All’inizio
degli anni ’80, sulla scia del documento
Comunione e comunità
che segnava il piano decennale della CEI, la
realtà parrocchiale in cui vivevo decise di iniziare un
cammino di riscoperta dell’essere
comunità. Lo studio del documento della
CEI, accompagnato dalla lettura di due
libri straordinari:
La
comunità, luogo del perdono e
della festa
di
J. Vanier, ma soprattutto
Vita
comune
di
D. Bonhoeffer,
fu fondamentale per comprendere
cosa significhi essere fratelli alla
scuola del Vangelo e imparare ad
amarsi a vicenda.
Si cresceva insieme e ci si esercitava
a mettere in pratica atteggiamenti
ben precisi, di attenzione e
di relazione, di responsabilità e servizio
vicendevole. Ma amare è una
realtà difficile, non viene da sé, richiede
un’educazione, una “scuola
di carità”, dove «la carità è coltivata,
insegnata, trasmessa in una
quotidiana pratica e mediante costante
esercizio».1 E a
scuola s’impara la grammatica, si
apprende ad usare i verbi e le
rispettive coniugazioni.
In
queste riflessioni propongo
una sorta di grammatica della fraternità,
coniugando quattro verbi
che esprimono altrettanti atteggiamenti
esistenziali da attuare nella
vita spirituale.2
Discendere
Anzitutto il verbo discendere. Esso indica, nel suo significato primo e
più elementare, un movimento dall’alto verso il basso. Questo movimento
di discesa, di approssimazione o di vicinanza, nella Bibbia è una
prerogativa di Dio. Egli non rimane indifferente alle sorti del suo
popolo: osserva le sue miserie, ne ascolta il gemito, si china sul suo
soffrire, interviene per liberarlo. Al riguardo basti richiamare un
testo di Esodo: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho
udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue
sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo
salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra
dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8).
Il
Dio biblico è il Dio vicino. La sua vicinanza è volontà di bene, che si
fa libera scelta, è sollecitudine, che coglie e registra il soffrire
dell’altro, non è semplice attrazione dell’io verso un tu (come vuole la
filosofia greca). Dio prima ascolta e osserva, poi in un movimento di
discesa si pone a fianco del popolo per liberarlo dalla sofferenza. La
ragione di questo suo scendere è per camminare con l’uomo, una discesa
che diverrà totale in Gesù, nel quale Dio diviene il Dio-con-noi. È la
kenosi,
l’abbassamento, l’annientamento totale di Dio: non solo si accontenta di
camminare con l’uomo, ma si fa uomo (cf Fil 2,7).
Dio
scende e si fa vicino per farci salire verso «una terra dove scorre
latte e miele», non segnata da confini geografici, né da gruppi della
stessa appartenenza linguistica o religiosa. Verso una terra il cui
confine è dato dal principio di compassione di chi, come Dio, ha a cuore
le sorti dell’umano. E Dio non scende per colmare un vuoto, neppure per
supplire al bene che noi non siamo in grado di compiere, bensì per
svegliare il nostro io. Il suo è un amore che chiama a dimenticarsi per
essere attento all’altro. «La carità raggiunge davvero le altezze quando
si accosta con benevolenza ai travagli del prossimo, e quanto più
discende con amore verso le cose umili tanto più raggiunge con forza
quelle sublimi».3 Come a dire: la capacità
di abbassarsi verso il fratello, soprattutto verso il più bisognoso, è
inversamente proporzionale alla capacità di innalzarsi verso Dio.
Credo che qui si ponga il fondamento di una vera fraternità. Dio ci
libera da schiavitù, ci sradica da terreni stranieri, per piantarci nel
terreno della comunione, dell’amicizia con lui, della fraternità…,
purché accettiamo di affondare le nostre radici in una dimensione nuova,
diversa da quella in cui eravamo prima. L’umiltà può divenire
l’autentico atteggiamento, la vera e fondamentale novità, la dimensione
che abbraccia tutte le altre, il modo concreto di esprimersi dell’amore
fraterno.
Decentrarsi
Il
movimento del discendere ne comporta un altro, il decentramento.
Decentrarsi significa uscire dalla concentrazione su se stessi per
trovare il centro in qualcun altro e quindi riconoscere la presenza
dell’altro. Si tratta di cambiare il proprio modo di pensare, di
compiere un esodo da sé e dai propri progetti. La pagina evangelica del
discorso della montagna ci fa da specchio per verificare cosa significhi
rovesciare le certezze che crediamo di aver raggiunto nella nostra vita.
E cioè che ci si realizza non possedendo ma donando, non dominando ma
aiutando, non prevalendo ma servendo. «Amare, voce del verbo morire,
significa decentrarsi – diceva Tonino Bello -. Uscire da sé. Dare senza
chiedere. Essere discreti al limite del silenzio... Desiderare la
felicità dell’altro. Rispettare il suo destino. E scomparire, quando ci
si accorge di turbare la sua missione».4 Il
cammino della fraternità è sempre un itinerario di decentramento, di
distacco da sé, ed è sempre un affidarsi nella fede ad un Altro fuori di
noi.
Ma
il distacco presuppone maturità psicologica, e quindi l’andare nel
profondo di se stessi, conoscere quali meccanismi, paure, attaccamenti,
dipendenze ci abitano. Per fare il vuoto occorre scavare, togliere,
liberare. Ovviamente, non per gusto masochistico, né per pratiche
ascetiche fine a se stesse, del tutto anacronistiche. È necessario
individuare i nostri idoli per giungere alla libertà di non avere niente
e nulla da difendere, ed entrare nella logica della
disappropriazione.
Chi non si appartiene, sa di appartenere ad altri, e non fatica ad
immettersi nella dinamica del dono e della gratuità.
A
questo livello è legato il nostro rapporto obbediente con l’autorità.
Nella vita fraterna, l’autorità più che il centro catalizzatore,
rappresenta il lievito che posto all’interno fa fermentare la
fraternità. Il centro è un Altro al quale si deve un’obbedienza libera
che garantisce un servizio autentico, non servilismo; assicura una fede
intelligente, non un cieco affidarsi; favorisce il sereno armonizzarsi
dei doni di ognuno, non una svilente massificazione; suscita una vera
sollecitudine verso il fratello o la sorella più debole e fragile, nei
quali Gesù si è identificato.
Respirare
Il
terzo movimento di questo nostro itinerario lo possiamo esprimere con il
verbo respirare. Il respiro è vita, è la vita stessa. La prima comunità
cristiana, così come ci viene raccontata negli Atti degli Apostoli,
«aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà
quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32).
L’effusione dello Spirito a Pentecoste sui discepoli di Gesù ha prodotto
una radicale trasformazione unificatrice: ha fuso i cuori in uno solo,
ha condensato i loro respiri in un’unica anima, ha reso comuni le loro
sostanze affinché siano divise con tutti secondo il bisogno (cf At 2,45;
4,35). L’ultimo ed esile respiro, che Gesù ha esalato con la sua morte
in croce (cf Gv 19,30), diviene ben presto «un vento che si abbatte
impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
È
l’alito vitale della nuova creazione, ma anche soffio che scompiglia,
riunisce e disperde, infonde energie nuove, fa uscire dalla paura e
dalla paralisi, dona vitalità missionaria. C’è un duplice movimento in
questo respiro: si inspira, cioè si riceve, e si espira, cioè si dona,
si condivide. Ma ai movimenti del respiro si collegano intimamente i
movimenti del cuore: uno centripeto e l’altro centrifugo. Si riceve e si
dona. Se c’è un movimento di ricezione, questo non può esistere senza un
movimento di donazione. Gesù riunisce attorno a sé, immette alla
comunione con lui, ma unicamente per l’invio alla missione. Allora si
può dire che la fraternità sussiste se capace di un’attività centripeta,
che la riunisce attorno al suo Signore, e di un’attività centrifuga, che
la sospinge e l’invia verso il mondo.
Questo terzo movimento richiama l’importanza di riflettere sul dono
della povertà. La vita fraterna vive e respira grazie al dinamismo per
cui ogni membro si sente donato e a sua volta fa della propria
soggettività un mezzo di relazione, di comunione, di offerta per gli
altri. Chi vive in comunità vive l’esercizio dell’uscire da sé per fare
della propria vita un dono. La fraternità è unita unicamente dal debito
della carità e dell’amore vicendevole.
Curvarsi
Chinarsi, piegarsi, abbassarsi, inginocchiarsi… sono tutti più o meno
sinonimi del verbo curvarsi, anche se con accezioni e sfumature diverse.
Indubbiamente, dicono di uscire dalla staticità e da una certa rigidità
di atteggiamento, per accogliere, soccorrere, servire. Il pittore
olandese Rembrandt († 1669) nel suo quadro sul ritorno del figlio
prodigo ha ben dipinto la rigidità, sia fisica che morale, del figlio
maggiore. Chi non è capace di curvarsi sull’altro, mantiene
inevitabilmente un atteggiamento di distanza, di distacco. Il suo stare
fermo implica un voler stare semplicemente ad osservare ciò che può
succedere.
Il
padre, invece, nella stessa tela di Rembrandt, è tutto chino e curvo
nell’accogliere il figlio che ritorna, e in questo curvarsi lo
abbraccia, lo avvolge, quasi lo ingloba in se stesso. Il padre scava
dentro di sé un posto in cui il figlio può trovare riparo e ricevere la
capacità di rialzarsi con nuova dignità. Il curvarsi sull’altro è per la
gioia comune. C’è passione infatti nel curvarsi della donna ai piedi di
Gesù per profumarli, quasi anticipazione profetica del chinarsi con
passione di Gesù a lavare i piedi dei suoi discepoli, il cui comando è
di fare altrettanto (cf Gv 13,14-15). Una fraternità non sussiste senza
un atteggiamento di accoglienza nel servizio reciproco, fatto con gioia.5
Quest’ultimo è il livello nel quale vivere, all’interno della
fraternità, la dimensione della verginità, che assume un carattere
comunitario. C’è una verginità della comunità da custodire e da vivere,
come impegno di ognuno, come responsabilità di tutti. E questo ci dice
che la verginità - personale e comunitaria - essenzialmente è amore,
capacità di dedizione totale a tutto e a tutti, è prendersi cura
dell’altro. Essa è fatta per consumarsi, per bruciare, per accendere,
non per conservarsi gelosamente.
La
fraternità ha un cuore con tutte le caratteristiche di affettività,
donazione, sponsalità, relazione, amicizia, tensione apostolica. Nessuna
chiusura né indurimento. «Palpiterà e si dilaterà il tuo cuore» (Is
60,5): qui sta la vera verginità, in un cuore vivo che palpita e si
dilata.
I
quattro movimenti descritti, quasi come punti cardinali, dicono la
totalità dell’esperienza fraterna. Ma il cammino, l’itinerario, rimane
indefinito, o meglio, infinito. La fraternità non può essere
predefinita, come del resto le coniugazioni dei verbi sono tante. Il
fratello o la sorella sono un mistero, come lo è Dio stesso. Rimane
sempre altro rispetto alle definizioni.
La
carità è quadruplice, al dire di san Paolo (cf Ef 3,14-19), ma anche un
cammino senza fine (cf 1Cor 13,8), la cui piena realizzazione sta sempre
più lontano di dove la cerchiamo. Nascosta nel cuore stesso di Dio – è
un sogno di Dio – la fraternità è un’avventura che si muove nella storia
per manifestarci il progetto di quel cuore.
1 E. BIANCHI,
Non
siamo migliori. La vita religiosa nella chiesa, tra gli uomini,
Qiqajon, Comunità di Bose 2002, 223.
2 L’idea prende ispirazione dal volume di FRATEL LUCA DI
VERTEMATE,
La
rugiada e la croce. La fraternità come benedizione.
Prefazione di Roberto Vignolo, Àncora, Milano 2001, 167-184.
3 GREGORIOMAGNO,
La
regola pastorale,
Città Nuova, Roma 2008, 51.
4 A. BELLO, «Maria, donna innamorata», in
Scritti mariani, Lettere ai catechisti, Visite pastorali, Preghiere,
Luce e Vita, Molfetta 2005, 146.
5 Il pegno del servizio è indubbiamente una vita di
gioia come è espresso benissimo da una poesia di Tagore:
«Dormivo e sognavo / che la vita non era che gioia. / Mi svegliai e vidi
/ che la vita non era che servizio.
/ Servii e compresi / che nel servizio c'era la gioia».
Cesare Zanirato
cesare.zanirato@tiscali.it