n. 11
novembre 2012

 

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Ritrovare il soffio del Concilio
 

BRUNO SECONDIN

 

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Non sono pochi 50 anni oggi, perché le accelerazioni dei cambiamenti culturali e antropologici scompaginano tutto. Tanto più poi se si tratta di transizioni da forme e stili di vita che 50 anni fa erano già in ritardo (e parecchio!) e quindi la distanza si allunga di molto. Infatti proprio di questo si tratta nella vita ecclesiale e ancor di più nella vita religiosa.

Il Concilio nelle intenzioni e nella spinta profetica e sapienziale di Giovanni XXIII si era posto come compito e scopo di mettere in dialogo fiducioso una istituzione che era rimasta per lungo tempo sospettosa e resistente alla modernità, immettere aria nuova in situazioni e stili che ritenevano la resistenza fosse la cosa più giusta e migliore. E solo da questa prospettiva (retroilluminata) si pensava che poteva venire la fecondità e la qualità del vivere come “religiosi”, confondendo spesso tradizioni obsolete con la sostanza, abitudini pigre e deculturate con essenzialità sacra.

Le luci dell’aurora

In realtà, secondo il giudizio sapiente di Giovanni XXIII, il Concilio non poteva che essere solo un’aurora, un primo inizio di un cammino molto lungo, senza poterne prevedere tappe e crisi, soste e frenate, fughe e utopie. Così di fatto è stato: una prima aurora, un primo apparire di un sole di novità, ma anche di verità, che solo i decenni a venire avrebbero fatto capire cosa esigeva e dove si sarebbe stati condotti.

Era stato così anche per il Concilio di Trento, che ha dato effetti solo attraverso tre, quattro secoli, sino a ridosso del Vaticano II. E per quanto cultura ed esperienze siano oggi in rapida evoluzione, e quindi i cambiamenti non avvengano con la lentezza tipica dei secoli “tridentini”, tuttavia rimane vero che l’impulso conciliare ha bisogno di stagioni lunghe, di “piogge d’autunno e piogge di primavera” (Os 6,3) ripetute, insistenti.

Forse proprio questa dissonanza cognitiva tra la cultura dell’efficacia, del tutto e subito – in cui ci muoviamo e viviamo - e la cultura della grazia e della salvezza, che nonostante la modernità ancora si muove con tempi lunghi e dosaggi lenti, ha impedito di capire e apprezzare, di fidarsi e continuare nello slancio conciliare. Il processo di scomposizione e ricomposizione, di rottura della trasmissione fra generazioni e ricomposizione del modello nuovo, sotto la spinta conciliare, non è ancora esaurito, anzi non siamo neanche a metà del guado. Troppi rigurgiti di resistenza e di rivalsa, troppi nostalgici del passato che non muore, troppi impauriti del “dove andremo a finire?”, stanno rovinando la strada e minando la fiducia.

Per questo bisogna riprendere in mano quella fiaccola di audacia e fiducia che i padri conciliari ci hanno affidato: per metterla sopra il candelabro perché faccia luce a tutta la casa (cf Mt 5,15). Molti sembrano ricostruire ponti per tornare indietro, sotto la giusta preoccupazione di una corretta ermeneutica del rinnovamento in continuità e fecondità di comunione. I ponti vanno bruciati, la continuità non può significare staticità e nostalgia che sacralizza un passato polveroso.

Per molti quello che c’era prima era chiaro e valido, in ogni modo. E invece, ad essere onesti e veritieri, sappiamo bene che molte cose di prima, sacralizzate e ora ricordate come oro colato, erano in realtà meschinità e formalismi senz’anima. Anche gli ebrei nel deserto, alla prova dell’acqua che mancava e del cibo che scarseggiava, vaneggiavano affermando che in Egitto era meglio, perché si mangiava e la pancia si riempiva: meglio pancia piena anche se schiavi e oppressi, e lo gridano al cielo con furore! (cf Es 16,3).

Ritrovare il soffio conciliare

Nonostante tutti i guai e le resistenze, il soffio del Concilio è stato una grande, immensa grazia di sapienza e liberazione. Lo ripete sempre il papa Benedetto XVI, lo dobbiamo credere e affermare anche noi. Ma è anche un soffio che esige da noi disponibilità ad essere protagonisti sia della sua recezione che della sua efficacia operativa.

Dobbiamo dedicarci alla ricerca di una nuova santità: il Concilio ha invitato tutti a porsi questa meta, laici e consacrati, uomini e donne. Nel tempo questo ideale aperto a tutti sembra sfumato, è diventato una chimera: chi oggi insegna questa verità e la propone in maniera che trovi reazioni convinte? Molti religiosi, e non solo i cristiani comuni, si pongono come ideale una “vita buona”, dove non manchi la felicità e il bene-essere, la comodità, la garanzia su tutto.

Nonostante che di continuo siano proposte figure “ideali” di santi - attraverso le beatificazioni e le canonizzazioni - questa passione per una “misura alta dell’esistenza cristiana” (Giovanni Paolo II) non attecchisce molto. Forse perché una buona parte di quelli che arrivano al titolo di “beati” o “santi” offrono un modello di esistenza e di valori religiosi incarnati in schemi e stili che stridono con la nostra cultura e a volte anche con la nostra sensibilità religiosa. Quanti dei nuovi beati e santi, per esempio, hanno posto al centro della loro spiritualità la Parola di Dio, in

modo da poter dire che davvero in loro il primato della santità e della vita di preghiera è stato nutrito da un “intenso ascolto della Parola di Dio”, come diceva Giovanni Paolo II? (cf Novo Millennio Ineunte, 39). Quanti di loro, per fare un altro esempio, hanno assunto il rischio della profezia e della solidarietà nella storia dell’ingiustizia e vi hanno operato con creatività e audacia, e non piuttosto hanno dedicato molto del loro tempo e delle loro ansie alla miniatura interiore, fuori dai drammi della storia e dalle angosce dei poveri in agonia?

Se la liturgia è “culmen et fons” dell’esistenza cristiana e non solo impianto celebrativo gestito dai chierici, quanti dei nuovi santi e beati riflettono questa centralità vitale nella loro esperienza spirituale e anche nella loro preghiera vissuta? Non hanno forse continuato a considerare la liturgia una miniera di meriti per sé e per gli altri, una ritualità sacra da gestire con scrupolo, senza derogare da mille rubriche che la rendevano spesso incomprensibile?

Solo alcuni esempi, per dire che l’impulso conciliare nel campo della santità, della liturgia, della Parola - e si potrebbe continuare con molti altri settori di primaria importanza - rischia di essere anestetizzato (se non contraddetto e isterilito) da queste operazioni ecclesiastiche. Mentre si riconosce, e giustamente, la santità vissuta nei secoli passati, si rischia di creare una distonia pericolosa: se questi sono esemplari e ammirevoli credenti che ci accompagnano, allora certe sottolineature attuali, da loro non vissute, anzi spesso anche sfuggite, rendono incerto e insicuro il nostro presente, perché per loro le priorità - e quindi l’eroicità che li adorna - stava da un’altra parte.

Un soffio genuino e nuovo

Una delle novità intrinseche all’ispirazione conciliare è stata la distinzione fra rappresentatività e funzionalità. Mentre i precedenti Concili avevano lavorato molto per imporre “riforme” disciplinari, per rimediare a guai e “scandali” ecclesiastici, il Vaticano II ha preferito orientarsi verso l’enfasi sulle ragioni del vivere cristiano. Tutti i documenti infatti non hanno lo scopo di ribadire discipline e divieti, ma di dare ragioni e voce ai grandi valori della fede. E lo hanno fatto senza banalizzare il tutto con proposte all’ingrosso. Hanno voluto cioè che i cristiani fossero capaci di profondità autentica, non puramente rituale o chiesastica, e nello stesso tempo apportatori di significato in una società che rischiava di mettere al centro il mito dell’efficienza e della produzione come fini autocertificati.

I grandi criteri di “rinnovamento adeguato” della vita religiosa proposti dal Concilio chiedevano appunto che si tornasse a riconoscere le radici essenziali – il Cristo del Vangelo, il carisma dello Spirito, la funzione/passione nella Chiesa - ma anche a prendere sul serio la storia in cui si vive, non tanto per un camuffamento furbo, ma per fermentarla con valori radicali e presenza “simpatica” e non aggressiva. E proprio su queste due prospettive ci siamo giocati in questi anni tutto, col rischio però anche di sbandare.

La ricerca di una interpretazione genuina della propria identità originaria e delle intenzioni carismatiche degli inizi, a volte ha portato a sbandamenti fondamentalistici, col mito di una “primitiva” identità da conservare, nonostante il trascorrere dei secoli e i cambi delle culture. Oppure dall’altro lato, il bisogno parossistico di sentirsi utili ed efficienti ha portato la giusta preoccupazione della missione ad un attivismo nevrotico, ad una inventiva comunque fosse, senza verifica sulla relazione con l’identità normativa.

Profeti di speranza evangelica in un mondo a volte malato, ma anche ricco di tante nuove risorse - a cui Dio non è estraneo certamente - siamo diventati incapaci di dare forma convincente, per esempio, alla vita fraterna in comune, su cui il Concilio aveva offerto una rivoluzione copernicana (cf Perfectae caritatis, 15), incapaci di abitare il deserto con i suoi rischi e anche la sua funzione di purificazione ed essenzialità, nonostante, come tutti sappiamo, da lì Dio ci vuole far rinascere in fedeltà (cf Os 2). Eppure ci aggrappiamo ad un immobilismo pagano, alle strutture esistenti, per troppa paura.

Dovremmo essere ricercatori e testimoni di progetti evangelici vitali, appena intuiti e che solo nella speranza prenderanno forma e consistenza; uomini e donne di fede radicale, ma anche di calore genuino e non ipocrita, di spirito creativo ed esploratori di sentieri appena visibili, evitando di affogare lo spirito e il carisma nelle strutture sacralizzate e nella paura di lasciarle. Quanta angoscia in questo ultimo decennio per lo sgretolamento delle nostre presenze e localizzazioni, e quanto meno slancio autentico per vivere il vero scopo che ci giustifica: “Come memoria vivente del modo di essere e di operare di Gesù” (VC 22).

Eppure una delle caratteristiche del rinnovamento conciliare per la vita consacrata era proprio il ritorno radicale al Gesù e alla sua sequela, come è presentata nei vangeli (PC 2a). Ritornare a Cristo, in maniera non solo devota, ma anche teologicamente robusta e biblicamente genuina, può garantire autenticità e qualità per il nostro futuro. Questo esige mettere al centro la Parola, cosa che il Concilio aveva segnalato come centrale (cf PC 5; DV 21,25) e che nell’ultimo decennio è diventato uno dei leit-motiv del magistero nei nostri riguardi. Non si tratta però di un ascolto che serva solo ad ornare i nostri tempietti interiori, ma per diventare annunciatori profetici e testimoni audaci delle intenzioni di Dio nella storia e della sua azione efficace per la salvezza (cf VC 84-85). Solo così potremo essere dei “maestri” della sapienza del cuore e non solo degli operatori sociali.

Non darsi pace

Potremmo applicare a noi la frase degli indignados della Plaza del Sol di Madrid: “Poiché non ci lasciate sognare, non vi facciamo dormire”. Un’idea simile diceva molto prima Isaia: «Non datevi riposo e non concedete riposo neanche al Signore» (Is 62,6s). Inquieti tessitori di nuove vite dobbiamo essere: dove si evidenzino la centralità di Cristo e della sua Parola, il calore genuino delle relazioni fraterne e la trasparenza degli affetti, la passione sincera per le persone concrete, specie per i più deboli ed emarginati, la sapienza di una sobrietà che non si associa allo sperpero e al consumismo irresponsabile, l’intuizione profetica sugli scenari futuri che portano alla genuina felicità e non ai falsi miraggi di benessere vuoto di anima, l’attestazione della presenza del Dio vivente non è pura cornice di riferimento, ma quotidiano esercizio di ascolto e discernimento.

E per continuare, dobbiamo imparare a coniugare la mistica della notte solitaria con le notti epocali di generazioni e popoli; a condividere utopie e rivolte non con il gusto della dissacrazione, ma con la fiducia in un mondo meno ingiusto e più riconciliato; a stringere mani e rivolgere lo sguardo verso dove più atroce è  l’emarginazione, più buia la notte, più fragile la vita, più umiliata la dignità. Questi sono filoni genuini dell’impulso conciliare, al ritmo dello Spirito: bisogna non giocare a rimpiattino con lui, non sottrarsi alle sue roventi contestazioni, ai suoi richiami che scuotono tutto, come a Pentecoste.

Tocca a noi religiosi mostrare che lo Spirito non si era distratto in quell’epoca, e che anzi aveva fatto uso di profeti audaci e teologi obbedienti, che avevano rovesciato sicurezze secolari e fatto germogliare novità inattese. E noi vogliamo obbedire allo Spirito e dare forma vitale alle sue “mozioni” originali, senza sterilizzarle con la nostra ignavia. Neppure vogliamo bloccare la sua novità con le nostre paure e ansie, con i nostri bisogni di certezze chiare e distinte. Senza alcuna certezza hanno seguito lo Spirito i nostri fondatori e fondatrici, senza certezze e a rischio anche noi con loro seguiamo il Signore sulle strade degli uomini e delle donne, rilanciando di nuovo il soffio profetico del Concilio. Si tratta di una sfida mortale, che non possiamo trascurare, pena il nostro fallimento sicuro.

 

Bruno Secondin o.carm
Pontificia Università Gregoriana
Borgo Sant’Angelo,15 - 00193 Roma

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