In
un momento in cui certamente non mancano esperti di formazione,
formatori di professione e ancora «formatori dei formatori», la pretesa
di esaurire il tema offerto dal sottotitolo è accantonata in partenza.
Le riflessioni che seguono vorrebbero essere piuttosto uno spunto di
riflessione, che possa indicare alcuni elementi che sembrano urgenti in
riferimento alla formazione alla vita consacrata nell’odierno contesto
culturale e sociale, senza alcuna pretesa di esaustività, ma piuttosto
con l’intento di «dare a pensare».
L’esortazione Vita consacrata ribadisce il fine
della vita consacrata come «configurazione al Signore Gesù»,
esplicitando l’obiettivo della formazione come «progressiva
assimilazione dei sentimenti di Cristo» (VC 65-66). Prendere sul serio
queste affermazioni porta con sé una serie di implicazioni, a partire
dalla sintesi dell’evento Cristo così come offerta da Giovanni: «E la
Parola si fece carne» (Gv 1,14). Nel Logos incarnato la corporeità viene
assunta da Dio come veicolo insuperabile di comunicazione e
manifestazione di rivelazione. La progressiva configurazione al Signore
Gesù, Parola fatta carne, chiede in prima istanza di prendere sul serio
il corpo, come momento di rivelazione e al contempo di formazione.
Il corpo: istanza
formativa originaria
Definito da Giovanni Paolo II come «sacramento
primordiale», il corpo - «creato per trasferire nella realtà visibile
del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio»1 – è
supporto e fondamento della vita spirituale, luogo preferenziale di
manifestazione del divino, e dunque momento privilegiato e
imprescindibile dell’incontro con i fratelli e con Dio.
Fin dall’origine esso è luogo dove si sperimenta
l’alterità e luogo di alleanza; non solo di alleanza tra uomo e donna
(cf Gen 1,21-23), ma anche dell’alleanza con Dio, scritta in maniera
tangibile nella carne di Abramo (Gen 17,10-11).
Nelle parole dell’orante del Salmo 139,13-16 il corpo,
ricamo tessuto dall’Onnipotente nel segreto di un grembo, diventa
racconto di una storia di cura e amore, la storia di un “tu a tu”
personale e intimo con un Dio che è Padre, il quale manifesta nella
storia la sua paternità attraverso un corpo plasmato (cf Ger 1,4-5).
È dunque nel proprio corpo che l’uomo fa esperienza dell’imago
Dei, «perché è nel corpo che si scopre abbracciato dall’amore
originario che lo circonda mentre viene al mondo».2
Conseguenza diretta di questa esperienza è la possibilità di cogliere la
stessa immagine di Dio nel volto dei fratelli. Se, da una parte, il
corpo delimita i confini dell’individuo disegnandone la forma, allo
stesso tempo è nel corpo che passa la strada che conduce dal sé
all’altro, immanente o trascendente che sia. Ecco perché la corporeità
con tutte le sue espressioni risulta essere un decisivo momento di
formazione, imprescindibile per la vita consacrata.
Il corpo che si fa amore
La possibilità che il corpo sia attestazione
dell’immagine di Dio, luogo di esperienza della sua paternità, trova
compimento nella persona del Figlio. Attraverso la sua carne, la
passione di Dio per l’uomo conosce l’espressione più alta; è attraverso
la sua carne che quei «sentimenti», di cui parla Vita consecrata
(n. 66), non restano pii desideri e aneliti del cuore, ma giungono
all’espressione più radicale e compromettente possibile: quella di un
corpo donato.
«Io sono il pane vivente, disceso dal cielo. Se uno
mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia
carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). L’impiego del sostantivo carne (sarx),
evoca un riferimento intenzionale al Prologo del quarto Vangelo, a
quella Parola che «si fece carne» e pose la sua dimora in mezzo agli
uomini. Accanto a ciò, la promessa del dono di questa carne («che io
darò»), lega l’evento dell’incarnazione al dono che egli farà di sé con
la sua morte.
La carne del Verbo è dono perché il mondo viva. Tutto
questo è il cibo donato: in questo incontro e in questa comunione con
l’uomo, Cristo si lascia coinvolgere totalmente, racchiudendo in questo
cibo tutta la parabola della sua esperienza. Il cibo che lui offre è
sintesi di tutta un’esperienza e chi mangia di questo cibo gusta la vita
che da questa esperienza proviene, entrando dentro di essa, facendo con
essa comunione.
Non solo tutta la sua esperienza, ma anche tutta la sua
persona, nella sua integrità: «Se non mangiate la carne del Figlio
dell’Uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita» (v. 53).
Queste espressioni contengono senza dubbio un riferimento alla morte
futura del Cristo. Ma la carne e il sangue fanno riferimento nella
Scrittura all’integrità della persona, in tutti i suoi aspetti; ecco che
in questa relazione con il credente è coinvolta tutta l’esperienza del
Figlio incarnato e tutta la sua persona concreta (carne e sangue), in
maniera radicale.
Il desiderio, anima del
dono
Il dono totale di sé, che coinvolge tutta la persona, è
sostenuto da un desiderio bruciante: «Ho desiderato intensamente di
mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22,15); è un anelito intenso quello
che anima e sostiene il dono del proprio corpo come cibo. È al Cristo
uomo del desiderio che vorremmo ritornare per riscoprire la forza e la
straordinaria valenza formativa di questa esperienza.
Parlare di desiderio significa parlare dell’esperienza di
una mancanza, della ricerca di un compimento che ferisce e trascina il
soggetto fuori da sé verso un altro e verso un oltre, aprendolo
progressivamente alla vita. Il desiderio ha a che vedere con le stelle:
de-sidera (lat.), «stelle» lontane (de-) per chi le
osserva, ma allo stesso tempo vicine perché suscitano nostalgia
struggente, portando con sé come una promessa (cf Gen 15,5-7). Per
questo il desiderio contiene «la dimensione della veglia e dell’attesa,
dell’orizzonte aperto e stellare, dell’avvertimento positivo di una
mancanza che sospinge la ricerca»3.
Chi più della Parola fatta carne poteva desiderare? Egli
stesso, carne del desiderio del Padre, cercatore insistente dell’uomo
nei suoi cammini (Gv 4,6), nelle sue veglie, nella sua compassione (Mc
8,2), sperimenta per se stesso la distanza lacerante dal Padre, gridata
sulla croce: «Eloì, Eloì, lema sabactani?» (Mc 15,34), parola devastante
che fa da contraltare alla voce degli inizi: «Tu sei il figlio mio,
l’amato» (Mc 1,11).
Il desiderio che forma
La conformazione a Cristo e ai suoi sentimenti passa
necessariamente attraverso l’esperienza del desiderio, vissuto in
pienezza, in tutte le sue sfumature. Nel discorso della montagna Gesù
dichiara beato chi ha fame e sete (Mt 5,6), cioè chi desidera; questa è
la beatitudine che sostiene la vita consacrata, vita di donne e uomini
formati alla scuola del desiderio, educati a percepire gli aneliti
profondi e riconoscerli, persone che nella frequentazione di sé colgono
quell’aspirazione radicale e profonda di senso, tensione originaria di
una creatura plasmata a immagine del Creatore. Così i consacrati si
trovano spinti da questa sete, da uno struggimento non sopito, ma
coltivato fino a diventare inquietudine che provoca e affascina,
incoraggiando a cercare: «Ci hai fatti protesi verso di te, e inquieto è
il nostro cuore, finché non si acquieta in te».4
Alla scuola del desiderio si impara la disciplina del
silenzio, dell’assenza, della distanza; alla scuola del desiderio si
apprende l’arte sottile dell’ascolto, si affina la sensibilità e
l’udito. Alla scuola del desiderio il tatto si sensibilizza: da presa
graffiante diventa carezza, tenero abbraccio che sostiene. Alla scuola
del desiderio l’occhio diventa penetrante, capace di guardare lontano,
di bucare l’orizzonte nella speranza del ritorno di un figlio. Così,
pian piano il desiderio attraversa il corpo, lo cambia e lo educa ad
amare, scrivendo nella carne consacrata la forma di un amore accogliente
e generativo, un amore che attraverso il corpo troverà espressione
concreta in gesti e parole.
Solo chi desidera diventa a sua volta desiderabile e
attraente, perché egli stesso diventa testimonianza dell’infinito che ha
scorto, attestazione nella storia della presenza di un Oltre, di un
Amore che supera e che vale la pena cercare. È il segreto della
testimonianza di un incontro, che va ben oltre le ondate di piena che
portano con sé parole, suoni e colori accompagnando eventi eccezionali:
è la testimonianza scritta nella quotidianità della persona consacrata,
anima e corpo, intera e amante, desiderante e cercante.
Conformarsi a Cristo e ai suoi sentimenti ci spinge
dunque a riconsiderare due istanze formative originarie e decisive:
quella della corporeità e quella del desiderio, attraverso i quali
vivere e testimoniare concretamente alle donne e agli uomini del nostro
tempo la passione di Dio per l’uomo.
___________________
1 Cf GIOVANNI
PAOLO
II,
Udienza generale.
Mercoledì 20 febbraio 1980, n. 4.
2 Cf J. GARCIA
GRANADOS,
La carne si fa amore. Il corpo cardine della storia della salvezza.
Prefazione di S. E. R. Card. Angelo Scola, Cantagalli, Siena 2010, 82.
3 Cf M. RECALCATI,
Ritratti del desiderio,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, 17.
4 Cf SANT’AGOSTINO,
Confessioni
1, 1.
Benedetta
Rossi mdm
Biblista
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