n. 1
gennaio 2013

 

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«La donna che canta»
Incendies

Leggiamo insieme il film

A cura di TERESA BRACCIO

 

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Dati tecnici

Titolo originale: Incendies
Genere: Drammatico
Regia: Denis Villeneuve
Interpreti: Lubna Azabal (Nawal Marwan), Mélissa Désormeaux Poulin (Jeanne Marwan), Maxime Gaudette (Simon Marwan), Rémy Girard (notaio Jean Lebel).
Nazionalità: Canada/Francia
Distribuzione: Lucky Red
Anno di uscita: 2011
Origine: Canada/Francia (2010)
Soggetto: Tratto dall'opera teatrale "Incendies" di Wajdi Mouawad
Sceneggiatura: Denis Villeneuve con Valérie Beaugrand Champagne, assistente
Fotografia (Panoramica/a colori): André Turpin
Musiche: Grégoire Hetzel
Montaggio: Monique Dartonne
Durata: 130'
Produzione: Luc Déry, Kim McCraw.

Note: Menzione Speciale alle “Giornate degli Autori” (Venezia 2010).

- Candidato all'Oscar 2011 come Miglior Film Straniero.

- Candidato al David di Donatello 2011 come Miglior Film Straniero.

La trama

Il regista canadese Denis Villeneuve interseca le vicende personali dei gemelli Marwan con quelle di un Paese non meglio precisato del Medio Oriente. La storia narrata dal film La donna che canta ha inizio a Montreal dove i gemelli Jeanne e Simon, dopo la morte della madre Narwal, sono convocati dal notaio da cui ricevono un singolare testamento e due lettere da recapitare una al padre, che loro credevano morto, e l'altra al fratello di cui non conoscevano l'esistenza. Jeanne, dopo lo shock iniziale, parte per il Medio Oriente, la terra da cui proviene la mamma. Prima da sola, poi insieme al fratello Simon, indagano per scoprire le origini della propria famiglia di cui non conoscono nulla.

Ripercorrono i momenti salienti della vita della madre alla ricerca di quei segreti sepolti per anni. La donna che si rivela man mano alla loro indagine è una creatura eroica e coraggiosa che ha lottato con tutte le forze per la propria libertà e per quella del suo Paese. La madre, di provenienza mediorientale, ha in effetti un passato drammatico che verrà ricomposto, e che noi spettatori ripercorriamo attraverso un viaggio parallelo dei protagonisti, uno ambientato negli anni ’80 e l’altro nei nostri giorni.

Ripercorriamo le tappe

All'origine del film troviamo Incendies l’opera teatrale di Wajdi Mouawad.

L'ambientazione in Medio Oriente è generica e indefinita: un drammatico panorama fa da sfondo alla storia passata di Narwal e a quella pre sente dei suoi figli che attraverseranno gli stessi luoghi, le stesse vie, in un percorso interminabile di famiglia, di persone e di paesi rischiarati dalla stessa luce, ma bagnati dal sangue di vittime sempre nuove. Non sono descritti tanto gli scenari ma i conflitti che hanno lacerato gli individui e le cose. Un tratteggio narrativo che a poco a poco porta lo spettatore a passare dalla violenza della guerra alle ferite del corpo e dell'anima. Gli affetti violati, i sentimenti negati, i corpi stuprati, affiorano in primo piano fissando nella mente la guerra con tutta la sua scia di morte. Come frammenti di un’unica realtà, gli avvenimenti si intrecciano in un susseguirsi incalzante di situazioni. Le emozioni contrapposte dei personaggi si riflettono  lternando momenti tragici ad altri rassicuranti e sereni. Spostandosi con bravura attraverso la vita presente dei due ragazzi e i lunghi flashback sull’esistenza della madre, la regia delinea una tragedia vibrante e coinvolgente, che giunge alla scoperta finale con bravura e rigore.

Interpretazione

Del regista Denis Villeneuve…

«Per raccontare un mondo che conosci poco devi ascoltare molto. Lasciare da parte il tuo ego e imparare dagli altri. Una cosa che amo del cinema è il lavorare in gruppo. Mi ha toccato nel profondo vedere tutti lavorare con tanto entusiasmo. Amo ascoltare la troupe e non essere un dittatore. [...] È stato un lungo lavoro passare dalla pagina allo schermo.L’autore mi ha dato carta bianca, la massima libertà. Anche a costo di lasciare solo il titolo o un personaggio, dicendo che il cinema era il mio lavoro, così come il teatro era il suo. È stato il più meraviglioso dono artistico della mia vita, perché in questo modo mi ha dato la possibilità di sbagliare, di distruggere quello splendido capolavoro, dalla grande forza visiva. Ho fatto un grande lavoro di distruzione, per poi ricreare quel lavoro teatrale per il cinema. Ma è stato anche un magnifico viaggio lungo un anno.

L’idea di svegliarmi adesso al mattino sapendo che La donna che canta non fa più parte della mia vita è una sensazione dolorosa. [...] Ho usato questo film per esercitarmi, per avere con una catarsi finale un equilibrio fra le idee e le emozioni. Per me era centrale mostrare come per diventare persone adulte si debba cancellare la rabbia dell’infanzia. Un passato che tormenta tutti e impedisce di essere veramente in possesso del proprio libero arbitrio senza liberarsi di quella collera che ossessiona. [...] Finché la violenza si perpetua e gli estremisti hanno la parola, la pace non sarà possibile. Ma di questo problema dobbiamo immischiarci tutti. Non possiamo dire che la cosa non ci riguarda, che è un affare tra israeliani e palestinesi. Il Medio Oriente ha bisogno di noi. Di tutti».

… dell’attrice Mélissa Désormeaux-Poulin…

«Arrivando in Giordania ho provato una forte sensazione di smarrimento che ho trasmesso al mio personaggio».

… dell’autore del testo teatrale Wajdi Mouawad

«S’è parlato molto della forma, del modo in cui si affrontava e raccontava la storia, ma pochissimo della scrittura. È qualcosa di strano per me perché ciò che mi interessa di più è la scrittura, la poesia della lingua. [...] Quella del Libano è stata una guerra vergognosa, in cui i padri hanno ucciso i figli, i figli hanno ucciso i fratelli, i figli hanno violentato le madri. I familiari non hanno voluto spiegare alla mia generazione quel che era accaduto. Degli estranei hanno dovuto narrarmi la loro storia. [...] La figura di Nawal è in parte modellata su una donna che tentò di uccidere un militare libanese e venne imprigionata per questo».

Utilizzo pastorale: alcune piste

Un’equazione matematica, crudele e inesorabile, è l’impressione che lascia la visione di La donna che canta. Un affresco intenso e straziante di una donna vittima e carnefice allo stesso tempo. Attraverso un tracciato di memoria si arriva alla ricostruzione del sua vita trascorsa e alla rinascita del futuro dei propri figli.

- In un doloroso viaggio, disseminato di luoghi e persone segnati dagli orrori della guerra, i due gemelli metteranno a nudo un passato di brutalità che ha segnato fatalmente la vita della madre, ma anche le loro esistenze. Per usare le parole della protagonista, l’infanzia «è un coltello piantato alla gola».

- Ci vorrà tutta la vita (e un testamento) per arrivare alla maturità, per estirpare l’odio di una fanciullezza violata. Un male genetico che troverà la fine solo nella forza del perdono. Su quei fatti che potrebbero generare rancore e vendetta, La donna che canta lascia ai figli due lettere invitandoli alla riconciliazione e alla speranza. Solo l'accettazione di quel male ereditario potrà garantire la loro rinascita nella dignità e nell’amore.

- Le incognite dell’equazione iniziale troveranno la soluzione verso la fine del racconto, la madre non sarà più una variabile sconosciuta: una scoperta inesorabile che commuove mentre ci lascia impietriti.

Tematiche: Carcere; Donna; Famiglia - genitori figli; Guerra; Politica-Società; Storia; Violenza.

Valutazione del CNVF: Consigliabile/problematico/dibattiti

Il film nella stampa

«C'è un senso di sacralità nel film di Villeneuve, per il modo in cui restituisce importanza alta alla responsabilità morale. Un risultato al quale contribuiscono interpreti di grande intensità, da Lubna Azabal a Rema Girard» (Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa, 21 gennaio 2011).

«Villeneuve non ci risparmia nulla ma non calca la mano, non specula su violenza e atrocità, anzi trova sempre la giusta distanza. Insistendo sui segni che il tempo ha lasciato sul paese e sui personaggi. E su una cornice intellettuale - Jeanne è una matematica di talento - che rende ancora più crudele quel caos ingovernabile» (Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 21 gennaio 2011).

«Qui il Medio Oriente - non meglio precisato, si cerca il paradigma - è donna, ma non ci sono carezze poetiche né buffetti estetici: la donna che canta piange pure, la violenza regna, l'orrore trova il formato famiglia. [...] Picchia duro, anche a effetto, Incendies, ma brucia davvero» (Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2011).

«Indefinibile il contesto (genericamente mediorientale) per volontà dell'autore che non vuole parlare di una guerra, ma della guerra. La visione ci costringe a passare - con una forza straordinaria da risultare spesso insostenibile - per l'inferno dell'odio che in modo lapidario  in una frase che la stessa Nawal pronuncia durante i suoi patimenti:“Voglio insegnare al mio nemico quello che ho imparato dalla vita”» (Roberta Ronconi, Liberazione, 9 settembre 2010).

«Il film ricalca i canoni del teatro tragico classico. Il personaggio principale appare come la vittima di una sorte ingiusta. La sua colpasi ripercuote involontariamente sui figli. Ma la sua caduta è essenziale alla catarsi finale. Una liberazione che qui si concretizza nella presadi coscienza che dal male può nascere solo altro male e che è quindi necessario rompere la spirale del feroce risentimento per potersi non solo riconciliare con il proprio passato, per quanto terribile e doloroso, ma anche per affrontare il presente con animo purificato, riconciliato. L'indicibile sofferenza di una madre diventa, dunque, riflesso universale del tormento di una terra e di un popolo. Villeneuve – che mostra tutto senza sconti ma anche senza indulgere a inutili eccessi - confeziona il film come fosse lo svolgimento di un'equazione matematica con molte incognite e un risultato sorprendente» (Gaetano Vallini, L'Osservatore Romano, 2 febbraio 2011).

«La donna che canta è un film che impegna lo spettatore, che esige uno spettatore attivo e partecipe. Quello che vuole orientarsi rispetto allo sfondo storico-politico evocato, e poco spiegato, che è molto complesso. Ma anche quello che voglia solo seguire la dimensione umana del racconto, che è difficile da digerire per le sue dolorose implicazioni. È un connotato positivo. Il rigetto della facilità e della semplificazione. Le cose belle vanno conquistate e anche un po' sofferte. In cambio di emozioni potenti» (Paolo D'Agostini, La Repubblica, 22 gennaio 2011).

 

Teresa Braccio fsp
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