggiato di ascetica austerità,
nonostante tutto, o meglio attraverso tutto quello che sta capitando, il
richiamo evangelico alla beatitudine della povertà esplode fortemente
attuale.
Dentro l’orizzonte socioculturale dissanguato da tanta cattiva
gestione dei beni, è una promessa che colora di positività un possibile
futuro plasmato da chi crede e vive ciò che il Vangelo promette.
Anzitutto si tratta di credere non a parole ma coi fatti che Gesù
ha vinto il mondo.
Gesù, il Verbo di Dio incarnato, così come si propone a noi col suo
esserci, il suo modo di vivere e il suo dire, il suo modo di rapportarsi
al Padre, agli uomini, al ricco e al povero, al giusto e al delinquente.
Disobbedire al mercato
È
più che mai la sua presenza d’amore nel vivo dei nostri giorni a
rivelarsi come guida e modello nell’attualità delle urgenze sociali e di
quelle che provengono a noi, oggi e sempre, dal nostro voto di povertà.
«Il
Signore Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché
noi diventassimo ricchi attraverso la sua povertà» (2 Cor 8,9). Gesù è
il povero beato, cioè contento nella sua che, va detto, non è miseria né
sciatteria, degrado, abbrutimento. Il giovane falegname di Nazareth, nel
laboratorio di Giuseppe, è un artigiano: povero sì, ma propenso a una
manualità creativa, intento a un lavoro da poveri, ma non depauperato
umanamente da meccanismi lavorativi che guardano solo al profitto.
La
povertà di Gesù a Nazareth e poi nella sua vita itinerante coincide con
quella libertà vera, profonda, umanissima, che nasce dall’esproprio
della roba, dalla negazione dell’accumulo, dall’essenzialità di desideri
e dei bisogni tutti ordinati a quell’unico
necessario
che
è il regno dell’amore. Forse qualcuna, tra noi religiose, potrebbe
rendere più acuminata la domanda: Protette come siamo nei nostri
conventi, come può riguardarci questo giro di affari, arrivismi,
alienazioni?
Francesco
Gesualdi, fondatore e animatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, a
cui fanno eco altre personalità eminenti, scrive: «Oggi facciamo
sostanzialmente una cosa sola: obbediamo ciecamente al mercato, al
furore tecnico-economico che domina il mondo. Lavoriamo di più, più in
fretta, più ansiosamente. Per che cosa? Già chiederselo è un miracolo,
perché non c’è più tempo per chiederselo».
Non è forse un problema anche nostro questo stato di cose? Non si
riflette pure all’interno non di tutte ma certo di molte nostre case
religiose? Qui, proprio qui sta il punto.
I tarli nascosti
«Beati i poveri nello spirito». Per chi come noi ha fatto voto di
povertà, proprio per gestire una vita che sia veramente spirituale, è
importante guardare in faccia la realtà di oggi: ciò che accade e che
potrebbe accadere.
Il
pericolo però esiste anche per noi. Come certi tarli che rodono
nascostamente tutto. Non ti accorgi che hanno scavato buchi e cunicoli e
vuoto; un bel giorno però quell’utensile, quel mobile, quell’oggetto è
letteralmente corroso, svuotato, da buttare.
Il
tarlo è l’acquiescenza ai comodi, anzi il volerne sempre di più. Guarda
come è funzionale questo piccolo strumento, guarda come è pratico! E
quest’altro aggeggio mi potrebbe servire, e quest’altro ancora, così
carino!... Sono certa che qualche benefattore è pronto a comprarmelo; in
occasione del mio onomastico me lo regala con tutto il cuore. Che male
c’è?
Il
male non sta fuori ma dentro. Immagina una casa bella e tinteggiata a
nuovo, circondata da pini e faggi. Se entri però ti accorgi che le
pareti, corrose dall’umidità stanno per crollare; dentro ci si sta male.
No, il male non sta nella nostra ordinatissima vita organizzata da orari
precisi, nemmeno nell’efficienza con cui il lavoro educativo-apostolico
viene compiuto, ma proprio nell’accumulo di cose da fare e da possedere.
Il male non è in quel che facciamo ma nel troppo tempo impiegato a
correre, a produrre, a fare e strafare.
Perché non mi regalo più tempo per pregare? Più tempo per relazionarmi
bene con me stessa, con le sorelle, con gli altri, più tempo per
accorgermi che le gemme degli alberi hanno colorato di verde la loro
peluria protettiva fino a ieri rossiccia? Perché non imparo qualcosa di
nuovo anche dalla lucertola beatamente immobile al sole di primavera?
Un cuore sgombro
«Beati i poveri nello spirito», dice Gesù. Si tratta di sgombrare
anzitutto proprio lo spirito dai bisogni indotti dal grande ipermercato
ovunque promosso dal battage pubblicitario. Prenderne consapevolezza è
il primo atteggiamento che conta.
Mi
accorgo che, anche se quella consorella o quei collaboratori laici si
sono procurati diversi paia di scarpe, io sto bene con quelle che ho.
Che bello assaporare libertà e leggerezza perché non ho ceduto alla
vogliuzza di farmi comperare quella borsa in più o quell’originalità da
poco prezzo e bell’apparenza che potrebbe vivacizzare il mio scrittorio!
Non
mi dilungo in casistica; e volutamente resto ai margini di quel
bosco di desideri
che,
incentivato dalla società attuale, letteralmente gonfia il mio inconscio
e pretende poi di dettar legge alle mie decisioni in ordine a tante
cose.
Voglio invece ricordare a me e a chi legge quanto sia importante
invocare lo Spirito Santo stesso a introdurci là dove la beatitudine
della povertà diventa più esigente ma certo più luminosa che mai.
Non
esigere che gli altri si accorgano del bene che facciamo, lasciar
perdere quello che, a volte, nei discorsi comunitari ci punzecchia; al
contrario fare gran conto di quello che ci edifica, rallegrarsi con chi
lo compie o lo manifesta, senza mai appropriarsene.
Chiedere la grazia (perché solo essa ce l’ottiene) di correre sulla
strada dei giorni fugaci a cuore sgombro e a mente pulita da tutto
quello che impedisce all’amore di essere in noi sovrano.
Roba conveniente bella e buona, successi, riuscita, utilità, eventi
favorevoli e promesse accattivanti: tutto ha un senso, però è come il
fiore dell’erba che presto dissecca e muore. Perché desiderare ciò che
muore? Solo l’amore si oppone alla morte. L’amore è vita. «Tutto ciò che
io comprendo - dice Tolstoj - io lo comprendo perché amo. Tutto è, tutto
esiste solamente perché amo. Tutto è unito soltanto dall’amore. L’amore
è Dio e morire significa che io, una particella d’amore, ritorno alla
sorgente eterna».
Ecco, in un mondo che cerca nuove strade per sopravvivere al disastro
del consumismo e di tutte le sue perniciose conseguenze, la beatitudine
della povertà ci si offre, oggi, come una via di salvezza, uno scenario
di libertà.
Buttar via tutti i formalismi, la crosta, l’esteriorità dell’apparire
poveri senza l’impegno diuturno di volerlo essere in profondità per
grazia di Dio, ecco ciò che ci farà scoprire attuale, come forse non fu
mai, la povertà nello spirito: quella che rese beato Gesù in terra e che
renderà libere e beate anche noi alla sua sequela, libere della sua
libertà. Per amare.
E,
in finalissima, un episodietto esilarante. Quando insegnavo latino, mi
capitò di avere tra mano l’elaborato di un’allieva che, traducendo dal
latino e trovandosi impacciata coi diversi significati del vocabolo
sumptus,
tradusse: Menenio Agrippa morì così povero che non gli trovarono neppure
il corpo per seppellirlo.
Maria Pia Giudici fma
San Biagio del Sacro Speco C. P. 106
00028 Subiaco (Roma)