Al
n. 13 della Lettera Apostolica
Porta fidei,
scritta per l’indizione dell’anno della fede appena iniziato, Benedetto
XVI scrive: «In questo tempo terremo fisso lo sguardo su Gesù Cristo,
“colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2): in
lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia
dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la
forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita
dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della
sua Incarnazione, del suo farsi uomo, del condividere con noi la
debolezza umana per trasformarla con la potenza della sua risurrezione.
In lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli
esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia
di salvezza».
Nella luce pasquale
Al n. 6 di
Porta fidei
si parla del
battesimo che ci ha resi partecipi della morte e della risurrezione di
Cristo e in cui ci è stato fatto il dono della fede, grazie alla quale
«questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità
della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i
pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo
vengono lentamente purificati e trasformati, in un cammino mai
compiutamente terminato in questa vita».
La vita del credente è
dunque informata, anche nelle fibre più nascoste, dalla luce pasquale e
dalla speranza che ha in Cristo risorto la sua sorgente e il suo
compimento. Il mistero pasquale di Cristo è il punto di partenza del
cammino di fede di ogni discepolo e specialmente di quanti vivono uno
stato di particolare consacrazione.
A questo proposito, sempre
al n. 13 della stessa Lettera, il Papa scrive: «Per fede uomini e donne
hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere
in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità, segni
concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire. Per fede tanti
cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere
concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione
dall’oppressione e un anno di grazia per tutti (cf Lc 4,18-19)». La
ricchezza di queste considerazioni la troviamo contenuta, nella sua
sostanza, nella seconda Lettera Enciclica di Benedetto XVI, la
Spe salvi,
nella quale il pontefice ha posto al centro della nostra attenzione la
speranza cristiana.
«Cristo nostra speranza»
Al n. 8 della
Spe salvi,
dopo aver richiamato al n. 7 il testo di Ebrei 11,1 in cui leggiamo: «La
fede è hypostasis
delle cose che si
sperano; prova delle cose che non si vedono», Benedetto XVI afferma che
la fede conferisce un nuovo fondamento alla vita e fa sì che si crei una
nuova libertà. Ebbene, «questa nuova libertà, la consapevolezza della
nuova “sostanza” che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel
martirio […]. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a
partire dai monaci dell’antichità fino a Francesco d’Assisi e alle
persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti
religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli
uomini la fede e l’amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti
nel corpo e nell’anima. Lì la nuova “sostanza” si è comprovata realmente
come “sostanza”, dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è
scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. Lì
si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente “sostanza” ed è
una “sostanza” che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo
queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una “prova” che le
cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma
una vera presenza: egli è veramente il “filosofo” e il “pastore” che ci
indica che cosa è e dove sta la vita».
Più avanti, al n. 24,
parlando di quella che egli definisce la “fisionomia della speranza
cristiana”, poiché la speranza cristiana ha un volto e dei lineamenti
ben precisi, si procura di metterne in luce il carattere comunitario. La
speranza, infatti, è Cristo, e ciò vuol dire che in lui l’uomo è
liberato dal rischio di ricadere nelle secche dell’individualismo della
salvezza, nelle spire di una speranza privata e falsa, perché dimentica
degli altri, incurante dei loro bisogni, delle loro attese e paure.
In realtà, scrive il Papa
al n. 28: «Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con
Gesù - da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo. La
relazione con Gesù, però, è una relazione con colui che ha dato se
stesso in riscatto per tutti noi (cf 1Tm 2,6). L’essere in comunione con
Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere “per tutti”, ne fa il nostro
modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione
con lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per
l’insieme».
La speranza, che ha i
tratti del volto di Cristo, ci conduce a trasmetterla agli altri e ci
offre il dono della comunione, nonostante i limiti e gli insuccessi di
ogni giorno. La speranza che
è
Cristo conosce, infatti, i
segni della passione e si fa carico delle debolezze, dell’egoismo e del
peccato, ma nello stesso tempo sa fissare lo sguardo lontano, alla
definitiva liberazione dell’uomo e del mondo dalla corruzione e dalla
morte (cf Rm 8,22-23).
«La carità tutto spera»
Al n. 31 della
Spe salvi
leggiamo: «Noi abbiamo bisogno delle speranze - più piccole o più grandi
- che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande
speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa
grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può
proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio
l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il
fondamento della speranza - non un qualsiasi dio, ma quel Dio che
possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e
l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario,
posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove
egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà
la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza
perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è
imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che
esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo
aspettiamo: la vita che è “veramente” vita».
Questo passaggio ci
ricorda l’urgenza dell’annunzio della speranza al mondo di oggi. Siamo
esortati a esseri pronti a dare ragione al mondo della speranza che è in
noi (cf 1Pt 3,15). Per chi vive una speciale consacrazione ciò significa
porsi al servizio del “vangelo della speranza”, con la forza che
proviene dall’affermazione di fede che la Chiesa, immersa nella gioia
della Pasqua, pronuncia nella
Sequenza
della notte santa:
“Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea”.
Quest’antico componimento
liturgico, «che ripercorre i grandi temi del triduo pasquale, si
conclude con un annuncio di speranza che è, insieme, richiamo alla
responsabilità ed elezione per una missione» (R. Fisichella). È proprio
qui che dobbiamo individuare la radice di ogni autentico rinnovamento
personale e comunitario e la forza per ripartire sempre di nuovo con
l’energia dello Spirito. In questo cammino siamo invitati a riscoprire
quelli che Benedetto XVI definisce i “luoghi” di apprendimento della
speranza: innanzitutto la preghiera come scuola della speranza; l’agire
e il soffrire come luoghi di apprendimento della speranza e quindi il
Giudizio.
Proprio in riferimento al
Giudizio, al n. 41 il Papa scrive: «La prospettiva del Giudizio, già dai
primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita
quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come
richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella
giustizia di Dio. La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né
mai solo verso l’alto, ma sempre anche in avanti verso l’ora della
giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo
sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il
presente».
Nessuna alienazione,
dunque, in un futuro che ha da venire o nostalgia per un passato che non
c’è più, ma amore per il presente grazie alla luce che ci è offerta
dalla memoria delle opere compiute da Dio e dall’attesa dell’adempimento
definitivo della sua salvezza.
Compito unico e
inderogabile
Ci sarebbero molte altre
cose da aggiungere, ma solamente una riesce a raccoglierle in unità. Si
tratta del riferimento affettuoso e intenso - proprio alla fine della
sua Lettera Enciclica, ai nn. 49-50 - che Benedetto XVI fa alla beata
Vergine Maria “stella della speranza” alla quale tutti i credenti, e
specialmente i consacrati, devono imparare a guardare. La Madre di Dio
ha portato nel suo seno Cristo, speranza del mondo, e l’ha testimoniato
con la sua stessa vita. Ella stessa è «immagine della futura Chiesa che,
nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della
storia».
Ebbene, se è vero come è
vero che «il cristianesimo […] è speranza, è orientamento e movimento in
avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del presente»
(J. Moltmann), allora la speranza cristiana – che ha in Cristo la sua
sorgente e in Maria il suo sostegno - di cui il consacrato è testimone
privilegiato, deve essere tradotta anche nel nostro tempo, segnato da
una profonda crisi che è innanzitutto crisi della speranza e della
fiducia in un futuro migliore.
I consacrati hanno il
compito unico e inderogabile di annunciare la speranza come forza in
grado di rischiarare il cammino difficile del mondo e perfino della
Chiesa, senza cedere ai cascami di un facile e ingenuo ottimismo, miope
di fronte alla sofferenza dell’umanità e insensibile nei confronti delle
domande aperte della storia. La speranza cristiana è, infatti, speranza
che porta incisi nella sua carne i segni della passione, e non consente
al credente di mettere tra parentesi gli interrogativi e i drammi che
nascono e si consumano nel cuore dell’uomo, ma spinge ogni credente a
farsene carico perché ogni cosa sia trasfigurata dalla luce pasquale di
Cristo.
Salvatore Quasimodo, nella
sua poesia
Specchio
ci parla della vita che si
fa spazio tra le maglie fitte della morte e germoglia da una condizione
in cui sembrava non esserci più spazio per alcuna speranza. È il
miracolo di un’alba nascosta dietro il buio della notte. È il miracolo
della risurrezione, cuore dell’intero messaggio cristiano e del suo
annunzio, della missione e della predicazione della Chiesa. Di questa
speranza, Benedetto XVI ce lo ha ricordato, le persone consacrate sono
segno vivente e testimoni.
Francesco Brancato
Docente
di Teologia Dogmatica presso
lo Studio Teologico San Paolo di Catania
francobrancato@tiscali.it