n. 12
dicembre 2012

 

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Ripartire dall’attesa escatologica
Spe salvi

FRANCO BRANCATO

 

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Al n. 13 della Lettera Apostolica Porta fidei, scritta per l’indizione dell’anno della fede appena iniziato, Benedetto XVI scrive: «In questo tempo terremo fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2): in lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della sua Incarnazione, del suo farsi uomo, del condividere con noi la debolezza umana per trasformarla con la potenza della sua risurrezione. In lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di salvezza».

Nella luce pasquale

Al n. 6 di Porta fidei si parla del battesimo che ci ha resi partecipi della morte e della risurrezione di Cristo e in cui ci è stato fatto il dono della fede, grazie alla quale «questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purificati e trasformati, in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita».

La vita del credente è dunque informata, anche nelle fibre più nascoste, dalla luce pasquale e dalla speranza che ha in Cristo risorto la sua sorgente e il suo compimento. Il mistero pasquale di Cristo è il punto di partenza del cammino di fede di ogni discepolo e specialmente di quanti vivono uno stato di particolare consacrazione.

A questo proposito, sempre al n. 13 della stessa Lettera, il Papa scrive: «Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità, segni concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire. Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione e un anno di grazia per tutti (cf Lc 4,18-19)». La ricchezza di queste considerazioni la troviamo contenuta, nella sua sostanza, nella seconda Lettera Enciclica di Benedetto XVI, la Spe salvi, nella quale il pontefice ha posto al centro della nostra attenzione la speranza cristiana.

«Cristo nostra speranza»

Al n. 8 della Spe salvi, dopo aver richiamato al n. 7 il testo di Ebrei 11,1 in cui leggiamo: «La fede è hypostasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono», Benedetto XVI afferma che la fede conferisce un nuovo fondamento alla vita e fa sì che si crei una nuova libertà. Ebbene, «questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova “sostanza” che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel martirio […]. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell’antichità fino a Francesco d’Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l’amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell’anima. Lì la nuova “sostanza” si è comprovata realmente come “sostanza”, dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente “sostanza” ed è una “sostanza” che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una “prova” che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza: egli è veramente il “filosofo” e il “pastore” che ci indica che cosa è e dove sta la vita».

Più avanti, al n. 24, parlando di quella che egli definisce la “fisionomia della speranza cristiana”, poiché la speranza cristiana ha un volto e dei lineamenti ben precisi, si procura di metterne in luce il carattere comunitario. La speranza, infatti, è Cristo, e ciò vuol dire che in lui l’uomo è liberato dal rischio di ricadere nelle secche dell’individualismo della salvezza, nelle spire di una speranza privata e falsa, perché dimentica degli altri, incurante dei loro bisogni, delle loro attese e paure.

In realtà, scrive il Papa al n. 28: «Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù - da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo. La relazione con Gesù, però, è una relazione con colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi (cf 1Tm 2,6). L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere “per tutti”, ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme».

La speranza, che ha i tratti del volto di Cristo, ci conduce a trasmetterla agli altri e ci offre il dono della comunione, nonostante i limiti e gli insuccessi di ogni giorno. La speranza che è Cristo conosce, infatti, i segni della passione e si fa carico delle debolezze, dell’egoismo e del peccato, ma nello stesso tempo sa fissare lo sguardo lontano, alla definitiva liberazione dell’uomo e del mondo dalla corruzione e dalla morte (cf Rm 8,22-23).

«La carità tutto spera»

Al n. 31 della Spe salvi leggiamo: «Noi abbiamo bisogno delle speranze - più piccole o più grandi - che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza - non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita».

Questo passaggio ci ricorda l’urgenza dell’annunzio della speranza al mondo di oggi. Siamo esortati a esseri pronti a dare ragione al mondo della speranza che è in noi (cf 1Pt 3,15). Per chi vive una speciale consacrazione ciò significa porsi al servizio del “vangelo della speranza”, con la forza che proviene dall’affermazione di fede che la Chiesa, immersa nella gioia della Pasqua, pronuncia nella Sequenza della notte santa: “Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea”.

Quest’antico componimento liturgico, «che ripercorre i grandi temi del triduo pasquale, si conclude con un annuncio di speranza che è, insieme, richiamo alla responsabilità ed elezione per una missione» (R. Fisichella). È proprio qui che dobbiamo individuare la radice di ogni autentico rinnovamento personale e comunitario e la forza per ripartire sempre di nuovo con l’energia dello Spirito. In questo cammino siamo invitati a riscoprire quelli che Benedetto XVI definisce i “luoghi” di apprendimento della speranza: innanzitutto la preghiera come scuola della speranza; l’agire e il soffrire come luoghi di apprendimento della speranza e quindi il Giudizio.

Proprio in riferimento al Giudizio, al n. 41 il Papa scrive: «La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l’alto, ma sempre anche in avanti verso l’ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente».

Nessuna alienazione, dunque, in un futuro che ha da venire o nostalgia per un passato che non c’è più, ma amore per il presente grazie alla luce che ci è offerta dalla memoria delle opere compiute da Dio e dall’attesa dell’adempimento definitivo della sua salvezza.

Compito unico e inderogabile

Ci sarebbero molte altre cose da aggiungere, ma solamente una riesce a raccoglierle in unità. Si tratta del riferimento affettuoso e intenso - proprio alla fine della sua Lettera Enciclica, ai nn. 49-50 - che Benedetto XVI fa alla beata Vergine Maria “stella della speranza” alla quale tutti i credenti, e specialmente i consacrati, devono imparare a guardare. La Madre di Dio ha portato nel suo seno Cristo, speranza del mondo, e l’ha testimoniato con la sua stessa vita. Ella stessa è «immagine della futura Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia».

Ebbene, se è vero come è vero che «il cristianesimo […] è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del presente» (J. Moltmann), allora la speranza cristiana – che ha in Cristo la sua sorgente e in Maria il suo sostegno - di cui il consacrato è testimone privilegiato, deve essere tradotta anche nel nostro tempo, segnato da una profonda crisi che è innanzitutto crisi della speranza e della fiducia in un futuro migliore.

I consacrati hanno il compito unico e inderogabile di annunciare la speranza come forza in grado di rischiarare il cammino difficile del mondo e perfino della Chiesa, senza cedere ai cascami di un facile e ingenuo ottimismo, miope di fronte alla sofferenza dell’umanità e insensibile nei confronti delle domande aperte della storia. La speranza cristiana è, infatti, speranza che porta incisi nella sua carne i segni della passione, e non consente al credente di mettere tra parentesi gli interrogativi e i drammi che nascono e si consumano nel cuore dell’uomo, ma spinge ogni credente a farsene carico perché ogni cosa sia trasfigurata dalla luce pasquale di Cristo.

Salvatore Quasimodo, nella sua poesia Specchio ci parla della vita che si fa spazio tra le maglie fitte della morte e germoglia da una condizione in cui sembrava non esserci più spazio per alcuna speranza. È il miracolo di un’alba nascosta dietro il buio della notte. È il miracolo della risurrezione, cuore dell’intero messaggio cristiano e del suo annunzio, della missione e della predicazione della Chiesa. Di questa speranza, Benedetto XVI ce lo ha ricordato, le persone consacrate sono segno vivente e testimoni.

 

Francesco Brancato
Docente di Teologia Dogmatica presso
lo Studio Teologico San Paolo di Catania
francobrancato@tiscali.it

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