n. 12
dicembre 2012

 

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Gesù Amore
Deus Caritas est

FRANCESCO LAMBIASI

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Quando nel gennaio 2006 uscì la prima enciclica di papa Benedetto XVI - Deus Caritas est - il filosofo cattolico Giovanni Reale commentò: «La novità filosofica dell'enciclica è che ha riscritto un nuovo paradigma che include eros e agape. Tu non puoi donare, se prima non ricevi. Non puoi amare, se non sei amato. Insomma dobbiamo dare l'amore agli altri, ma ricevendolo prima da Dio». In questa breve ripresa del nucleo originale dell'enciclica, vorrei tentare tre passaggi: innanzitutto esplorare cosa c'era prima dell'enciclica; poi cosa si respirava intorno sia ad extra che ad intra della Chiesa; quindi provare ad entrarci dentro. Infine cercherò di declinarne una ricaduta nella vocazione e missione della vita consacrata.

 

Il vocabolario dell’amore

Nella morale cristiana cattolica l’amore è al centro, per il semplice fatto che è il centro della fede cristiana: identifica Dio (“Dio è amore”) e, conseguentemente, la persona umana, creata a immagine di Dio. Questa focalizzazione della centralità dell’amore nella storia della teologia morale si è registrata a partire dal Vaticano II. Prima del Concilio la morale cattolica era impostata secondo lo schema dei comandamenti, rinviando la categoria amore (carità) all’ascetica e alla mistica. Il Vaticano II non ha prodotto alcun documento, esplicitamente e direttamente dedicato alla teologia morale. Tuttavia non mancano passaggi del Concilio dove, parlando di questa branca della teologia, si raccomanda di ricapitolare tutta la morale cattolica in base alla categoria della carità-agape (cfr OT 16).

Ma che cosa si deve intendere per amore, secondo la Sacra Scrittura? Se si consulta la voce corrispondente nel Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, (EDB 1976), si legge che il greco dispone di tre parole per dire l'amore. La prima è philìa, e indica l'amore di amicizia. La seconda è eros, per dire, nella sua accezione “'bassa”, l'amore passionale, fatto di brama, di attrattiva sensibile, di piacere sensuale, mentre, nella sua accezione “alta”, esprime il desiderio della bellezza, l'attrattiva del divino. La terza è agàpe, parola preferita dal greco biblico, in particolare nel NT, per esprimere l'amore benevolo e gratuito di Dio, e, di riflesso, la carità fraterna.

Nell'enciclica Deus Caritas est (in seguito, DCe), il Papa nota che l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai. Delle tre parole greche relative all'amore, gli scritti neotestamentari privilegiano agape, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini (n. 3). Il fatto che il NT eviti accuratamente il termine eros, usando al suo posto sempre e solo agape, ha indotto alcuni a sostenere la tesi dell'assoluta incompatibilità, nella concezione cristiana, tra eros e agape.

Eros contro Agape

Alfiere di questa posizione è stato Anders Nygren, teologo luterano svedese, in un suo libro intitolato Eros e Agape, pubblicato in originale nel 1930, e arrivato in Italia nel 1971. In esso l'autore contrapponeva in modo irriducibile l'amore-eros e l'amore-agape. Il primo è centripeto, interessato e possessivo, e indica l'amore umano per Dio; il secondo, è centrifugo, del tutto puro e gratuito e indica l'amore divino per l'uomo. Il Nuovo Testamento ha fatto – secondo questo autore - una scelta precisa, preferendo, per esprimere l'amore, il termine agape e rifiutando sistematicamente il termine eros. San Paolo sarebbe l'autore che con maggiore fedeltà ha formulato questa antitesi radicale, ma appena il cristianesimo è entrato in contatto con il mondo greco, si sarebbero subito escogitati tentativi di sintesi.

Già con Origene si ha una rivalutazione dell'eros, fino allo Pseudo-Dionigi l'Areopagita che arriverà a scrivere: «Dio è eros», sostituendo questo termine a quello di agape nella celebre frase di san Giovanni (1Gv 4,16). In questa linea si collocano sant'Agostino: «Ci hai fatti, Signore, per te, e inquieto è il nostro cuore finché non s'acquieti in te» (Conf. 1,1); san Bernardo, quando definisce il grado supremo dell'amore di Dio come un «amare Dio per se stesso» e un «amare se stesso per Dio»; san Bonaventura, con il suo ascensionale Itinerario dell'anima a Dio; san Tommaso, che definisce l'amore di Dio effuso nel cuore del battezzato come «l'amore con cui Dio ama noi e con cui fa sì che noi amiamo lui».

Ma prima Lutero e poi Karl Barth hanno invece sostenuto un contrasto insanabile tra eros e agape. «Dove entra in scena l'amore cristiano - scrive il teologo evangelico di Basilea - ha inizio immediatamente il conflitto con l'altro amore e questo conflitto non ha più fine». Il Nygren si colloca in questa scia, perché secondo lui la visione cattolica - che su questo punto coincide con quella ortodossa - distrugge l'assoluta gratuità dell'amore di Dio. La controprova si avrebbe dall'esperienza e dalla riflessione dei mistici: secondo il teologo evangelico, l'amore umano per Dio, con la sua fortissima carica di eros, altro non sarebbe che un amore sensuale sublimato, un tentativo di stabilire con Dio un rapporto di presuntuosa reciprocità in amore.

Aut Eros aut Agape?

Il cristianesimo, secondo Friedriech Nietzsche, ha dato da bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Commenta il Papa: «Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?» (DCe 3).

Freud è andato fino in fondo in questa linea, riducendo l'amore a eros e l'eros a libido, a istintiva pulsione sessuale. È la punta estrema della secolarizzazione dell'amore: si estromette Dio dall'amore e l'amore dall'eros, fino a far coincidere eros e thanatos, amore e morte, come risulta, ad esempio, da I fiori del male di Beaudelaire, o da Una stagione all'inferno di Rimbaud, o come viene impietosamente descritto in un romanzo come Amarsi male di Mauriac.

Un veloce accenno al primo di questi tre scrittori francesi. Alla voluttà e ai piaceri della carne, anche quando li ha cercati con forsennata avidità, Charles Beaudelaire (1821-1887) ha sempre guardato come a un consegnarsi al disfacimento e alla morte. Ha dichiarato di essersi «inebriato unicamente di piacere, in una eccitazione continua», ma dietro l'ebbrezza della carne in delirio ha sempre scorto la tristezza, la rovina, la decomposizione, il putridume. Nel finale di un suo componimento poetico, dal titolo sintomatico, Une charogne, il poeta francese si rivolge alla donna amata e, attraverso di lei, alle bellezze femminili: tutte saranno ridotte a un letamaio sul quale ronzano le mosche e uno sciame di larve nere. Ecco l'efflorescenza lugubre della corruzione e del vizio. L'amore, la cosa più bella della vita - perché nasce dalla vita e dovrebbe generare solo vita – finisce invece ormai per condurre fatalmente alla morte.

Bisogna però onestamente riconoscere che questa cultura secolare che estromette l'amore dall'eros, cioè ogni riferimento a Dio e alla grazia, rappresenta il contraccolpo di certa teologia che, all'opposto, aveva estromesso l'eros dall'agape. «L'agape senza eros ci appare come un “amore freddo”, un amare “con la cima dei capelli”, più per imposizione della volontà che per intimo slancio del cuore; un calarsi dentro uno stampo precostituito, anziché crearsene uno proprio e irripetibile, come irripetibile è ogni essere umano davanti a Dio. Se l'amore umano è un corpo senz'anima, l'amore religioso così praticato è un'anima senza corpo» (R. Cantalamessa). Se la componente legata all'affettività e al cuore viene sistematicamente cancellata o congelata, l'esito sarà duplice: o si va in automatico nell'esperienza dell'amore, per doverismo o per puro volontarismo (ma che amore sarebbe un amore “automatico”?); oppure si va in cerca di compensazioni più o meno lecite. Non è forse, questo, il caso di certe brutte storie di persone consacrate, in cui si verifica la triste sindrome della “monaca di Monza”?

Eros e Agape

L’enciclica Deus Caritas est propone una teologia e un’antropologia in cui l’amore appare come primo principio teologico e, di conseguenza, come principio etico: la verità che Dio è amore fonda e struttura l’intera morale cristiana, sia a livello di vissuto che di riflessione teorica. Pertanto l’amore non è un comandamento, sia pure più importante rispetto ad altri, ma il comandamento, di cui gli altri non sono che determinazione e concreta realizzazione. Ma prima ancora l'amore è avvenimento: è l'evento dell'incarnazione del Figlio di Dio Amore che si fa carne, viene ad abitare in mezzo a noi, e alla fine dona il suo sangue per amore nostro; quindi viene risuscitato dal Padre per essere sempre vivo e intercedere per noi. L’amore è lo specifico cristiano: connota l’essere e l’agire cristiano nella Chiesa e nel mondo.

Ma la “novità” dell'enciclica consiste nel riaffermare la sintesi cattolica tradizionale esprimendola in un linguaggio moderno: «Eros e agape - amore ascendente e amore discendente - non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro [...]. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità - nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà “esserci per” l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono [...]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell'originario fenomeno umano che è l'amore, ma accetta tutto l'uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» (DCe 7-8). È in Dio che eros e agape sono pienamente fusi in una sintesi totale e armonica: «Egli ama - prosegue l'enciclica - e questo suo amore può essere qualificato come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape» (n. 9).

Dunque, né irriducibile contrapposizione tra eros e agape, né totale separazione, ma sintesi: una sintesi integrata e inclusiva. Infatti senza l'agape, l'eros è torbido; senza l'eros, l'amore è tiepido. L'eros è la fiamma, l'agape è l'ossigeno. La grazia - l'amore gratuito e appassionato di Dio - dona all'agape l'intensità ardente dell'eros, e all'eros la tenera gratuità dell'agape. In Dio questa sintesi è perfetta e beata, in noi è e rimane incompiuta e perfettibile: sempre da invocare e accogliere, mai da trascurare e disperdere.

 

Nella vita consacrata

Quale impatto ha questo messaggio sulla vita consacrata? E cosa ha da dire la vita consacrata al riguardo? La vita consacrata ha da dire la parola più alta della storia, la più forte del mondo, la più dolce della vita: Gesù Cristo. In Gesù si intrecciano l'amore divino per l'uomo e l'amore umano per Dio. In Cristo Dio ci ha amati con cuore d'uomo: questo è tipico e specifico del cristianesimo, rispetto all'ebraismo, all'islamismo, al buddhismo e ad ogni religione. Nella Deus Caritas est si parla esplicitamente della vita consacrata solo nella dedica, poiché l'enciclica è indirizzata anche “alle persone consacrate” e poi se ne riparla implicitamente al n. 40, dove il Papa elenca una lunga 'litania' di santi - quasi tutti monaci e religiosi - che hanno fatto brillare l'agape come carità verso il prossimo. Questa carità, ovviamente, è la prima e più diretta ricaduta dell'amore verso Dio. Ma l'enciclica impegna la vita consacrata a rilanciare il suo messaggio specifico: l'amore esclusivo - ma proprio per questo non “escludente”! - a Gesù. Prima del fratello che si vede, c'è l'amore del e per il Fratello,  che si vede e si tocca: il Dio fatto carne, Gesù Cristo! La bellezza e la pienezza della vita consacrata dipendono dalla purezza e dall'intensità dell'amore per Cristo. «Nulla assolutamente anteporre all'amore per Cristo», ha detto il padre del monachesimo latino, san Benedetto (e prima ancora lo aveva affermato san Cipriano).

Qui ora bisognerebbe citare l'interminabile canzoniere degli innamorati di Gesù, quali sono i santi religiosi e i grandi mistici: da Francesco d'Assisi a Ignazio di Loyola, alle tre “Terese” - d'Avila, di Lisieux, di Calcutta - a Charles de Foucauld e a molti, moltissimi altri. Che questo fortissimo e dolcissimo cantico dei cantici della Sposa al suo Sposo non si spenga mai sotto il cielo!

+ Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini
Presidente della Commissione CEI
per il Clero e la Vita consacrata

 

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