n. 4
aprile 2012

 

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Le dimensioni della fraternità

CESARE ZANIRATO

 

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All’inizio degli anni ’80, sulla scia del documento Comunione e comunità che segnava il piano decennale della CEI, la realtà parrocchiale in cui vivevo decise di iniziare un cammino di riscoperta dell’essere comunità. Lo studio del documento della CEI, accompagnato dalla lettura di due libri straordinari: La comunità, luogo del perdono e della festa di J. Vanier, ma soprattutto Vita comune di D. Bonhoeffer, fu fondamentale per comprendere cosa significhi essere fratelli alla scuola del Vangelo e imparare ad amarsi a vicenda. Si cresceva insieme e ci si esercitava a mettere in pratica atteggiamenti ben precisi, di attenzione e di relazione, di responsabilità e servizio vicendevole. Ma amare è una realtà difficile, non viene da sé, richiede un’educazione, una “scuola di carità”, dove «la carità è coltivata, insegnata, trasmessa in una quotidiana pratica e mediante costante esercizio».1 E a scuola s’impara la grammatica, si apprende ad usare i verbi e le rispettive coniugazioni.

In queste riflessioni propongo una sorta di grammatica della fraternità, coniugando quattro verbi che esprimono altrettanti atteggiamenti esistenziali da attuare nella vita spirituale.2

Discendere

Anzitutto il verbo discendere. Esso indica, nel suo significato primo e più elementare, un movimento dall’alto verso il basso. Questo movimento di discesa, di approssimazione o di vicinanza, nella Bibbia è una prerogativa di Dio. Egli non rimane indifferente alle sorti del suo popolo: osserva le sue miserie, ne ascolta il gemito, si china sul suo soffrire, interviene per liberarlo. Al riguardo basti richiamare un testo di Esodo: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8).

Il Dio biblico è il Dio vicino. La sua vicinanza è volontà di bene, che si fa libera scelta, è sollecitudine, che coglie e registra il soffrire dell’altro, non è semplice attrazione dell’io verso un tu (come vuole la filosofia greca). Dio prima ascolta e osserva, poi in un movimento di discesa si pone a fianco del popolo per liberarlo dalla sofferenza. La ragione di questo suo scendere è per camminare con l’uomo, una discesa che diverrà totale in Gesù, nel quale Dio diviene il Dio-con-noi. È la kenosi, l’abbassamento, l’annientamento totale di Dio: non solo si accontenta di camminare con l’uomo, ma si fa uomo (cf Fil 2,7).

Dio scende e si fa vicino per farci salire verso «una terra dove scorre latte e miele», non segnata da confini geografici, né da gruppi della stessa appartenenza linguistica o religiosa. Verso una terra il cui confine è dato dal principio di compassione di chi, come Dio, ha a cuore le sorti dell’umano. E Dio non scende per colmare un vuoto, neppure per supplire al bene che noi non siamo in grado di compiere, bensì per svegliare il nostro io. Il suo è un amore che chiama a dimenticarsi per essere attento all’altro. «La carità raggiunge davvero le altezze quando si accosta con benevolenza ai travagli del prossimo, e quanto più discende con amore verso le cose umili tanto più raggiunge con forza quelle sublimi».3 Come a dire: la capacità di abbassarsi verso il fratello, soprattutto verso il più bisognoso, è inversamente proporzionale alla capacità di innalzarsi verso Dio.

Credo che qui si ponga il fondamento di una vera fraternità. Dio ci libera da schiavitù, ci sradica da terreni stranieri, per piantarci nel terreno della comunione, dell’amicizia con lui, della fraternità…, purché accettiamo di affondare le nostre radici in una dimensione nuova, diversa da quella in cui eravamo prima. L’umiltà può divenire l’autentico atteggiamento, la vera e fondamentale novità, la dimensione che abbraccia tutte le altre, il modo concreto di esprimersi dell’amore fraterno.

Decentrarsi

Il movimento del discendere ne comporta un altro, il decentramento. Decentrarsi significa uscire dalla concentrazione su se stessi per trovare il centro in qualcun altro e quindi riconoscere la presenza dell’altro. Si tratta di cambiare il proprio modo di pensare, di compiere un esodo da sé e dai propri progetti. La pagina evangelica del discorso della montagna ci fa da specchio per verificare cosa significhi rovesciare le certezze che crediamo di aver raggiunto nella nostra vita. E cioè che ci si realizza non possedendo ma donando, non dominando ma aiutando, non prevalendo ma servendo. «Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi – diceva Tonino Bello -. Uscire da sé. Dare senza chiedere. Essere discreti al limite del silenzio... Desiderare la felicità dell’altro. Rispettare il suo destino. E scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione».4 Il cammino della fraternità è sempre un itinerario di decentramento, di distacco da sé, ed è sempre un affidarsi nella fede ad un Altro fuori di noi.

Ma il distacco presuppone maturità psicologica, e quindi l’andare nel profondo di se stessi, conoscere quali meccanismi, paure, attaccamenti, dipendenze ci abitano. Per fare il vuoto occorre scavare, togliere, liberare. Ovviamente, non per gusto masochistico, né per pratiche ascetiche fine a se stesse, del tutto anacronistiche. È necessario individuare i nostri idoli per giungere alla libertà di non avere niente e nulla da difendere, ed entrare nella logica della disappropriazione. Chi non si appartiene, sa di appartenere ad altri, e non fatica ad immettersi nella dinamica del dono e della gratuità.

A questo livello è legato il nostro rapporto obbediente con l’autorità. Nella vita fraterna, l’autorità più che il centro catalizzatore, rappresenta il lievito che posto all’interno fa fermentare la fraternità. Il centro è un Altro al quale si deve un’obbedienza libera che garantisce un servizio autentico, non servilismo; assicura una fede intelligente, non un cieco affidarsi; favorisce il sereno armonizzarsi dei doni di ognuno, non una svilente massificazione; suscita una vera sollecitudine verso il fratello o la sorella più debole e fragile, nei quali Gesù si è identificato.

Respirare

Il terzo movimento di questo nostro itinerario lo possiamo esprimere con il verbo respirare. Il respiro è vita, è la vita stessa. La prima comunità cristiana, così come ci viene raccontata negli Atti degli Apostoli, «aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32). L’effusione dello Spirito a Pentecoste sui discepoli di Gesù ha prodotto una radicale trasformazione unificatrice: ha fuso i cuori in uno solo, ha condensato i loro respiri in un’unica anima, ha reso comuni le loro sostanze affinché siano divise con tutti secondo il bisogno (cf At 2,45; 4,35). L’ultimo ed esile respiro, che Gesù ha esalato con la sua morte in croce (cf Gv 19,30), diviene ben presto «un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).

È l’alito vitale della nuova creazione, ma anche soffio che scompiglia, riunisce e disperde, infonde energie nuove, fa uscire dalla paura e dalla paralisi, dona vitalità missionaria. C’è un duplice movimento in questo respiro: si inspira, cioè si riceve, e si espira, cioè si dona, si condivide. Ma ai movimenti del respiro si collegano intimamente i movimenti del cuore: uno centripeto e l’altro centrifugo. Si riceve e si dona. Se c’è un movimento di ricezione, questo non può esistere senza un movimento di donazione. Gesù riunisce attorno a sé, immette alla comunione con lui, ma unicamente per l’invio alla missione. Allora si può dire che la fraternità sussiste se capace di un’attività centripeta, che la riunisce attorno al suo Signore, e di un’attività centrifuga, che la sospinge e l’invia verso il mondo.

Questo terzo movimento richiama l’importanza di riflettere sul dono della povertà. La vita fraterna vive e respira grazie al dinamismo per cui ogni membro si sente donato e a sua volta fa della propria soggettività un mezzo di relazione, di comunione, di offerta per gli altri. Chi vive in comunità vive l’esercizio dell’uscire da sé per fare della propria vita un dono. La fraternità è unita unicamente dal debito della carità e dell’amore vicendevole.

Curvarsi

Chinarsi, piegarsi, abbassarsi, inginocchiarsi… sono tutti più o meno sinonimi del verbo curvarsi, anche se con accezioni e sfumature diverse. Indubbiamente, dicono di uscire dalla staticità e da una certa rigidità di atteggiamento, per accogliere, soccorrere, servire. Il pittore olandese Rembrandt († 1669) nel suo quadro sul ritorno del figlio prodigo ha ben dipinto la rigidità, sia fisica che morale, del figlio maggiore. Chi non è capace di curvarsi sull’altro, mantiene inevitabilmente un atteggiamento di distanza, di distacco. Il suo stare fermo implica un voler stare semplicemente ad osservare ciò che può succedere.

Il padre, invece, nella stessa tela di Rembrandt, è tutto chino e curvo nell’accogliere il figlio che ritorna, e in questo curvarsi lo abbraccia, lo avvolge, quasi lo ingloba in se stesso. Il padre scava dentro di sé un posto in cui il figlio può trovare riparo e ricevere la capacità di rialzarsi con nuova dignità. Il curvarsi sull’altro è per la gioia comune. C’è passione infatti nel curvarsi della donna ai piedi di Gesù per profumarli, quasi anticipazione profetica del chinarsi con passione di Gesù a lavare i piedi dei suoi discepoli, il cui comando è di fare altrettanto (cf Gv 13,14-15). Una fraternità non sussiste senza un atteggiamento di accoglienza nel servizio reciproco, fatto con gioia.5

Quest’ultimo è il livello nel quale vivere, all’interno della fraternità, la dimensione della verginità, che assume un carattere comunitario. C’è una verginità della comunità da custodire e da vivere, come impegno di ognuno, come responsabilità di tutti. E questo ci dice che la verginità - personale e comunitaria - essenzialmente è amore, capacità di dedizione totale a tutto e a tutti, è prendersi cura dell’altro. Essa è fatta per consumarsi, per bruciare, per accendere, non per conservarsi gelosamente.

La fraternità ha un cuore con tutte le caratteristiche di affettività, donazione, sponsalità, relazione, amicizia, tensione apostolica. Nessuna chiusura né indurimento. «Palpiterà e si dilaterà il tuo cuore» (Is 60,5): qui sta la vera verginità, in un cuore vivo che palpita e si dilata.

I quattro movimenti descritti, quasi come punti cardinali, dicono la totalità dell’esperienza fraterna. Ma il cammino, l’itinerario, rimane indefinito, o meglio, infinito. La fraternità non può essere predefinita, come del resto le coniugazioni dei verbi sono tante. Il fratello o la sorella sono un mistero, come lo è Dio stesso. Rimane sempre altro rispetto alle definizioni.

La carità è quadruplice, al dire di san Paolo (cf Ef 3,14-19), ma anche un cammino senza fine (cf 1Cor 13,8), la cui piena realizzazione sta sempre più lontano di dove la cerchiamo. Nascosta nel cuore stesso di Dio – è un sogno di Dio – la fraternità è un’avventura che si muove nella storia per manifestarci il progetto di quel cuore.

 

1 E. BIANCHI, Non siamo migliori. La vita religiosa nella chiesa, tra gli uomini, Qiqajon, Comunità di Bose 2002, 223.

2 L’idea prende ispirazione dal volume di FRATEL LUCA DI VERTEMATE, La rugiada e la croce. La fraternità come benedizione. Prefazione di Roberto Vignolo, Àncora, Milano 2001, 167-184.

3 GREGORIOMAGNO, La regola pastorale, Città Nuova, Roma 2008, 51.

4 A. BELLO, «Maria, donna innamorata», in Scritti mariani, Lettere ai catechisti, Visite pastorali, Preghiere, Luce e Vita, Molfetta 2005, 146.

5 Il pegno del servizio è indubbiamente una vita di gioia come è espresso benissimo da una poesia di Tagore: «Dormivo e sognavo / che la vita non era che gioia. / Mi svegliai e vidi / che la vita non era che servizio. / Servii e compresi / che nel servizio c'era la gioia».

Cesare Zanirato
cesare.zanirato@tiscali.it

 

 

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