Non
sono pochi 50 anni oggi, perché le accelerazioni dei cambiamenti
culturali e antropologici scompaginano tutto. Tanto più poi se si tratta
di transizioni da forme e stili di vita che 50 anni fa erano già in
ritardo (e parecchio!) e quindi la distanza si allunga di molto. Infatti
proprio di questo si tratta nella vita ecclesiale e ancor di più nella
vita religiosa.
Il Concilio nelle
intenzioni e nella spinta profetica e sapienziale di Giovanni XXIII si
era posto come compito e scopo di mettere in dialogo fiducioso una
istituzione che era rimasta per lungo tempo sospettosa e resistente alla
modernità, immettere aria nuova in situazioni e stili che ritenevano la
resistenza fosse la cosa più giusta e migliore. E solo da questa
prospettiva (retroilluminata) si pensava che poteva venire la fecondità
e la qualità del vivere come “religiosi”, confondendo spesso tradizioni
obsolete con la sostanza, abitudini pigre e deculturate con essenzialità
sacra.
Le luci dell’aurora
In realtà, secondo il
giudizio sapiente di Giovanni XXIII, il Concilio non poteva che essere
solo
un’aurora,
un primo inizio di un cammino molto lungo, senza poterne prevedere tappe
e crisi, soste e frenate, fughe e utopie. Così di fatto è stato: una
prima aurora, un primo apparire di un sole di novità, ma anche di
verità, che solo i decenni a venire avrebbero fatto capire cosa esigeva
e dove si sarebbe stati condotti.
Era stato così anche per
il Concilio di Trento, che ha dato effetti solo attraverso tre, quattro
secoli, sino a ridosso del Vaticano II. E per quanto cultura ed
esperienze siano oggi in rapida evoluzione, e quindi i cambiamenti non
avvengano con la lentezza tipica dei secoli “tridentini”, tuttavia
rimane vero che l’impulso conciliare ha bisogno di stagioni lunghe, di
“piogge d’autunno e piogge di primavera” (Os 6,3) ripetute, insistenti.
Forse proprio questa
dissonanza cognitiva tra la cultura dell’efficacia, del tutto e subito –
in cui ci muoviamo e viviamo - e la cultura della grazia e della
salvezza, che nonostante la modernità ancora si muove con tempi lunghi e
dosaggi lenti, ha impedito di capire e apprezzare, di fidarsi e
continuare nello slancio conciliare. Il processo di scomposizione e
ricomposizione, di rottura della trasmissione fra generazioni e
ricomposizione del modello nuovo, sotto la spinta conciliare, non è
ancora esaurito, anzi non siamo neanche a metà del guado. Troppi
rigurgiti di resistenza e di rivalsa, troppi nostalgici del passato che
non muore, troppi impauriti del “dove andremo a finire?”, stanno
rovinando la strada e minando la fiducia.
Per questo bisogna
riprendere in mano quella fiaccola di audacia e fiducia che i padri
conciliari ci hanno affidato: per metterla sopra il candelabro perché
faccia luce a tutta la casa (cf Mt 5,15). Molti sembrano ricostruire
ponti per tornare indietro, sotto la giusta preoccupazione di una
corretta ermeneutica del rinnovamento in continuità e fecondità di
comunione. I ponti vanno bruciati, la continuità non può significare
staticità e nostalgia che sacralizza un passato polveroso.
Per molti quello che c’era
prima era chiaro e valido, in ogni modo. E invece, ad essere onesti e
veritieri, sappiamo bene che molte cose di prima, sacralizzate e ora
ricordate come oro colato, erano in realtà meschinità e formalismi
senz’anima. Anche gli ebrei nel deserto, alla prova dell’acqua che
mancava e del cibo che scarseggiava, vaneggiavano affermando che in
Egitto era meglio, perché si mangiava e la pancia si riempiva: meglio
pancia piena anche se schiavi e oppressi, e lo gridano al cielo con
furore! (cf Es 16,3).
Ritrovare il soffio
conciliare
Nonostante tutti i guai e
le resistenze, il soffio del Concilio è stato una grande, immensa grazia
di sapienza e liberazione. Lo ripete sempre il papa Benedetto XVI, lo
dobbiamo credere e affermare anche noi. Ma è anche un soffio che esige
da noi disponibilità ad essere protagonisti sia della sua recezione che
della sua efficacia operativa.
Dobbiamo dedicarci alla
ricerca di una
nuova santità:
il Concilio ha invitato tutti a porsi questa meta, laici e consacrati,
uomini e donne. Nel tempo questo ideale aperto a tutti sembra sfumato, è
diventato una chimera: chi oggi insegna questa verità e la propone in
maniera che trovi reazioni convinte? Molti religiosi, e non solo i
cristiani comuni, si pongono come ideale una “vita buona”, dove non
manchi la felicità e il bene-essere, la comodità, la garanzia su tutto.
Nonostante che di continuo
siano proposte figure “ideali” di santi - attraverso le beatificazioni e
le canonizzazioni - questa passione per una “misura alta dell’esistenza
cristiana” (Giovanni Paolo II) non attecchisce molto. Forse perché una
buona parte di quelli che arrivano al titolo di “beati” o “santi”
offrono un modello di esistenza e di valori religiosi incarnati in
schemi e stili che stridono con la nostra cultura e a volte anche con la
nostra sensibilità religiosa. Quanti dei nuovi beati e santi, per
esempio, hanno posto al centro della loro spiritualità la Parola di Dio,
in
modo da poter dire che
davvero in loro il primato della santità e della vita di preghiera è
stato nutrito da un “intenso ascolto della Parola di Dio”, come diceva
Giovanni Paolo II? (cf
Novo Millennio Ineunte,
39). Quanti di loro, per fare un altro esempio, hanno assunto il rischio
della profezia e della solidarietà nella storia dell’ingiustizia e vi
hanno operato con creatività e audacia, e non piuttosto hanno dedicato
molto del loro tempo e delle loro ansie alla miniatura interiore, fuori
dai drammi della storia e dalle angosce dei poveri in agonia?
Se la liturgia è “culmen
et fons” dell’esistenza cristiana e non solo impianto celebrativo
gestito dai chierici, quanti dei nuovi santi e beati riflettono questa
centralità vitale nella loro esperienza spirituale e anche nella loro
preghiera vissuta? Non hanno forse continuato a considerare la liturgia
una miniera di meriti per sé e per gli altri, una ritualità sacra da
gestire con scrupolo, senza derogare da mille rubriche che la rendevano
spesso incomprensibile?
Solo alcuni esempi, per
dire che l’impulso conciliare nel campo della santità, della liturgia,
della Parola - e si potrebbe continuare con molti altri settori di
primaria importanza - rischia di essere anestetizzato (se non
contraddetto e isterilito) da queste operazioni ecclesiastiche. Mentre
si riconosce, e giustamente, la santità vissuta nei secoli passati, si
rischia di creare una distonia pericolosa: se questi sono esemplari e
ammirevoli credenti che ci accompagnano, allora certe sottolineature
attuali, da loro non vissute, anzi spesso anche sfuggite, rendono
incerto e insicuro il nostro presente, perché per loro le priorità - e
quindi l’eroicità che li adorna - stava da un’altra parte.
Un soffio genuino e nuovo
Una delle novità
intrinseche all’ispirazione conciliare è stata la distinzione fra
rappresentatività e funzionalità. Mentre i precedenti Concili avevano
lavorato molto per imporre “riforme” disciplinari, per rimediare a guai
e “scandali” ecclesiastici, il Vaticano II ha preferito orientarsi verso
l’enfasi sulle ragioni del vivere cristiano. Tutti i documenti infatti
non hanno lo scopo di ribadire discipline e divieti, ma di dare ragioni
e voce ai grandi valori della fede. E lo hanno fatto senza banalizzare
il tutto con proposte all’ingrosso. Hanno voluto cioè che i cristiani
fossero capaci di profondità autentica, non puramente rituale o
chiesastica, e nello stesso tempo apportatori di
significato
in una società
che rischiava di mettere al centro il mito dell’efficienza e della
produzione come fini autocertificati.
I grandi criteri di
“rinnovamento adeguato” della vita religiosa proposti dal Concilio
chiedevano appunto che si tornasse a riconoscere le radici essenziali –
il Cristo del Vangelo, il carisma dello Spirito, la funzione/passione
nella Chiesa - ma anche a prendere sul serio la storia in cui si vive,
non tanto per un camuffamento furbo, ma per fermentarla con valori
radicali e presenza “simpatica” e non aggressiva. E proprio su queste
due prospettive ci siamo giocati in questi anni tutto, col rischio però
anche di sbandare.
La ricerca di una
interpretazione genuina della propria identità originaria e delle
intenzioni carismatiche degli inizi, a volte ha portato a sbandamenti
fondamentalistici, col mito di una “primitiva” identità da conservare,
nonostante il trascorrere dei secoli e i cambi delle culture. Oppure
dall’altro lato, il bisogno parossistico di sentirsi utili ed efficienti
ha portato la giusta preoccupazione della missione ad un attivismo
nevrotico, ad una inventiva comunque fosse, senza verifica sulla
relazione con l’identità normativa.
Profeti di speranza
evangelica in un mondo a volte malato, ma anche ricco di tante nuove
risorse - a cui Dio non è estraneo certamente - siamo diventati incapaci
di dare forma convincente, per esempio, alla
vita fraterna in
comune, su cui il Concilio
aveva offerto una rivoluzione copernicana (cf
Perfectae caritatis,
15), incapaci di abitare il deserto con i suoi rischi e anche la sua
funzione di purificazione ed essenzialità, nonostante, come tutti
sappiamo, da lì Dio ci vuole far rinascere in fedeltà (cf Os 2). Eppure
ci aggrappiamo ad un immobilismo pagano, alle strutture esistenti, per
troppa paura.
Dovremmo essere
ricercatori e testimoni di progetti evangelici vitali, appena intuiti e
che solo nella speranza prenderanno forma e consistenza; uomini e donne
di fede radicale, ma anche di calore genuino e non ipocrita, di spirito
creativo ed esploratori di sentieri appena visibili, evitando di
affogare lo spirito e il carisma nelle strutture sacralizzate e nella
paura di lasciarle. Quanta angoscia in questo ultimo decennio per lo
sgretolamento delle nostre presenze e localizzazioni, e quanto meno
slancio autentico per vivere il vero scopo che ci giustifica: “Come
memoria vivente del modo di essere e di operare di Gesù” (VC 22).
Eppure una delle
caratteristiche del rinnovamento conciliare per la vita consacrata era
proprio il ritorno radicale al Gesù e alla sua sequela, come è
presentata nei vangeli (PC 2a). Ritornare a Cristo, in maniera non solo
devota, ma anche teologicamente robusta e biblicamente genuina, può
garantire autenticità e qualità per il nostro futuro. Questo esige
mettere al centro la Parola, cosa che il Concilio aveva segnalato come
centrale (cf PC 5; DV 21,25) e che nell’ultimo decennio è diventato uno
dei
leit-motiv
del magistero nei nostri riguardi. Non si tratta però di
un ascolto che serva solo ad ornare i nostri tempietti interiori, ma per
diventare annunciatori profetici e testimoni audaci delle intenzioni di
Dio nella storia e della sua azione efficace per la salvezza (cf VC
84-85). Solo così potremo essere dei “maestri” della sapienza del cuore
e non solo degli operatori sociali.
Non darsi pace
Potremmo applicare a noi
la frase degli
indignados
della Plaza del Sol di
Madrid: “Poiché non ci lasciate sognare, non vi facciamo dormire”.
Un’idea simile diceva molto prima Isaia: «Non datevi riposo e non
concedete riposo neanche al Signore» (Is 62,6s). Inquieti tessitori di
nuove vite dobbiamo essere: dove si evidenzino la centralità di Cristo e
della sua Parola, il calore genuino delle relazioni fraterne e la
trasparenza degli affetti, la passione sincera per le persone concrete,
specie per i più deboli ed emarginati, la sapienza di una sobrietà che
non si associa allo sperpero e al consumismo irresponsabile,
l’intuizione profetica sugli scenari futuri che portano alla genuina
felicità e non ai falsi miraggi di benessere vuoto di anima,
l’attestazione della presenza del Dio vivente non è pura cornice di
riferimento, ma quotidiano esercizio di ascolto e discernimento.
E per continuare, dobbiamo
imparare a coniugare la mistica della notte solitaria con le notti
epocali di generazioni e popoli; a condividere utopie e rivolte non con
il gusto della dissacrazione, ma con la fiducia in un mondo meno
ingiusto e più riconciliato; a stringere mani e rivolgere lo sguardo
verso dove più atroce è
l’emarginazione,
più buia la notte, più fragile la vita, più umiliata la dignità. Questi
sono filoni genuini dell’impulso conciliare, al ritmo dello Spirito:
bisogna non giocare a rimpiattino con lui, non sottrarsi alle sue
roventi contestazioni, ai suoi richiami che scuotono tutto, come a
Pentecoste.
Tocca a noi religiosi
mostrare che lo Spirito non si era distratto in quell’epoca, e che anzi
aveva fatto uso di profeti audaci e teologi obbedienti, che avevano
rovesciato sicurezze secolari e fatto germogliare novità inattese. E noi
vogliamo obbedire allo Spirito e dare forma vitale alle sue “mozioni”
originali, senza sterilizzarle con la nostra ignavia. Neppure vogliamo
bloccare la sua novità con le nostre paure e ansie, con i nostri bisogni
di certezze chiare e distinte. Senza alcuna certezza hanno seguito lo
Spirito i nostri fondatori e fondatrici, senza certezze e a rischio
anche noi con loro seguiamo il Signore sulle strade degli uomini e delle
donne, rilanciando di nuovo il soffio profetico del Concilio. Si tratta
di una sfida mortale, che non possiamo trascurare, pena il nostro
fallimento sicuro.
Bruno Secondin o.carm
Pontificia Università Gregoriana
Borgo
Sant’Angelo,15 - 00193 Roma