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Introduzione
La mia presenza a questo seminario è
nel segno della solidarietà femminile. Alle donne non dico mai no; se
poi l’SOS arriva dalle religiose, mi sento obbligata a dir di sì, non
fosse altro che per il debito di gratitudine che le stesse laiche
abbiamo verso quante hanno fatto questa scelta. Peraltro, senza la vita
religiosa (VR) ci sarebbe mancata per secoli una teologia al femminile.
Devo aggiungere poi che ai problemi della VR sono stata indotta ad
accostarmi a ragione dell’ecclesiologia, la disciplina che coltivo e
insegno. Da ultimo mi è stato richiesto di tenere il corso su “La VR
nella Chiesa” al Claretianum, l’Istituto la cui specializzazione è
appunto la VR. Trattandosi di un corso fondamentale ed essendo io una
laica, la cosa mi ha meravigliato. D’altra parte è corso che svolgo con
tutta parresia laicale.
Certamente siamo a uno snodo
difficile. La VR appare in crisi, soprattutto nelle sue forme più
importanti e ricche di storia. La crisi tuttavia tocca più in generale
la Chiesa. La domanda alla fine è pur sempre: quale Chiesa per il
futuro? E di conseguenza, quale VR nel futuro? A queste domande dobbiamo
rispondere con franchezza. Dobbiamo provare a immaginare la Chiesa del
terzo millennio e in tutta corrispondenza dobbiamo provare a immaginare
una VR capace di sedurre e di incidere sul modello di Chiesa.
L’intervento che propongo si articola
in cinque punti. I primi tre servono da introduzione; offrono
dunque alcuni elementi circa la mia declinazione della Chiesa. In essa
si colloca la mia lettura della VR che è un po’ diversa da quella
abituale. La mia pretesa è, infatti, quella di leggerla come fatto
strutturale, con ciò collocandola al cuore della Chiesa. Uno dei
problemi che ci ha lasciato il Vaticano II è proprio questo: dove
collocare la VR? Appartiene alla struttura, all’essenza profonda della
Chiesa? È, invece, un qualcosa che può esserci o no, senza con ciò che
ne sia toccato il mistero? La mia tesi è che la VR appartiene al mistero
della Chiesa e, in particolare, appartiene a quella nominazione della
Chiesa che la dice nel segno delle nozze.
Devo aggiungere ancora che differisco
anche nella lettura che abitualmente si da della VR considerandola un
carisma. Nel mio approccio alla Chiesa, e in essa alla VR, leggo il
carisma, anzi la permanente carismaticità della Chiesa, come dato che
riguarda tutti i battezzati. Di più, il carisma, il dono a ciascuno
elargito, obbligatoriamente deve tradursi in servizio, e dunque appella
alla corrispondente ministerialità.
Pongo queste affermazioni a titolo di
premessa per rendere comprensibile il discorso. Aggiungo soltanto che, a
mio giudizio, in questo quadro la stessa VR riceve una fondazione
teologica più robusta e adeguata. Tra l’altro ci si mette fuori dalla
facile polemica: questo sì, questo no; questo va bene, questo non va
bene; e soprattutto ci si libera dalla pretestuosa contrapposizione tra
carisma e istituzione.
1. La vita religiosa nella Chiesa tra struttura e funzione
A livello sistematico articolo
l’ecclesiologia secondo la polarità struttura-funzione. Chiamo
“struttura” il mistero della Chiesa; chiamo “funzione” il ministero, il
servizio. Se c’è una dialettica che costituisce la comunità dei credenti
in Cristo Gesù, comunità illuminata dallo Spirito, è proprio quella tra
il mistero e la sua traduzione operativa. La struttura legge la Chiesa
in ciò che essa è; ma la Chiesa non può esaurirsi nella sua
autocomprensione. La Chiesa va immediatamente ricondotta al suo essere
per gli altri, e dunque alla funzione, al servizio, al ministero.
All’interno della struttura ci sono
vari modi di predicare la Chiesa. Personalmente ricorro a quattro
espressioni che ci vengono dalla Scrittura e a quattro che ci vengono
dalla professione di fede. Leggo la Chiesa come mistero-sacramento,
popolo di Dio, corpo di Cristo, sposa del Cristo; come una, santa,
cattolica, apostolica. Naturalmente la Chiesa è anche altro – tempio,
pleroma, ad esempio. Mi pare però che questi modi di predicarla
diano conto sufficientemente di ciò che ne costituisce il mistero.
Esemplifico limitandomi alle prime
quattro locuzioni. Se rinunciamo a dire la Chiesa popolo di Dio,
rinunciamo alla sua storicità, alla sua indole peregrinante; rinunciamo
all’originaria e nativa comune vocazione. Sono valori che altre immagini
bibliche non altrettanto garantiscono. Analogamente se rinunciamo a dire
la Chiesa corpo di Cristo, perdiamo la connessione organica delle membra
tra loro, e perdiamo anche il rapporto con il radunarsi che fa la
Chiesa, con la sinassi, con l’azione liturgica. Nel produrre il corpo
eucaristico del Signore la Chiesa produce se stessa. Sicché il corpo è
il corpo eucaristico del Signore, ma è il corpo ecclesiale che offre al
Padre pane e vino perché diventino corpo e sangue del Signore.
Analogamente non è possibile sottrarre la Chiesa all’ambito della
sacramentalità. Ciò significherebbe chiuderla in un circolo di
autoreferenzialità; la Chiesa si parlarebbe addosso. La sacramentalità,
invece, è ponte, è apertura, è istanza missionaria, è, come dicevo
prima, essere per gli altri.
1.1. La nuzialità
della Chiesa e la vita religiosa come suo manifesto
Relativamente alla VR, ma anche
relativamente a quella che è la struttura antropologica dell’essere
umano nel suo accadimento secondo la dualità di genere, mi piace leggere
la Chiesa secondo l’immagine della “sposa”. Ed è in questa figura della
sposa che Cristo si è acquistata nel suo sangue, in questa chiamata all’alterità,
all’incontro, alla comunione interpersonale, al dialogo – ci si metta
pure ciò che si vuole – che trova senso l’esserci di ciascun essere
vivente, che abbia avuto il privilegio d’essere chiamato sia alla vita
che alla comunità ecclesiale. Ovviamente, la nuzialità viene espressa
sacramentalmente nel matrimonio: ma, sia pure in modo non sacramentale,
viene espressa anche nella consacrazione religiosa. In realtà, mi si
perdoni, amerei leggere anche l’iscriversi del singolo/a nell’orizzonte
di Dio unicamente amato, nell’ambito della sacramentalità. Probabilmente
nel segnare sacramentalmente le sole nozze ha operato la sapienza dello
Spirito avvertendoci circa il fatto che la sponsalità è esperienza duale
compiuta. La nuzialità della continenza o della verginità consacrata è
per così dire “postulata”. C’è una solitudine che io devo colmare nel
donarmi totalmente a Dio. Forse, potrebbe essere questa, la ragione che
ha portato a definire sacramento il matrimonio e, viceversa, a leggere
come evento non sacramentale la consacrazione religiosa.
Comunque sia, l’orientarsi di ciascun
essere umano, uomo o donna, all’altro avviene in due contesti che
declinano entrambi la Chiesa come sposa che si sa generata da Cristo e
ne attende il ritorno. Sia gli sposi cristiani nella compiutezza della
loro unione coniugale, sia i consacrati nella virtualità o nella
tensione all’unione piena e definitiva con Cristo attestano il medesimo
mistero nuziale della Chiesa. E ciò appartiene all’essenza, alla
struttura della Chiesa. La nuzialità della Chiesa non è qualcosa che può
esserci o non esserci. La Chiesa è sposa nel suo statuto misterico. Da
questo punto di vista credo veramente che la VR debba essere
riconosciuta nella sua forza emblematica. Non è pensabile la Chiesa
senza la consacrazione religiosa, come non è pensabile la Chiesa senza
la nuzialità di quelli che sposano in Cristo. Quella della sposa non è
una allegoria. Occorre dare contenuto reale alle parole, alle
espressioni che usiamo, anche quando il punto di partenza è una
metafora. Per altro popolo, corpo, sposa, mistero non possono essere
ridotti a semplici metafore. Piaccia o non piaccia, semplice o complesso
che sia, rinunciare alla dimensione nuziale della Chiesa vuol dire
tagliarsi fuori da una dinamica relazionale senza la quale è davvero
difficile l’intelligenza e la fruizione del mistero della Chiesa. Basta
andare a Efesini, 5,22-32 per rendersi conto del valore del simbolo
nuziale e delle dinamiche che comporta. Allo stesso modo, non è metafora
il corpo di Cristo che la Chiesa è. Se proviamo a darne una
interpretazione puramente metaforica avremo demolito una delle istanze
più forti a partire dal NT e poi dai Padri, via via sino allo stesso
Vaticano II; mi riferisco all’ecclesiologia di comunione. Quanto meno
bisogna parlare di “metafore vive”, e riconoscerne le dinamiche vitali
ed esistenziali. Certo queste chiavi di approccio non esauriscono il
mistero della Chiesa; esso resta per definizione “eccedente”. La realtà
della Chiesa rimane sempre al di là di ogni nostro tentativo di
definizione.
1.2. La
ministerialità della Chiesa e la vita religiosa come servizio
Se la Chiesa è tra “struttura” e
“funzione”, tra “mistero” e “ministero”, evidentemente non è pensabile
nessuna modalità di esistenza ecclesiale – singolare, duale, collettiva
– se non nell’ambito della traduzione del mistero, e dunque del
servizio, del ministero. Personalmente sono persuasa che la VR esprime
la ministerialità della Chiesa. È facile costatare che non è mai fine a
se stessa. Lo provano le formule diversificate dei riti della
professione religiosa; nel momento in cui viene sulla candidata o sul
candidato recitata la preghiera di consacrazione, troviamo sempre
esplicitata la modalità pratica a cui, nello spirito dell’Istituto,
all’interno di quella spiritualità, di quel carisma di fondazione, la
candidata o il candidato si impegna e che costituisce lo specifico della
stessa consacrazione.
Quando liturgicamente troviamo
espressioni del tipo: “la grazia divina… porti a compimento ciò che ha
iniziato in te”, ci troviamo dinanzi a una costituzione in ministero. Ho
letto con attenzione tanto il rito della professione religiosa che
quello della consecratio virginum e la costante è proprio questa.
Ero solita dire in altri tempi che la Chiesa non ha bisogno di istituire
il diaconato femminile: ce l’ha già, basta che prenda sul serio i riti
relativi alla professione religiosa o alla consacrazione delle vergini.
Questo vuol dire, e chiudo, che la VR
non è un determinarsi egocentrico ed egoistico, fine a se stesso, sia
pure sull’onda emozionale o intellettuale di una proposta che seduce il
cuore o il cervello. La VR si scrive nell’orizzonte ecclesiale del
servizio; la sua ragion d’essere è il servizio. Esso potrà connotarsi
come attività pubblica o meno ma sempre resterà servizio. Anche la vita
interamente contemplativa è diretta al servizio. Ancora una volta, ciò
che identifica la scelta d’auto-determinarsi in una vita d’assoluta,
piena e sola contemplazione, non è la sola, assoluta e piena
contemplazione, ma il servizio che così facendo viene reso alla comunità
ecclesiale.
2. Il carisma come elemento strutturante la Chiesa
Tra la struttura della Chiesa e la
ministerialità della Chiesa occorre però che invochiamo quella che ne è
la molla; l’elemento che sutura le due cose e rende ultimamente
possibile il servizio. Mi riferisco allo Spirito Santo e ai suoi
carismi. Nella mia lettura ecclesiologica chiamo lo Spirito
“soggetto strutturante” e i suoi doni, i carismi, “elementi
strutturali”. Senza il rinvio allo Spirito e ai suoi doni, il mistero
della Chiesa non potrebbe mai tradursi in ministero, la struttura non
potrebbe mai tradursi in funzione.
2.1. Lo Spirito
donatore e dono
Lo Spirito egli stesso è donatore e
dono. Il carisma non è dunque un qualcosa di graziosamente elargito ora
a questo ora a quello per pura gratuità. Il carisma è ciò attraverso cui
la Chiesa si rivela come creatura dello Spirito, come realtà nella quale
lo Spirito interagisce conducendola, perennemente purificandola, verso
il suo Signore.
Lo Spirito che conduce la
Chiesa-sposa incontro a Cristo-sposo elargisce alla comunità i suoi
molteplici doni. È per loro tramite che la comunità viene disegnata nel
suo dover essere all’interno come all’esterno. I doni infatti edificano
la comunità, le consentono di raggiungere la sua pienezza grazie allo
specifico contributo di ciascuno. Assicurano altresì alla Chiesa la
capacità, nel tramite delle sue membra, di annunciare all’esterno la
salvezza e di operare in conseguenza facendosi carico d’ogni bisogno.
2.2. I doni dello
Spirito
Ciò in una circolazione di doni
diversi nell’indole e tuttavia comunque diretti al bene comune.
Personalmente distinguo i doni in
sintattici e asintattici. Chiamo sintattici quelli assolutamente
necessari per la crescita del corpo ecclesiale. Chiamo asintattici
quelli non assolutamente necessari nella loro straordinarietà:
guarigione, lingue, discernimento carismatico, interpretazione delle
lingue, consolazione carismatica, generosità carismatica, fede
carismatica, carità carismatica... Mutuo con molta libertà questa
classificazione dalle liste che Paolo ci dà nel Nuovo Testamento.
Ricordo che sia l’Antico che il Nuovo ci testimoniano la presenza dei
doni dello Spirito, ma come sempre avviene quando se ne fa esperienza,
ciò non comporta il classificare o il distinguere. Paolo ciò nonostante
opera delle correzioni soprattutto riferendosi all’effervescenza
carismatica di alcune comunità, quella di Corinto ad esempio. Diciamo
che troviamo nelle sue lettere la distinzione tra stati carismatici e
doni carismatici.
Paolo ci descrive il fenomeno in
tutta la sua ampiezza – ad esempio in 1Cor 12-14 –; ovvero declina – cfr.
Efesini 4,11 – gli stati carismatici ricondotti ad apostoli, profeti,
evangelisti, dottori e maestri.
Quali che siano i problemi sottesi
alla esuberanza dei doni e all’indicazioni di doni che
specialissimamente edificano la comunità – l’apostolato e la profezia
innanzitutto – resta fondamentale l’articolazione trinitaria del
carisma, ricondotto in 1Cor 12,4-6 allo Spirito nella sua gratuità; al
Signore, al Kyrios nella sua diaconicità; al Padre nella sua
operatività. Ciò perché il Padre è principio d’ogni operazione, il
Figlio è principio d’ogni servizio, lo Spirito è principio d’ogni
gratuità.
2.3. Il discernimento
dei doni e i suoi criteri
La Scrittura attesta la presenza dei
doni; ci avverte anche sulla necessità di discernerli. Il dono sempre
richiede d’essere riconosciuto, e riconoscerlo vuol dire soprattutto due
cose: primo, collocarsi nell’ambito della confessione cristologia;
secondo, collocarsi nell’ambito della crescita della comunità. Secondo
Paolo, nessuno può affermare che Gesù è il Signore, se non nello
Spirito. I doni hanno un criterio regolatore che è l’agape,
l’amore vicendevole, sono perciò diretti alla crescita, all’utilità
comune.
Proprio la corrispondenza
dono-servizio di 1Cor 12,4-6 ci autorizza a ipotizzare per la flessione
dei ministeri un lessico analogo a quello usato per i carismi. Il che,
se da una parte ci fa affermare che il servizio è esso stesso un
carisma, dall’altra ci rende possibile operare il passaggio tra il dono
nella sua peculiarità donata e la sua traduzione come operatività
diretta al bene della comunità.
I carismi sono dunque molteplici ma
tutti devono tradursi in servizio. Non è difficile rendersi conto che la
nostra fragilità non riuscirà mai a tradurre per intero in servizio i
doni ricevuti. Guai però a quella comunità che riconosce servizi non
sorretti dal carisma, cosa purtroppo che è ripetutamente avvenuta ed
avviene. Ricordo che Lumen Gentium 4 riconosce l’esistenza di
doni carismatici e di doni gerarchici, ponendo con ciò lo stesso
ministero ordinato, la stessa gerarchia all’interno della sintassi
carismatica. Il che però non basta. Il problema è se al ministero
ordinato corrisponda veramente un carisma. Ad esempio, se un candidato
all’episcopato ha veramente il dono dell’episcopé. Si tratta di
uno specifico carisma di vigilanza, supervisione, capacità di visione
globale, e dunque capacità particolare di discernimento, grazie a cui è
possibile esercitare il governo della comunità. Se una persona riceve
l’ordinazione episcopale, ma non ha il dono dell’episcopé, avremo
Chiese senza un effettivo pastore…
3. Il carisma-ministero sintattico della iniziazione cristiana
Ma al di là delle questioni legate al
ministero ordinato e alla corrispondenza a esso propria di
carisma-ministero, vorrei mettere a fuoco – e ci tocca tutti e tutte
direttamente – il carisma-ministero fondamentale del popolo di Dio, sul
quale è poi possibile modulare la ricchezza carismatico-ministeriale
elargita alle Chiese. Mi riferisco alla iniziazione cristiana. Tutti e
tutte nel Battesimo, nella Confermazione, nella partecipazione
all’Eucaristia, veniamo costituiti per l’unzione dello Spirito – e
dunque per partecipazione all’unzione messianica di Cristo – nella
dignità regale, sacerdotale e profetica. I carismi tutti si riallacciano
a questa triplice struttura di mediazione salvifica e ovviamente i
ministeri tutti – si iscrivano nell’orizzonte battesimale o
all’orizzonte successivo sacramentale o non sacramentale – ci radicano
nella regalità, nel sacerdozio, nella profezia.
Solo nella pienezza acquisita dei
sacramenti della iniziazione il cristiano può esercitare la sua indole
regale sacerdotale profetica, può tradurre il suo diritto-dovere circa
la “parola”, la “lode”, la “comunione”. Si tratta, occorre
sottolinearlo, di un diritto-dovere originario e comune.
3.1.
L’iniziazione cristiana e il servizio alla Parola
Generato alla fede nel lavacro in
acqua e Spirito, ogni battezzato si scopre soggetto attivo, detentore di
diritti nativi rispetto alla parola di Dio che lo ha chiamato a
salvezza.
È questo l’orizzonte della profezia
comune che appartiene, appunto, a tutti i battezzati, nessuno escluso.
Portatore del compito profetico, il
battezzato ha innanzitutto diritto all’ascolto della Parola di Dio; ha
diritto a crescere nel suo approfondimento. Tra i suoi diritti
inalienabili quello di essere istruito nella Scrittura, così da esserne
nutrito. Ha diritto, ancora, a ricevere ciò che costituisce il contenuto
della fede che professa. Ha, insomma, diritto di acquisire quegli
strumenti che lo pongono nelle condizioni di rendere ragione della
propria speranza (cfr. 1Pt 3,15).
Diritto è l’accesso alla parola di
Dio e alla sua intelligenza. Diritto attivo e passivo al tempo stesso,
perché se chiama in causa la ministerialità ecclesiale nel suo
dispensare la parola, chiama in causa l’aderenza ad essa dei singoli, il
loro impegno nell’assimilarla.
Ne scaturiscono doveri altrettanto
inalienabili. La parola che genera alla fede chiede, infatti, d’essere
annunciata. Il battezzato deve mostrarsi come colui che vive in coerenza
l’annuncio ricevuto. Egli non può che essere missionario, testimone,
martire, anche nel senso radicale e ultimo del dare la vita per Cristo.
3.2. L’iniziazione
cristiana e il servizio di lode
Se l’iniziazione cristiana ci rende
figli di Dio, ottenuta la remissione dei peccati, se ci dona in Cristo
la condizione di creature nuove, se nello Spirito ci conforma a lui
facendoci idonei a testimoniarlo sino alla piena maturità del suo corpo
crismato che è la Chiesa, tanta ricchezza non può restare senza
risposta, e la risposta non può che essere il rendimento di lode.
Nell’orizzonte del sacerdozio comune
la lode è innanzitutto benedizione di Dio, confessione della sua
misericordia. È innanzitutto offerta di sé e della propria vita, anzi è
ricondurre la propria e l’altrui vita, se stessi e lo stesso creato alla
lode di Dio.
Ciò comporta il riconoscimento della
propria creaturalità e dunque la confessione adorante della sua
trascendenza e della sua misericordiosa bontà.
Ma il cristiano, poiché vive insieme
ad altri credenti la sua fede in un Dio comunione, che ha voluto
salvarlo chiamandolo a sperimentare comunitariamente la sua salvezza, è
anche obbligato a tradurre la sua benedizione attraverso le forme di un
culto comunitario.
Il culto cristiano – culto “in
spirito e verità” (Gv 4,24); “culto spirituale” (Rom 12,1); “sacerdozio
santo” (1Pt 2,5) – è innanzitutto l’eucaristia, la solenne azione di
lode, in cui, la comunità adunata dallo Spirito, torna ad offrire al
Padre la vittima santa e immacolata che è il suo Figlio donatosi per
noi.
È soprattutto nella liturgia
eucaristica che la comunità vive il suo mistero sponsale, accedendo alla
carne e al sangue di Cristo, nutrendosene e così divenendo tutt’uno con
lui. Né si tratta di una scelta arbitraria. Così facendo la comunità, il
popolo sacerdotale, raccoglie le indicazioni del Signore Gesù che, al
pane e al vino dell’ultima sua cena con i suoi, ha dato valenze
testamentarie e memoriali.
L’intero popolo di Dio si sa dunque
soggetto del rendimento di lode. E poiché la Chiesa fa l’eucaristia ma
l’eucaristia fa la Chiesa, nella celebrazione eucaristica la Chiesa
manifesta la sua articolazione misterica non meno di quanto manifesti la
sua articolazione ministeriale. Lettori, accoliti, ministranti,
salmista, cantori, ostiari, commentatori, coloro che raccolgono le
offerte, ministri straordinari dell’eucaristia..., tutti additano il
popolo sacerdotale nella sua connessione alla parola celebrata, alla
comunità, ai suoi bisogni.
La celebrazione dell’eucaristia non
prevede “spettatori”. Tutto il popolo di Dio è “con-celebrante”. I
diversi ministeri, da quello imprescindibile di chi presiede a quelli
più umili e minori, sono tutti a servizio del comune sacerdozio, così
che esprima al meglio il suo statuto messianico.
3.3.
L’iniziazione cristiana e il servizio alla “comunione ecclesiale”
La soggettualità del popolo
sacerdotale, soprattutto evidente nella partecipazione alla liturgia e
in essa all’eucaristia quale culmen et fons di tutta la vita
cristiana (LG 11) si traduce infine nel servizio alla comunità e al
mondo. Questo farsi carico della realtà di cui si vive, questo assumere
il contesto più largo in cui la stessa comunità compie il suo
pellegrinaggio nel tempo, ci riconduce all’esercizio del comune
sacerdozio nel suo tratto regale.
Per il cristiano la regalità è
inseparabile dalla sollecitudine e dal servizio. L’esempio, infatti, è
quello di Cristo che sta tra i suoi come colui che serve e che dichiara
espressamente di non essere venuto per essere servito ma per servire (cfr.
Lc 22, 24-27; Gv 13,1-17).
Dunque la regalità messianica, la
regalità comune in cui vengono costituiti quelli che hanno compiuto
tutta intera l’iniziazione cristiana, ha quali nomi propri il servizio,
la corresponsabilità, l’attenzione agli altri, la sollecitudine, la
cura.
Certo c’è anche un aspetto “potente”
nella partecipazione alla regalità ed è quello di essere chiamati a
prender parte alla signoria e al potere di Cristo. Restituito nella
iniziazione cristiana alla originaria sua condizione, il battezzato
porta i segni della sua dignità. Ma a differenza della regalità possente
di chi guida le nazioni, la regalità cristiana, anche nel mistero
dell’immagine restaurata, non può dismettere la attenzione solidale, il
farsi carico degli altri, come pure del mondo in cui abitiamo.
Il servizio regale dei laici, ma non
soltanto, si dirige all’esterno del corpo ecclesiale, a realtà che
esigono d’essere rispettate nella loro autonomia, che tuttavia la
coscienza credente deve guardare senza schizofrenie, poiché, in ultima
analisi, nulla può essere sottratto alla signoria di Dio.
La comunità ha bisogno di costruirsi
nell’ordine, nel buon ordine. Ma per essere autenticamente tale ha
bisogno della presenza attiva dei battezzati crismati eucaristizzati,
della loro iniziativa. Essi non possono come il servo della parabola
sotterrare il loro talento (cfr. Lc 19,11-27). Devono invece abituarsi a
discernerlo e a trafficarlo per la crescita della comunità.
In particolare devono farsi attenti
ai bisogni, della comunità come dell’ambiente, del paese, della cultura
in cui vivono. Non c’è realtà di bimbi, giovani, anziani, uomini, donne,
malati, sani, ricchi, poveri, lavoratori, disoccupati, handicappati,
marginalizzati, deviati che non chieda la risposta del loro servizio
regale.
4. Le traduzioni specifiche
Non fa eccezione la VR. Infatti, al
cuore del nostro discorso, quelle che chiamo le tradizioni specifiche,
dicono il mettersi insieme del dono comune originario proprio alla
iniziazione cristiana – e dunque d’indole regale sacerdotale e profetica
dataci dall’iniziazione stessa – con la chiamata personale, il dono
personale che ci costituisce agli occhi di Dio come “tu” personalmente
amato. C’è un dono che è un dono comune, c’è un dono che è il nostro
nome proprio.
Quando un bambino o una bambina
vengono a questo mondo la famiglia da loro un nome. Non si tratta
semplicemente del doverlo individuare e riconoscere, ma di sottolineare
la differenza, la novità, la ricchezza che il nuovo nato comporta. Nella
nostra cultura tutto ciò si avverte poco. Ma non era così nelle culture
che ci hanno preceduto.
Ebbene come c’è un nome anagrafico,
familiare, c’è un nome di grazia, un nome segreto, un nome che bisogna
fare la fatica di mettere fuori. In tante agiografie troviamo il
topos di questo nome di grazia, rivelato magari alla madre prima
della nascita del figlio. Che coincida o meno con il nome poi
anagraficamente dato, il nome segreto indica il compito a cui quel
bambino o quella bambina sono chiamati. Esemplare la vicenda di
Emmelina, la madre di santa Macrina a cui è rivelato il nome segreto
della creatura che porta in grembo: Tecla. Sappiamo bene che la bimba
non sarà chiamata Tecla e tuttavia questo nome, quello della leggendaria
compagna di Paolo, ne disegna il compito ecclesiale. Quello di Tecla è
un mito talmente forte che Giacomo Alberione chiamerà così la prima
maestra delle Figlie di San Paolo. Questo per dire come la storia della
Chiesa poi è una storia di famiglia, nella quale, a distanza di 20
secoli, i temi ritornano in modo seducente.
4.1. Carisma del
singolo – carisma collettivo
Orbene, ripeto, ciascuno di noi
riceve da Dio il suo nome di grazia, e il suo nome di grazia è il
carisma a lui proprio, comunque iscritto nella terna regalità,
sacerdozio e profezia comune. Questo nome di grazia può tradursi nella
vocazione al matrimonio, nella vocazione alla vita consacrata; può
tradursi nella vocazione alla ministerialità ordinata o alle
ministerialità istituite e non. Comunque si traduca il problema è di
discernerlo, di riconoscerlo, di condurre ciascuno a conoscere il
carisma a lui proprio e, in tutta coerenza, a tradurlo operativamente
nel corrispondente servizio. Compito questo che investe insieme il
singolo e la comunità cui appartiene.
Anni fa, nel dibattito che ha
preceduto il sinodo sulla VR, mi sono posta il problema di individuare
la tipologia di un carisma che mette insieme più persone. Giocai
distinguendo tra carisma “singolo”, ipotesi davvero non comune, carisma
“duale” e “carisma collettivo”. Chiamai “carisma duale” quello di due
sposi (forse anche di due amici). Lo caratterizza la necessità d’essere
l’uno/a per l’altro/a. Ciascuno/a ha il suo nome proprio di grazia ma
concretamente lo realizza e lo vive nel rapporto con l’altro/a.
Paradossalmente questo che dovrebbe avvenire nel matrimonio, è avvenuto
assai più volte nelle affinità elettive; ad esempio, nella vicenda di
non pochi santi fondatori. Parliamo di un rapporto forte, tale che
l’uno/a trovi nell’altro/a la risposta alla sua ragion d’essere, al suo
compito.
Ho chiamato “carisma collettivo”
quello che invece chiama in causa più persone. In più persone cioè io
trovo sintonia; la mia scelta di vita è anche la loro; ciò che mi
seduce, seduce o ha sedotto anche loro. Per usare il linguaggio del
carisma, si tratta di riconoscere nel carisma proprio un carisma proprio
anche ad altri, e di conseguenza si sceglie di tradurlo con loro, di
viverlo insieme a loro. Il mio nome proprio è anche il loro. Il mio
carisma proprio è anche il carisma di ciascuno di loro.
4.2. Carisma del
fondatore – carisma di fondazione
Questo riconoscimento può avvenire
con modalità diverse. Ad esempio, può esserci una persona portatrice di
un dono capace di suscitare eco e risposta. È come se il dono di questa
particolarissima persona trovasse un naturale riscontro in altre così
stabilendo una catena, una sequela, un circolo di comunione. Avremmo
allora il carisma di un fondatore e attorno a lui i tanti/tante che lo
riconoscono come carisma proprio. Può poi avvenire che, morto il
fondatore, non finisca l’eco del consenso, del riconoscerne il dono come
dono proprio. Il carisma di fondazione, così poi lo chiamiamo, creerà
sempre questa dinamica di riconoscimento che mi lega a quanti si
riconoscono in esso e lo riconoscono come dono proprio.
Per quale motivo mai dovrei scegliere
quella determinata congregazione, se non a partire dalla constatazione
esistenziale, non senza adeguato discernimento, che la mia ragion
d’essere davanti a Dio coincide con la ragion d’essere di chi ha dato
inizio a una determinata comunità con quei particolari intendimenti, con
quella particolare forma, con quel determinato servizio?
E’ chiaro che il carisma del
fondatore o della fondatrice, morto il fondatore o la fondatrice, per
così dire si sclerotizza. Il problema sempre aperto è quello del dover
permanentemente adeguare il carisma di fondazione al carisma originario
del fondatore o della fondatrice. Passano le generazioni, a volte ne
basta una; passano i secoli, a volte possiamo andare indietro
addirittura di ben 15 secoli… È evidente che le situazioni sono
profondamente mutate; che manca talora lo stesso contesto vitale che ha
determinato l’insorgere di quel determinato carisma e che ha visto il
fondatore e la fondatrice realizzarlo in quel modo.
Voglio offrire alcuni esempi, e me ne
scuso. Li scelgo lontani, ma questo non impedisce che venga ricusata
l’analisi che ne faccio. Parlo a titolo assolutamente personale.
Prendiamo a campione la comunità
benedettina. Per carità, se ne ascoltiamo la regola è, nella sua
essenzialità, una sorta di guscio vuoto nel senso che lascia enorme
libertà di traduzione dei suoi principi guida. Ma guardiamone le
realizzazioni storiche. Il guscio vuoto diventa, secondo me,
l’oppressione, per esempio, di un abito che non ha più ragione di
esistere. Dove mai le donne del secolo XX – parlo delle donne
occidentali – vestono un abito così complesso: soggolo, cuffia, velo,
sottana, scapolare, cocolla... L’esempio può apparire non calzante, al
limite cos’è mai un abito!? Ma se ci spostiamo su un piano più
impegnativo il nodo vero è quello della paternità/maternità assunte
quale referente fondante, quale criterio ultimo della comunità. Vissute
nel secolo VI dopo Cristo (e poi anche nei secoli seguenti)
significavano potere discrezionale di vita o di morte sui sottoposti,
sia pure moderate dalla carità. Paternità/maternità insomma evocano il
referente della famiglia patriarcale, evocano un modello sociale e
politico dichiaratamente diseguale e gerarchico, proprio dell’antichità
e poi della stessa cultura cristiana. Modello che via via ha acquisito
come proprie le regole che senza inficiarlo lo hanno reinterpretato nel
tempo, si pensi, ad esempio, alla feudalità medievale. Può una regola
religiosa nata in questi contesti suscitare seduzioni che non siano
alienazioni, a meno che non si riformi e si rifondi? Di fatto il
monachesimo benedettino ha avuto tutta una serie di correttivi e di
riforme al maschile come al femminile. Ma, malgrado tutto, non credo che
se ne sia mai incrinata l’impalcatura patriarcale. Resta, mi si dirà, la
suggestione dell’ “Ora et labora”, di un modello produttivo che ha
rivitalizzato l’Europa. Non nego che abbia avuto i suoi meriti, ma
indubbiamente si è trattato di un circolo economico di guadagno e di
profitto. È stato elaborato nei confronti della povertà, e dunque della
sequela Christi, un atteggiamento profondamente diverso da quello dei
padri del deserto, che non avevano tunica e se pure l’avevano all’inizio
della loro vita eremitica, non temevano di restare nudi quando era del
tutto consunta. La testimonianza di Cristo era strettamente legata alla
povertà radicale – si legga la Vita di Antonio –. Nella comunità
benedettina il singolo vivrà anche poveramente. Ma certamente il più
delle volte non è povero il contesto in cui vive. Basta ancora una volta
farsi attenti al mutare della storia per rendersi conto di quanto appaia
controproducente e antievangelica una scelta che lascia povero il
singolo ma incrementa la potenza e la ricchezza delle comunità a cui
appartiene e, in ogni caso, rispecchia le regole della disparità sociale
e le introietta al suo interno.
Se ci spostiamo alla sororità
francescana e alla sua scelta di povertà radicale – scelta prontamente
abbandonata dalla fraternità francescana – anche in questo caso non
possiamo che costatare la mutata contestualità socio-politica. La
comunità clariana nasce come protesta religiosa, come alternativa al
potente modello monastico feudale. Se vogliamo impersona i sentimenti
antifeudali nella nascente borghesia urbana. Usciti dal quello specifico
contesto, anzi da quella specifica contestazione, che senso ha quella
forma di vita, quel modulo di povertà, per altro per motivi culturali
impedito a realizzare al femminile un modello questuante e itinerante?
Certo, non posso che rispettare le clarisse nella loro fedeltà al
“privilegium paupertatis”. Non posso non riconoscere la rivalsa
controcorrente che ha loro proibito di vivere del loro stesso lavoro,
separando l’obbligo del lavoro dalla pratica del guadagno o del
profitto. Ciò che mi chiedo, tuttavia, è se oggi sia veramente possibile
mettere in atto quel modello e se quel modello sia adeguato al mondo
nostro d’oggi.
Secondo me, la storia della VR
femminile, a parte i suoi primissimi momenti, è stata caratterizzata da
tre diversi modelli. Il primo momento, elitario e colto, quello del
monachesimo, ha prodotto soggettualità di grosso spessore e di grossa
cultura. L’obbligo della santificazione del tempo, l’obbligo
dell’ufficio ha costretto alla lettura della Scrittura, e dunque ha
obbligato i soggetti, anche le donne, a interpretarla e a produrre
teologia. Ha consentito alle donne anche d’esercitare un potere
oggettivo, anche all’esterno dei monasteri, pur essendo iscritto in un
modello diseguale e gerarchico.
Un secondo modello ha sottolineato
più fortemente la sequela Christi radicale ma ha attenuato il
rapporto con la Parola di Dio. Ha di fatto reso opzionale la preghiera
salmica e la liturgia delle ore con un oggettivo impoverimento,
soprattutto al femminile. Si aggiunga il permanere dell’obbligo della
clausura con tutto che ciò essa ha comportato dal punto della soggezione
femminile. A fronte di una situazione di dipendenza, esso ha però
elaborato un modello di sororità.
Un terzo modello è quello delle
congregazioni d’età moderna. Con esso si è usciti dall’ aut murus
aut maritus. Le religiose hanno finalmente dismesso la clausura e
impersonato la profezia dei bisogni. Il prezzo è stato quello della
definitiva estraniazione dalla cultura, tutto investendo sulle “opere”.
Questo terzo modello ci ha messi di fronte a una profusione
straordinaria di doni, a una molteplicità di carismi che hanno
profetizzato i modelli, poi recepiti, di avanzata sollecitudine sociale.
Lo stato sociale, come oggi lo chiamiamo, è davvero debitore a questo
terzo modello. C’è stata tuttavia, io credo, una malizia istitutiva che
ha moltiplicato a dismisura la VR, estendendo alle congregazioni nuove
la figura dell’esenzione, nata a suo tempo con finalità specifiche. Ciò
ha strutturato a livello universale la VR maschile e femminile,
alienandola dal luogo, dalle Chiese locali, con ciò rendendo difficile
l’adeguazione al carisma di fondazione, difficile il discernimento del
carisma personale, difficile la traduzione, la realizzazione del carisma
collettivo.
Credo che gran parte dei problemi che
la VR ha nell’attuale nostra transizione culturale dipendano
dall’autoritarismo che in realtà soggiace alla lettura della VR in
termini universalistici. Faccio riferimento a cose che vi sono già state
dette nell’assemblea di primavera. C’è stato un intervento che ha ben
evidenziato la violenza che la VR subisce proprio a partire dal
principio universalistico, che apparentemente la rende esente ma di
fatto la colloca al di fuori della storia.
5. La vita religiosa e la sfida della adeguazione al proprio dono
Come vedrei la VR? In che senso
parlerei d’adeguazione della VR e del suo dono?. Come penserei di poter
risolvere l’anomalia determinata dalla violenta e multiforme elargizione
di richieste carismatiche nelle Congregazioni moderne, rispetto alla
situazione nostra di oggi?
Tanto per cominciare, la VR non si
colloca mai fuori dell’ambiente della comunità locale d’appartenenza.
Certo io posso contagiare le Chiese, e pensare di mettere nel loro
circolo il carisma di fondazione o il carisma collettivo che è
all’origine di una Congregazione; in realtà un carisma di fondazione
(dico carisma, ma bisogna sottintendere carisma-ministero, perché
altrimenti il discorso non si capisce), in realtà è radicato in un
bisogno locale. Lo Spirito non soffia indistintamente nel senso
dell’universale, ma risponde ai bisogni concreti di una comunità, di una
Chiesa, di una regione, di una situazione. Non a caso l’esperienza
clariana, di cui ho parlato, si colloca nella nascente civiltà comunale
e nella nuova classe borghese.
La provocazione, la profezia dei
bisogni, che poi è la molla fondante della vita consacrata come d’ogni
ministerialità ecclesiale, è sempre contestualizzata. A mio avviso
bisognerebbe avere il coraggio di smettere di pensarsi in termini
universalistici per accettare di confrontarsi con la propria Chiesa
locale. Questo ovviamente vale soprattutto per le innumerevoli nuove
forme di VR, perché, e lo dico con fermezza, il dono-ministero della VR
non verrà mai meno. Sono le sue forme storiche che passano. Non tutti i
carismi sono presenti alla Chiesa contemporaneamente. Lo Spirito
elargisce quei doni che servono alle Chiese per superare l’insidia del
“frattempo”. Lo Spirito è l’estetista della Chiesa, quello che le toglie
le rughe e macchie, che la rende bella, idonea a presentarsi dinanzi al
suo Signore. Può darsi che, in quel determinato frangente la ruga sia
quella, ad esempio le zampe di gallina attorno agli occhi e che in un
altro momento le rughe siano quelle attorno alle labbra. In un altro
momento il problema sarà la cellulite, l’obesità, o saranno le malattie
degli organi interni... Lo Spirito deve guarire e i doni che dà sono
finalizzati alla guarigione, all’abbellimento, a mettere la Chiesa in
condizione di vincere l’insidia del frattempo. È difficile stare al
passo con la storia; il suo mutare è sfida permanente. Guai ad illudersi
che i problemi sono risolti, perchè
finito un problema ne spunta subito un altro.
L’equivoco, che è equivoco di Chiesa,
non soltanto della VR, è stato quello di costruirsi un’immagine statica,
un modello statico, nel quale tutto era o nero o bianco, e soprattutto
era tale una volta per sempre. Ma tra il nero e il bianco ci sono tutte
le sfumature del bianco e tutte le sfumature del nero e tutti i grigi
possibili e immaginabili. Chi lo ha detto che il mondo è riducibile
all’opposizione sì/no? Non voglio smentire la parola evangelica, perchè
il senso lì è un altro; l’invito è alla coerenza.
Ma sul piano della storia, anche
della storia personale, c’è uno spettro larghissimo di mutazione.
L’intelligenza sta appunto nella capacità di adeguarsi al mutamento. Ci
siamo illusi di poter gestire la Chiesa, come se fosse stato un
meccanismo d’orologeria che mai si sarebbe inceppato. Abbiamo pensato di
trasferire queste regole statiche a tutte le forme di vita ecclesiali,
le quali invece non possono essere ingessate.
Il problema nostro d’oggi è accettare
che carismi di fondazione, che un tempo si mostravano seducenti, che
sono serviti alla Chiesa per realizzare la sua missione, che hanno
santificato centinaia e migliaia di persone, oggi devono cedere il posto
a realtà nuove, altrimenti indicate dallo Spirito. È una esperienza che
va vissuta con un atteggiamento di speranza e di fiducia. Speranza, per
il fatto che lo Spirito continuerà ad arricchire la Chiesa con il dono
della VR; fiducia perché la nostra fatica non è vana, a condizione che
non ci chiudiamo in una sorta d’accanimento terapeutico.
Se il problema è vivere la mutazione
in atto, occorre stringersi insieme per similarità, stabilire cerchi
concentrici che ci liberino da ciò che ci opprime e ci consentano di
andare incontro al nuovo, nel modo meno doloroso possibile,
possibilmente trasferendo la nostra eredità ad altri, per quel che
ancora ha di valido. Se invece scegliamo d’accanirci ad ogni costo, pure
con la tratta delle bianche e/o delle nere, per mantenere in piedi le
nostre istituzioni, dobbiamo sapere in partenza che lo Spirito non ci
aiuterà perché questa operazione nega l’indole costitutiva dello
Spirito, la sua libertà di soffiare come e dove vuole, di trasformare
ciò che vuole, senza che in alcun modo lo leghino le nostre regole e le
nostre leggi.
Se io avessi la possibilità di dire
la mia a livello di Chiesa universale, sinceramente trasformerei la
Congregazione per la VR in un’agenzia che aiutasse a localizzare le
comunità, senza più riconoscerle e avallarle a livello di Chiesa
universale. I fenomeni non possono essere omologati. Non posso obbligare
o imporre leggi a spettro mondiale. Se vogliamo che ci sia un futuro
dobbiamo rimettere al centro, ricondurre la VR al livello della Chiesa
locale.
Preciso che non intendo mettere in
forse la multiculturalità o il dialogo con le culture, cose tutte cui
siamo obbligati perché questo nostro mondo non solo è “globalizzato” ma
vive acutamente l’esperienza di una migrazione epocale. Già negli anni
90 parlavo di prossimità di questo nostro tempo al IV secolo, quello
delle invasioni barbariche, quando masse enormi di soggetti nuovi
irruppero nei confini dell’impero romano, profondamente mutandolo. Non
arresteremo la migrazione dall’est all’ovest e dal sud al nord. La sfida
multiculturale ce la troviamo già da noi e ci impegnerà a lungo nel
futuro… Certo ci sono anche le tensioni della missio ad gentes,
nel qual caso occorre accettare la sfida postami dalla cultura presso
cui penso di dover annunciare il vangelo.
Come ho detto e ripetuto più volte,
rendendomi antipatica, se annuncio il mio vangelo di bianca, borghese,
occidentale, di persona privilegiata e a pancia piena, questo mio
annuncio non avrà nessun senso e nessun seguito. Se, viceversa, assumo
la piccolezza, la povertà, l’analfabetismo, la malattia,
l’emarginazione, la persecuzione, e quant’altro mi rende solidale a
coloro ai quali voglio portare l’annuncio, allora davvero vado a
dialogare e a cercare i valori altrui e le risorse; non mi limito a
proporre il mio modello come ottimale, ad opporre il mio modello di
sviluppo al cosiddetto sottosviluppo altrui.
Penso a quanti danni abbiamo operato
elaborando un concetto di sviluppo illimitato, senza avvertire
profeticamente la necessità di uno sviluppo compatibile. Eppure, come
cristiani, dovremmo avere nel nostro DNA l’idea di uno sviluppo
compatibile, perché la koinonia, la comunione che lo Spirito ci
garantisce e mette in circolo non è la dissennatezza dello sfruttamento,
o la corsa indefinita e illimitata a identificare e sfruttare le
risorse, ma al contrario è l’accettare con misura i beni nella
condivisione.
Per ritornare a ciò che ci sta a
cuore, il problema vero è quello di operare un discernimento che metta
veramente al primo posto le persone e, se possibile, le dirotti altrove,
nella misura in cui si elabora il convincimento dell’obsolescenza del
proprio carisma di fondazione. Davvero, di fronte all’enormità di
Congregazioni fiorite dall’800 in poi, io chiederei, piuttosto che
accogliere delle persone giovani all’interno della propria
Congregazione, di suggerire loro, nella misura in cui si è fatto un
autentico discernimento, di orientarsi verso realtà altre, verso le
quali portare le loro energie.
Non saranno le poche persone che ogni
anno chiedono d’entrarne a far parte a disegnare il futuro di una
Congregazione. Bisogna avere il coraggio di praticare una sana eutanasia
della propria istituzione. E in questione il più delle volte non sono i
doni, i carismi di fondazione quanto le forme che hanno assunto via via
nella storia di una congregazione. La cosmizzazione dello Spirito guarda
al cuore del dono, ma elimina le forme obsolete, ormai incapaci di
lasciar trasparire il dono.
Consentitemi ancora qualche esempio.
Quante congregazioni non sono nate a servizio della formazione e
dell’istruzione, e quante si sono poi omologate, tra l’altro tradendo la
loro costitutiva vocazione della formazione dei poveri. Chiediamoci che
cosa sono diventate le nostre scuole, che erano nate come scuole
popolari, scuole rurali... Evidentemente la scolarizzazione di massa ha
rese superflue determinate attività, determinati servizi. Abbiamo allora
creato scuole prive di caratteristiche proprie, scuole che non possiamo
più mantenere per le quali dobbiamo ricorrere alla professionalità di
persone estranee all’originario carisma, per altro oberati, se vogliamo
che i titoli siano riconosciuti, da una legislazione che esige la tutela
dei diritti degli operatori, docenti e non. Mi si consenta di aggiungere
che il più delle volte tanta fatica, diretta ormai a chi aveva mezzi,
non ha neppure proposto un modello di fede seducente e vitale. Molto
spesso abbiamo trasfuso un cristianesimo asfittico, incapace di
respirare a pieni polmoni, soprattutto incapace di dialogare
riconoscendo veramente nell’interlocutore un soggetto creato ad immagine
e somiglianza di Dio e perciò educandolo al rispetto dell’altro.
Mi si consenta di concludere con
parole di speranza. Certo, bisogna, anche con lucidità, elaborare le
diagnosi. È atto di giustizia verso se stessi, è un atto di lealtà, di
rispetto per le scelte di vita operate. Bisogna operare un discernimento
confidando tuttavia nello Spirito. Egli mai cesserà di suggerire alla
Chiesa, di suscitare nella Chiesa nuovi carismi e ministeri
riconducibili alla nuzialità della sposa. Mai verrà meno in essa la
pratica dei consigli evangelici, la ricerca dell’apostolica vivendi
forma; mai cesserà nella sua seduzione radicale, totale, la sequela
di Cristo. Mai verrà meno la VR.
Lo Spirito non cesserà mai di farne
una realtà liminare, una realtà di frontiera che stimoli la comunità
intera a riacquisire, a fare memoria di valori che l’esistenza
multitudinista, la fede multitudinista, tende a mettere in secondo
piano. La VR connota quanti la praticano a modo di sentinelle, di
persone vigilanti; il suo compito è additare alla comunità più larga
l’ideale cristiano in tutta la sua bellezza.
Questo vuol dire riacquisire la
nozione di sacramentalità, riacquisire la Chiesa quale sacramento di
salvezza, nel senso suo forte di apertura, di sfida; sfida di annuncio,
sfida di vissuto.
Vuol dire anche pensare al futuro
declinando le istanze della nostra attuale cultura, la quale chiede una
ottimizzazione della vita. Non è cosa da poco realizzare se stessi, le
proprie aspirazioni, i propri talenti; non cosa da poco l’essere presi
sul serio. Il nostro mondo è talmente deluso in questa domanda, da
sfociare in posizioni di individualismo selvaggio.
La VR, al contrario, può riproporre
la comunità nel suo tratto bello di mutua accoglienza, di parola
profonda, che circola all’interno e assegna a ciascuno il suo posto
proprio.
Come chiamare comunità quella in cui
il carisma personale, il nome proprio non appare né individuato né messo
in circolo. Un tempo si consegnava tutto ciò all’ascesi, alla
mortificazione… il nostro mondo non ne vuole più sentire parlare.
Dobbiamo essere profeti di gioia. La gioia altro non è che il nome dello
Spirito!
Infine, se mi consentite, bisogna non
aver paura dei laici. La VR è nata fondamentalmente come esperienza
laicale, ed è l’istituzione che l’ha normalizzata e de-laicalizzandola.
Laiche sono rimaste le donne per motivi giuridici di altra indole.
Forse, l’unica possibilità di permanenza dinamica di determinati carismi
è proprio quella di lasciare che vengano recepiti e accolti da soggetti
nuovi che non rimangono iscritti nelle forme di VR che abbiamo
conosciuto, ma ne creano di nuove, di più larghe, di più informali.
E, ancora, per quello che serve,
occorre scoraggiare le forme nuove dal darsi immediatamente una
struttura istituzionale. La acquisiranno fin troppo presto, che lo
vogliano o che non lo vogliano. Occorre invece invitarle a vivere una
lunga stagione unicamente condotte dallo Spirito.
***
Ho provato a modulare alla mia
maniera il tema che mi è stato assegnato. Vorrei concludere riassumendo
i punti chiave di questo mio intervento. Innanzitutto la pertinenza alla
Chiesa della VR. Espressione della nuzialità che connota la struttura
stessa della Chiesa, essa ne ripropone anche la polarità dinamica
carismatico-ministeriale iscritta nella presenza dello Spirito alla
Chiesa.
A fronte alla crisi che traversa la
VR ho sottolineato la necessità di fare spazio al nuovo, accettando la
propria esperienza, la propria storia come dono grandissimo elargito
dallo Spirito, ma riconoscendo allo Spirito l’indole nativa di portatore
di cose nuove.
È con l’augurio di realizzare il nuovo, se è possibile di vederlo con i
propri occhi, di assistere alla sua rigenerazione che chiudo questo mio
intervento nello sfondo del tempo d’avvento che va a iniziare. Alziamo
in alto lo sguardo… perché… la nostra salvezza è vicina.
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