«Radicalità
evangelica» significa distacco (prima di tutto con il cuore) da ogni
cosa per il Vangelo, anche dagli affetti più cari, perfino dalla propria
vita: «Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: “Se
uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i
fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio
discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non
può essere mio discepolo”» (Lc 14,25-27).
La
«radicalità evangelica», in secondo luogo, non è riservata solo a pochi
eletti, ma è un'esigenza per chiunque voglia seguire Gesù: «Uno scriba
si avvicinò e gli disse: “Maestro io ti seguirò dovunque tu andrai”. Gli
rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i
loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo”. E un
altro dei discepoli gli disse: “Signore, permettimi di andar prima a
seppellire mio padre”. Ma Gesù gli rispose: “Seguimi e lascia i morti
seppellire i loro morti”» (Mt 8,19.22). Commenta Giovanni Paolo II: «Per
tutti i cristiani, nessuno escluso, il radicalismo evangelico è
un'esigenza fondamentale e irrinunciabile, che scaturisce dall'appello
di Cristo a seguirlo e a imitarlo, in forza dell'intima comunione di
vita con lui operata dallo Spirito».1
La
«radicalità evangelica», infine, non riguarda solo la vita personale del
singolo cristiano, ma - come insiste Gesù - deve risplendere soprattutto
nella testimonianza viva della Chiesa: «Voi siete la luce del mondo; non
può restare nascosta una città collocata sopra un monte […], risplenda
la vostra luce davanti agli uomini» (Mt 14.16). Perciò, anziché fare un
discorso generico sulla vocazione di tutti i cristiani alla perfezione,
la celebrazione del 50° dall'inizio del Vaticano II suggerisce di
chiederci piuttosto in quale misura la Chiesa abbia recepito il richiamo
conciliare alla «radicalità evangelica». È quanto si è chiesto anche il
card. Martini nell'intervista-testamento, rilasciata pochi giorni prima
di morire. «La Chiesa – dice l'Arcivescovo - è rimasta indietro di 200
anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?
La fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio».2
Con quale credibilità - aggiungiamo noi – si può parlare di «radicalità
evangelica» nel nostro tempo, se la Chiesa per prima non ne dà
testimonianza? Ecco perché è importante rispolverare il discorso del
Concilio sulla necessità di una Chiesa profetica, povera e libera.
Una Chiesa profetica
Il
Concilio, spostando l'accento dall'ecclesiologia societaria a quella
di comunione, ha condotto la Chiesa a riscoprire la natura profetica
della sua missione di annunzio e di testimonianza della «radicalità
evangelica». Proprio per questo, essa oggi non si presenta più come
«società perfetta», né si considera più un tempio chiuso riservato ai
fedeli cattolici; si definisce, invece, «popolo di Dio in cammino
attraverso la storia », cioè comunità aperta, alla quale, in vario modo
appartengono o sono ordinati sia i cattolici, sia i cristiani delle
altre confessioni, sia tutti gli uomini che Dio vuole indistintamente
salvi (cf LG 13). La Chiesa del Concilio, cioè, esce dal chiuso delle
mura del tempio e si fa profezia: vicina a tutti e presente in ogni
luogo dove l'uomo vive, lavora, costruisce la città, soffre e muore.
Ciò
ovviamente ha cambiato profondamente i rapporti della Chiesa con il
mondo; si pensi, per esempio, alle mutate relazioni con lo Stato, alle
numerose iniziative di dialogo interculturale e interreligioso, alle
prese di posizione di fronte all'applicazione delle nuove tecnologie
alla medicina e alla vita umana o di fronte alle sfide della giustizia e
della pace, della fame e dello sviluppo economico.
Meno
coraggioso, invece, (per non dire insufficiente) appare l'impegno della
Chiesa - in questi 50 anni - in vista del rinnovamento della sua vita
interna, sul quale il Concilio aveva molto insistito. Infatti, il
Concilio era stato molto chiaro: ecclesiologia di comunione - disse -
taglia alla radice ogni forma di «clericalismo», cosicché nella Chiesa
non vi sono cristiani di serie A (il clero) e di serie B (i laici), ma
«comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo,
comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione» (LG
32).
Di
conseguenza - specificò ulteriormente - l’autorità nella Chiesa non è
burocrazia o amministrazione, ma è servizio e testimonianza; la
Gerarchia si colloca non al di sopra, ma all’interno del Popolo di Dio;
il successore di Pietro non è un imperatore, ma è il «servo dei servi di
Dio», all’interno del corpo mistico di Cristo; i fedeli laici non sono
minorenni, né «preti mancati» o delegati del clero, ma ricevono
direttamente da Cristo, nel battesimo e nella confermazione, la missione
unica, propria di tutto il Popolo di Dio, in quanto essi pure - nella
loro misura - partecipano dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale
di Cristo (cf LG 31).
Proprio per questo, sulla base dell'ecclesiologia di comunione, il
Concilio ha potuto chiedere che lo «spirito collegiale» si estendesse a
tutta la vita della Chiesa, al di là della collegialità in senso
strettamente giuridico, prevista nei rapporti tra il Papa e i vescovi.
Lo «spirito collegiale», quindi, avrebbe dovuto informare tutte le forme
di collaborazione e di partecipazione tra le diverse componenti della
Chiesa; non per ragioni solo di efficienza organizzativa, ma per una
profonda ragione ecclesiologica e profetica.
Nessuno mette in dubbio l'obbedienza al magistero e alla gerarchia,
posta da Cristo stesso a fondamento della Chiesa. Tuttavia, lo stesso
Spirito Santo, che affida alla gerarchia la missione di guidare il
Popolo di Dio, dispensa pure tra i semplici fedeli, di ogni ordine, doni
o carismi utili al rinnovamento e alla crescita della Chiesa, che vanno
riconosciuti e accolti con gratitudine (cf LG 12). L'obbedienza quindi
non esclude, ma postula il dialogo intraecclesiale, animato da un
sincero «spirito collegiale» o sinodale, a tutti i livelli della vita
comunitaria.
Tutte queste cose il Concilio le ha dette e chieste con molta chiarezza
50 anni fa. Eppure, siamo ancora molto lontani dall'averle messe in
pratica. Non c'è dubbio che, per quanto riguarda la riforma interna, la
Chiesa sia in grave ritardo.
Una Chiesa povera
Un
altro aspetto essenziale della «radicalità evangelica», su cui tanto ha
insistito il Concilio, è la povertà: «Come Cristo ha compiuto la
redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa
è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti
della salvezza […]; quantunque per compiere la sua missione abbia
bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della
terra, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e
l'abnegazione» (LG 8).
La
Chiesa «rinnovata» del Concilio, cioè, dev'essere povera e deve amare i
poveri di amore preferenziale. Non è, questa, una scelta demagogica o
ideologica, ma evangelica. La povertà, infatti, manifesta la gratuità
della salvezza di Dio, il quale, da ricco che era, si è fatto povero
perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cf 2Cor
8,9). Sulla radicalità della povertà Gesù è esplicito: «Non portate con
voi né borsa, né bisaccia, né calzari» (Lc 10,4); che è come dire:
usate, sì, i beni di cui avete bisogno e che sono necessari, ma non
riponete in essi la vostra fiducia. La scelta preferenziale dei poveri
nasce non solo dal fatto che Cristo ne ha preso il volto e le piaghe, ma
anche dalla consapevolezza che essi hanno non solo bisogno di aiuto, ma
hanno anche molto da dare: sono portatori, infatti, di un messaggio di
grande importanza sia per la vita della Chiesa, sia per la vita sociale
e politica. Il loro grido mentre da un lato denuncia ciò che a essi
manca e a cui hanno diritto, dall'altro indica le scelte prioritarie da
fare per realizzare una società a misura d'uomo.
La
«radicalità evangelica», dunque, va al di là del dovere della
benevolenza e dell'elemosina verso i poveri ed esige che ne condividiamo
i problemi, che camminiamo con loro, che facciamo nostri i loro
problemi, le loro angosce e speranze. Se serviamo i ricchi, i ricchi
possono ricompensarci e ciò rende meno limpida la nostra testimonianza;
se invece serviamo i poveri, i quali non ci possono ricompensare, allora
la testimonianza evangelica è senza ombre: nel mondo veramente è apparso
l'Amore!
Una Chiesa libera
Il
Concilio l'ha detto esplicitamente: la Chiesa «non pone la sua speranza
nei privilegi offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinuncerà
all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse
che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua
testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (GS
76). Non si nega ovviamente alla Chiesa il diritto e il dovere di
mantenere rapporti cordiali con le istituzioni politiche, ma il Concilio
richiama il pericolo che la diplomazia limiti e imbrigli la profezia. I
concordati e lo scambio di rappresentanze diplomatiche tra la Chiesa e
gli Stati appartengono al vecchio regime di cristianità, sono otri
vecchi, che offuscano agli occhi del nostro tempo la «radicalità
evangelica». È importante che la Chiesa sia e appaia libera da ogni
legame con il potere, umile e disarmata testimone del Vangelo, che ponga
la sua fiducia solo nella Parola di Dio, nella santità dei suoi figli e
nel servizio ai poveri, evitando -come suggerisce il Concilio – anche la
sola apparenza appoggiarsi sui privilegi concessi dai potenti di turno.
Né
si può dimenticare che «poveri», secondo il Vangelo, sono anche coloro
che soffrono a motivo della loro situazione irregolare e per
l'emarginazione in cui spesso si trovano. Tra questi il card. Martini
ricorda, nel suo testamento spirituale, i divorziati risposati e le
famiglie allargate, spesso abbandonati a se stessi anche all'interno
della Chiesa. Perché - si domanda il Cardinale -, anziché discutere se i
divorziati possano fare la Comunione, non ci chiediamo in che modo la
Chiesa può aiutare con la forza dei sacramenti i «poveri spiritualmente
», che si trovano in situazioni familiari complesse? I sacramenti non
sono uno strumento per ristabilire la disciplina violata, ma un aiuto
per i più «bisognosi» nei momenti difficili del cammino e nelle
debolezze della vita.
In
conclusione, a 50 anni dall'inizio del Concilio, è tempo di riaprire con
coraggio il discorso sulla «radicalità evangelica» e sulla sua
testimonianza nella Chiesa. L'Anno della Fede, voluto da Benedetto XVI,
può essere l'occasione propizia per riprendere con fiducia il cammino di
rinnovamento, intrapreso con il Concilio, ma rimasto fermo a metà.
1 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica
Pastores dabo vobis
(25
marzo 1992), in
Enchiridion Vaticanum,
13, n. 27.
2 C.M. MARTINI,
L'ultima intervista,
in
«Il Corriere della sera», 1° settembre 2012.
Bartolomeo Sorge sj
Direttore di «Aggiornamenti sociali»
Piazza san Fedele, 4 - 20121 Milano
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