n. 1
gennaio 2013

 

Altri articoli disponibili

  English

La radicalità evangelica nel nostro tempo
 

BARTOLOMEO SORGE

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

«Radicalità evangelica» significa distacco (prima di tutto con il cuore) da ogni cosa per il Vangelo, anche dagli affetti più cari, perfino dalla propria vita: «Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”» (Lc 14,25-27).

La «radicalità evangelica», in secondo luogo, non è riservata solo a pochi eletti, ma è un'esigenza per chiunque voglia seguire Gesù: «Uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro io ti seguirò dovunque tu andrai”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo”. E un altro dei discepoli gli disse: “Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre”. Ma Gesù gli rispose: “Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti”» (Mt 8,19.22). Commenta Giovanni Paolo II: «Per tutti i cristiani, nessuno escluso, il radicalismo evangelico è un'esigenza fondamentale e irrinunciabile, che scaturisce dall'appello di Cristo a seguirlo e a imitarlo, in forza dell'intima comunione di vita con lui operata dallo Spirito».1

La «radicalità evangelica», infine, non riguarda solo la vita personale del singolo cristiano, ma - come insiste Gesù - deve risplendere soprattutto nella testimonianza viva della Chiesa: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte […], risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Mt 14.16). Perciò, anziché fare un discorso generico sulla vocazione di tutti i cristiani alla perfezione, la celebrazione del 50° dall'inizio del Vaticano II suggerisce di chiederci piuttosto in quale misura la Chiesa abbia recepito il richiamo conciliare alla «radicalità evangelica». È quanto si è chiesto anche il card. Martini nell'intervista-testamento, rilasciata pochi giorni prima di morire. «La Chiesa – dice  l'Arcivescovo - è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? La fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio».2 Con quale credibilità - aggiungiamo noi – si può parlare di «radicalità evangelica» nel nostro tempo, se la Chiesa per prima non ne dà testimonianza? Ecco perché è importante rispolverare il discorso del Concilio sulla necessità di una Chiesa profetica, povera e libera.

Una Chiesa profetica

Il Concilio, spostando l'accento   dall'ecclesiologia societaria a quella di comunione, ha condotto la Chiesa a riscoprire la natura profetica della sua missione di annunzio e di testimonianza della «radicalità evangelica». Proprio per questo, essa oggi non si presenta più come «società perfetta», né si considera più un tempio chiuso riservato ai fedeli cattolici; si definisce, invece, «popolo di Dio in cammino attraverso la storia », cioè comunità aperta, alla quale, in vario modo appartengono o sono ordinati sia i cattolici, sia i cristiani delle altre confessioni, sia tutti gli uomini che Dio vuole indistintamente salvi (cf LG 13). La Chiesa del Concilio, cioè, esce dal chiuso delle mura del tempio e si fa profezia: vicina a tutti e presente in ogni luogo dove l'uomo vive, lavora, costruisce la città, soffre e muore.

Ciò ovviamente ha cambiato profondamente i rapporti della Chiesa con il mondo; si pensi, per esempio, alle mutate relazioni con lo Stato, alle numerose iniziative di dialogo interculturale e interreligioso, alle prese di posizione di fronte all'applicazione delle nuove tecnologie alla medicina e alla vita umana o di fronte alle sfide della giustizia e della pace, della fame e dello sviluppo economico.

Meno coraggioso, invece, (per non dire insufficiente) appare l'impegno della Chiesa - in questi 50 anni - in vista del rinnovamento della sua vita interna, sul quale il Concilio aveva molto insistito. Infatti, il Concilio era stato molto chiaro: ecclesiologia di comunione - disse - taglia alla radice ogni forma di «clericalismo», cosicché nella Chiesa non vi sono cristiani di serie A (il clero) e di serie B (i laici), ma «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione» (LG 32).

Di conseguenza - specificò ulteriormente - l’autorità nella Chiesa non è burocrazia o amministrazione, ma è servizio e testimonianza; la Gerarchia si colloca non al di sopra, ma all’interno del Popolo di Dio; il successore di Pietro non è un imperatore, ma è il «servo dei servi di Dio», all’interno del corpo mistico di Cristo; i fedeli laici non sono minorenni, né «preti mancati» o delegati del clero, ma ricevono direttamente da Cristo, nel battesimo e nella confermazione, la missione unica, propria di tutto il Popolo di Dio, in quanto essi pure - nella loro misura - partecipano dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo (cf LG 31).

Proprio per questo, sulla base dell'ecclesiologia di comunione, il Concilio ha potuto chiedere che lo «spirito collegiale» si estendesse a tutta la vita della Chiesa, al di là della collegialità in senso strettamente giuridico, prevista nei rapporti tra il Papa e i vescovi. Lo «spirito collegiale», quindi, avrebbe dovuto informare tutte le forme di collaborazione e di partecipazione tra le diverse componenti della Chiesa; non per ragioni solo di efficienza organizzativa, ma per una profonda ragione ecclesiologica e profetica.

Nessuno mette in dubbio l'obbedienza al magistero e alla gerarchia, posta da Cristo stesso a fondamento della Chiesa. Tuttavia, lo stesso Spirito Santo, che affida alla gerarchia la missione di guidare il Popolo di Dio, dispensa pure tra i semplici fedeli, di ogni ordine, doni o carismi utili al rinnovamento e alla crescita della Chiesa, che vanno riconosciuti e accolti con gratitudine (cf LG 12). L'obbedienza quindi non esclude, ma postula il dialogo intraecclesiale, animato da un sincero «spirito collegiale» o sinodale, a tutti i livelli della vita comunitaria.

Tutte queste cose il Concilio le ha dette e chieste con molta chiarezza 50 anni fa. Eppure, siamo ancora molto lontani dall'averle messe in pratica. Non c'è dubbio che, per quanto riguarda la riforma interna, la Chiesa sia in grave ritardo.

Una Chiesa povera

Un altro aspetto essenziale della «radicalità evangelica», su cui tanto ha insistito il Concilio, è la povertà: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza […]; quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione» (LG 8).

La Chiesa «rinnovata» del Concilio, cioè, dev'essere povera e deve amare i poveri di amore preferenziale. Non è, questa, una scelta demagogica o ideologica, ma evangelica. La povertà, infatti, manifesta la gratuità della salvezza di Dio, il quale, da ricco che era, si è fatto povero perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cf 2Cor 8,9). Sulla radicalità della povertà Gesù è esplicito: «Non portate con voi né borsa, né bisaccia, né calzari» (Lc 10,4); che è come dire: usate, sì, i beni di cui avete bisogno e che sono necessari, ma non riponete in essi la vostra fiducia. La scelta preferenziale dei poveri nasce non solo dal fatto che Cristo ne ha preso il volto e le piaghe, ma anche dalla consapevolezza che essi hanno non solo bisogno di aiuto, ma hanno anche molto da dare: sono portatori, infatti, di un messaggio di grande importanza sia per la vita della Chiesa, sia per la vita sociale e politica. Il loro grido mentre da un lato denuncia ciò che a essi manca e a cui hanno diritto, dall'altro indica le scelte prioritarie da fare per realizzare una società a misura d'uomo.

La «radicalità evangelica», dunque, va al di là del dovere della benevolenza e dell'elemosina verso i poveri ed esige che ne condividiamo i problemi, che camminiamo con loro, che facciamo nostri i loro problemi, le loro angosce e speranze. Se serviamo i ricchi, i ricchi possono ricompensarci e ciò rende meno limpida la nostra testimonianza; se invece serviamo i poveri, i quali non ci possono ricompensare, allora la testimonianza evangelica è senza ombre: nel mondo veramente è apparso l'Amore!

Una Chiesa libera

Il Concilio l'ha detto esplicitamente: la Chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinuncerà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (GS 76). Non si nega ovviamente alla Chiesa il diritto e il dovere di mantenere rapporti cordiali con le istituzioni politiche, ma il Concilio richiama il pericolo che la diplomazia limiti e imbrigli la profezia. I concordati e lo scambio di rappresentanze diplomatiche tra la Chiesa e gli Stati appartengono al vecchio regime di cristianità, sono otri vecchi, che offuscano agli occhi del nostro tempo la «radicalità evangelica». È importante che la Chiesa sia e appaia libera da ogni legame con il potere, umile e disarmata testimone del Vangelo, che ponga la sua fiducia solo nella Parola di Dio, nella santità dei suoi figli e nel servizio ai poveri, evitando -come suggerisce il Concilio – anche la sola apparenza appoggiarsi sui privilegi concessi dai potenti di turno.

Né si può dimenticare che «poveri», secondo il Vangelo, sono anche coloro che soffrono a motivo della loro situazione irregolare e per l'emarginazione in cui spesso si trovano. Tra questi il card. Martini ricorda, nel suo testamento spirituale, i divorziati risposati e le famiglie allargate, spesso abbandonati a se stessi anche all'interno della Chiesa. Perché - si domanda il Cardinale -, anziché discutere se i divorziati possano fare la Comunione, non ci chiediamo in che modo la Chiesa può aiutare con la forza dei sacramenti i «poveri spiritualmente », che si trovano in situazioni familiari complesse? I sacramenti non sono uno strumento per ristabilire la disciplina violata, ma un aiuto per i più «bisognosi» nei momenti difficili del cammino e nelle debolezze della vita.

In conclusione, a 50 anni dall'inizio del Concilio, è tempo di riaprire con coraggio il discorso sulla «radicalità evangelica» e sulla sua testimonianza nella Chiesa. L'Anno della Fede, voluto da Benedetto XVI, può essere l'occasione propizia per riprendere con fiducia il cammino di rinnovamento, intrapreso con il Concilio, ma rimasto fermo a metà.

1 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis (25 marzo 1992), in Enchiridion Vaticanum, 13, n. 27.

2 C.M. MARTINI, L'ultima intervista, in «Il Corriere della sera», 1° settembre 2012.

Bartolomeo Sorge sj
Direttore di «Aggiornamenti sociali»
Piazza san Fedele, 4 - 20121 Milano

 

Condividi su:

Torna indietro