Dati tecnici
Titolo originale:
Incendies
Genere:
Drammatico
Regia:
Denis Villeneuve
Interpreti:
Lubna Azabal (Nawal Marwan), Mélissa Désormeaux Poulin (Jeanne Marwan),
Maxime Gaudette (Simon Marwan), Rémy Girard (notaio Jean Lebel).
Nazionalità:
Canada/Francia
Distribuzione:
Lucky Red
Anno
di uscita:
2011
Origine:
Canada/Francia (2010)
Soggetto:
Tratto dall'opera teatrale "Incendies" di Wajdi Mouawad
Sceneggiatura:
Denis Villeneuve con Valérie Beaugrand Champagne, assistente
Fotografia (Panoramica/a colori):
André Turpin
Musiche:
Grégoire Hetzel
Montaggio:
Monique Dartonne
Durata:
130'
Produzione:
Luc
Déry, Kim McCraw.
Note:
Menzione Speciale alle “Giornate degli Autori” (Venezia 2010).
-
Candidato all'Oscar 2011 come Miglior Film Straniero.
-
Candidato al David di Donatello 2011 come Miglior Film Straniero.
La
trama
Il
regista canadese Denis Villeneuve interseca le vicende personali dei
gemelli Marwan con quelle di un Paese non meglio precisato del Medio
Oriente. La storia narrata dal film
La
donna che canta
ha
inizio a Montreal dove i gemelli Jeanne e Simon, dopo la morte della
madre Narwal, sono convocati dal notaio da cui ricevono un singolare
testamento e due lettere da recapitare una al padre, che loro credevano
morto, e l'altra al fratello di cui non conoscevano l'esistenza. Jeanne,
dopo lo shock iniziale, parte per il Medio Oriente, la terra da cui
proviene la mamma. Prima da sola, poi insieme al fratello Simon,
indagano per scoprire le origini della propria famiglia di cui non
conoscono nulla.
Ripercorrono i momenti salienti della vita della madre alla ricerca di
quei segreti sepolti per anni. La donna che si rivela man mano alla loro
indagine è una creatura eroica e coraggiosa che ha lottato con tutte le
forze per la propria libertà e per quella del suo Paese. La madre, di
provenienza mediorientale, ha in effetti un passato drammatico che verrà
ricomposto, e che noi spettatori ripercorriamo attraverso un viaggio
parallelo dei protagonisti, uno ambientato negli anni ’80 e l’altro nei
nostri giorni.
Ripercorriamo le tappe
All'origine del film troviamo
Incendies
l’opera teatrale di Wajdi Mouawad.
L'ambientazione in Medio Oriente è generica e indefinita: un drammatico
panorama fa da sfondo alla storia passata di Narwal e a quella pre sente
dei suoi figli che attraverseranno gli stessi luoghi, le stesse vie, in
un percorso interminabile di famiglia, di persone e di paesi rischiarati
dalla stessa luce, ma bagnati dal sangue di vittime sempre nuove. Non
sono descritti tanto gli scenari ma i conflitti che hanno lacerato gli
individui e le cose. Un tratteggio narrativo che a poco a poco porta lo
spettatore a passare dalla violenza della guerra alle ferite del corpo e
dell'anima. Gli affetti violati, i sentimenti negati, i corpi stuprati,
affiorano in primo piano fissando nella mente la guerra con tutta la sua
scia di morte. Come frammenti di un’unica realtà, gli avvenimenti si
intrecciano in un susseguirsi incalzante di situazioni. Le emozioni
contrapposte dei personaggi si riflettono lternando momenti tragici ad
altri rassicuranti e sereni. Spostandosi con bravura attraverso la vita
presente dei due ragazzi e i lunghi flashback sull’esistenza della
madre, la regia delinea una tragedia vibrante e coinvolgente, che giunge
alla scoperta finale con bravura e rigore.
Interpretazione
Del regista Denis Villeneuve…
«Per
raccontare un mondo che conosci poco devi ascoltare molto. Lasciare da
parte il tuo ego e imparare dagli altri. Una cosa che amo del cinema è
il lavorare in gruppo. Mi ha toccato nel profondo vedere tutti lavorare
con tanto entusiasmo. Amo ascoltare la troupe e non essere un dittatore.
[...] È stato un lungo lavoro passare dalla pagina allo schermo.L’autore
mi ha dato carta bianca, la massima libertà. Anche a costo di lasciare
solo il titolo o un personaggio, dicendo che il cinema era il mio
lavoro, così come il teatro era il suo. È stato il più meraviglioso dono
artistico della mia vita, perché in questo modo mi ha dato la
possibilità di sbagliare, di distruggere quello splendido capolavoro,
dalla grande forza visiva. Ho fatto un grande lavoro di distruzione, per
poi ricreare quel lavoro teatrale per il cinema. Ma è stato anche un
magnifico viaggio lungo un anno.
L’idea di svegliarmi adesso al mattino sapendo che
La
donna che canta
non
fa più parte della mia vita è una sensazione dolorosa. [...] Ho usato
questo film per esercitarmi, per avere con una catarsi finale un
equilibrio fra le idee e le emozioni. Per me era centrale mostrare come
per diventare persone adulte si debba cancellare la rabbia
dell’infanzia. Un passato che tormenta tutti e impedisce di essere
veramente in possesso del proprio libero arbitrio senza liberarsi di
quella collera che ossessiona. [...] Finché la violenza si perpetua e
gli estremisti hanno la parola, la pace non sarà possibile. Ma di questo
problema dobbiamo immischiarci tutti. Non possiamo dire che la cosa non
ci riguarda, che è un affare tra israeliani e palestinesi. Il Medio
Oriente ha bisogno di noi. Di tutti».
…
dell’attrice Mélissa Désormeaux-Poulin…
«Arrivando in Giordania ho provato una forte sensazione di smarrimento
che ho trasmesso al mio personaggio».
…
dell’autore del testo teatrale Wajdi Mouawad
«S’è
parlato molto della forma, del modo in cui si affrontava e raccontava la
storia, ma pochissimo della scrittura. È qualcosa di strano per me
perché ciò che mi interessa di più è la scrittura, la poesia della
lingua. [...] Quella del Libano è stata una guerra vergognosa, in cui i
padri hanno ucciso i figli, i figli hanno ucciso i fratelli, i figli
hanno violentato le madri. I familiari non hanno voluto spiegare alla
mia generazione quel che era accaduto. Degli estranei hanno dovuto
narrarmi la loro storia. [...] La figura di Nawal è in parte modellata
su una donna che tentò di uccidere un militare libanese e venne
imprigionata per questo».
Utilizzo pastorale: alcune piste
Un’equazione matematica, crudele e inesorabile, è l’impressione che
lascia la visione di
La
donna che canta.
Un affresco intenso e straziante di una donna vittima e carnefice allo
stesso tempo. Attraverso un tracciato di memoria si arriva alla
ricostruzione del sua vita trascorsa e alla rinascita del futuro dei
propri figli.
- In
un doloroso viaggio, disseminato di luoghi e persone segnati dagli
orrori della guerra, i due gemelli metteranno a nudo un passato di
brutalità che ha segnato fatalmente la vita della madre, ma anche le
loro esistenze. Per usare le parole della protagonista, l’infanzia «è un
coltello piantato alla gola».
- Ci
vorrà tutta la vita (e un testamento) per arrivare alla maturità, per
estirpare l’odio di una fanciullezza violata. Un male genetico che
troverà la fine solo nella forza del perdono. Su quei fatti che
potrebbero generare rancore e vendetta,
La
donna che canta
lascia ai figli due lettere invitandoli alla riconciliazione e alla
speranza. Solo l'accettazione di quel male ereditario potrà garantire la
loro rinascita nella dignità e nell’amore.
- Le
incognite dell’equazione iniziale troveranno la soluzione verso la fine
del racconto, la madre non sarà più una variabile sconosciuta: una
scoperta inesorabile che commuove mentre ci lascia impietriti.
Tematiche:
Carcere; Donna; Famiglia - genitori figli; Guerra; Politica-Società;
Storia; Violenza.
Valutazione del CNVF:
Consigliabile/problematico/dibattiti
Il
film nella stampa
«C'è
un senso di sacralità nel film di Villeneuve, per il modo in cui
restituisce importanza alta alla responsabilità morale. Un risultato al
quale contribuiscono interpreti di grande intensità, da Lubna Azabal a
Rema Girard» (Alessandra Levantesi Kezich,
La
Stampa,
21 gennaio 2011).
«Villeneuve non ci risparmia nulla ma non calca la mano, non specula su
violenza e atrocità, anzi trova sempre la giusta distanza. Insistendo
sui segni che il tempo ha lasciato sul paese e sui personaggi. E su una
cornice intellettuale - Jeanne è una matematica di talento - che rende
ancora più crudele quel caos ingovernabile» (Fabio Ferzetti,
Il
Messaggero,
21 gennaio 2011).
«Qui
il Medio Oriente - non meglio precisato, si cerca il paradigma - è
donna, ma non ci sono carezze poetiche né buffetti estetici: la donna
che canta piange pure, la violenza regna, l'orrore trova il formato
famiglia. [...] Picchia duro, anche a effetto,
Incendies,
ma brucia davvero» (Federico Pontiggia,
Il
Fatto Quotidiano,
21 gennaio 2011).
«Indefinibile il contesto (genericamente mediorientale) per volontà
dell'autore che non vuole parlare di una guerra, ma della guerra. La
visione ci costringe a passare - con una forza straordinaria da
risultare spesso insostenibile - per l'inferno dell'odio che in modo
lapidario in una frase che la stessa Nawal pronuncia durante i suoi
patimenti:“Voglio insegnare al mio nemico quello che ho imparato dalla
vita”» (Roberta Ronconi,
Liberazione,
9 settembre 2010).
«Il
film ricalca i canoni del teatro tragico classico. Il personaggio
principale appare come la vittima di una sorte ingiusta. La sua colpasi
ripercuote involontariamente sui figli. Ma la sua caduta è essenziale
alla catarsi finale. Una liberazione che qui si concretizza nella
presadi coscienza che dal male può nascere solo altro male e che è
quindi necessario rompere la spirale del feroce risentimento per potersi
non solo riconciliare con il proprio passato, per quanto terribile e
doloroso, ma anche per affrontare il presente con animo purificato,
riconciliato. L'indicibile sofferenza di una madre diventa, dunque,
riflesso universale del tormento di una terra e di un popolo. Villeneuve
– che mostra tutto senza sconti ma anche senza indulgere a inutili
eccessi - confeziona il film come fosse lo svolgimento di un'equazione
matematica con molte incognite e un risultato sorprendente» (Gaetano
Vallini,
L'Osservatore Romano,
2 febbraio 2011).
«La
donna che canta
è un
film che impegna lo spettatore, che esige uno spettatore attivo e
partecipe. Quello che vuole orientarsi rispetto allo sfondo
storico-politico evocato, e poco spiegato, che è molto complesso. Ma
anche quello che voglia solo seguire la dimensione umana del racconto,
che è difficile da digerire per le sue dolorose implicazioni. È un
connotato positivo. Il rigetto della facilità e della semplificazione.
Le cose belle vanno conquistate e anche un po' sofferte. In cambio di
emozioni potenti» (Paolo D'Agostini,
La
Repubblica,
22 gennaio 2011).
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