testata

    BENVENUTI,        

CERCA IN QUESTO SITO    

 

 

supplemento
n. 5 maggio 2006

Altri articoli disponibili

 

English

Il carisma e i carismi nella vita religiosa
di Cettina Militello
 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Introduzione

La mia presenza a questo seminario è nel segno della solidarietà femminile. Alle donne non dico mai no; se poi l’SOS arriva dalle religiose, mi sento obbligata a dir di sì, non fosse altro che per il debito di gratitudine che le stesse laiche abbiamo verso quante hanno fatto questa scelta. Peraltro, senza la vita religiosa (VR) ci sarebbe mancata per secoli una teologia al femminile. Devo aggiungere poi che ai problemi della VR sono stata indotta ad accostarmi a ragione dell’ecclesiologia, la disciplina che coltivo e insegno. Da ultimo mi è stato richiesto di tenere il corso su “La VR nella Chiesa” al Claretianum, l’Istituto la cui specializzazione è appunto la VR. Trattandosi di un corso fondamentale ed essendo io una laica, la cosa mi ha meravigliato. D’altra parte è corso che svolgo con tutta parresia laicale.

Certamente siamo a uno snodo difficile. La VR appare in crisi, soprattutto nelle sue forme più importanti e ricche di storia. La crisi tuttavia tocca più in generale la Chiesa. La domanda alla fine è pur sempre: quale Chiesa per il futuro? E di conseguenza, quale VR nel futuro? A queste domande dobbiamo rispondere con franchezza. Dobbiamo provare a immaginare la Chiesa del terzo millennio e in tutta corrispondenza dobbiamo provare a immaginare una VR capace di sedurre e di incidere sul modello di Chiesa.

L’intervento che propongo si articola in cinque punti. I primi tre servono da introduzione; offrono dunque alcuni elementi circa la mia declinazione della Chiesa. In essa si colloca la mia lettura della VR che è un po’ diversa da quella abituale. La mia pretesa è, infatti, quella di leggerla come fatto strutturale, con ciò collocandola al cuore della Chiesa. Uno dei problemi che ci ha lasciato il Vaticano II è proprio questo: dove collocare la VR? Appartiene alla struttura, all’essenza profonda della Chiesa? È, invece, un qualcosa che può esserci o no, senza con ciò che ne sia toccato il mistero? La mia tesi è che la VR appartiene al mistero della Chiesa e, in particolare, appartiene a quella nominazione della Chiesa che la dice nel segno delle nozze.

Devo aggiungere ancora che differisco anche nella lettura che abitualmente si da della VR considerandola un carisma. Nel mio approccio alla Chiesa, e in essa alla VR, leggo il carisma, anzi la permanente carismaticità della Chiesa, come dato che riguarda tutti i battezzati. Di più, il carisma, il dono a ciascuno elargito, obbligatoriamente deve tradursi in servizio, e dunque appella alla corrispondente ministerialità.

Pongo queste affermazioni a titolo di premessa per rendere comprensibile il discorso. Aggiungo soltanto che, a mio giudizio, in questo quadro la stessa VR riceve una fondazione teologica più robusta e adeguata. Tra l’altro ci si mette fuori dalla facile polemica: questo sì, questo no; questo va bene, questo non va bene; e soprattutto ci si libera dalla pretestuosa contrapposizione tra carisma e istituzione.

 

1. La vita religiosa nella Chiesa tra struttura e funzione

A livello sistematico articolo l’ecclesiologia secondo la polarità struttura-funzione. Chiamo “struttura” il mistero della Chiesa; chiamo “funzione” il ministero, il servizio. Se c’è una dialettica che costituisce la comunità dei credenti in Cristo Gesù, comunità illuminata dallo Spirito, è proprio quella tra il mistero e la sua traduzione operativa. La struttura legge la Chiesa in ciò che essa è; ma la Chiesa non può esaurirsi nella sua autocomprensione. La Chiesa va immediatamente ricondotta al suo essere per gli altri, e dunque alla funzione, al servizio, al ministero.

All’interno della struttura ci sono vari modi di predicare la Chiesa. Personalmente ricorro a quattro espressioni che ci vengono dalla Scrittura e a quattro che ci vengono dalla professione di fede. Leggo la Chiesa come mistero-sacramento, popolo di Dio, corpo di Cristo, sposa del Cristo; come una, santa, cattolica, apostolica. Naturalmente la Chiesa è anche altro – tempio, pleroma, ad esempio. Mi pare però che questi modi di predicarla diano conto sufficientemente di ciò che ne costituisce il mistero.

Esemplifico limitandomi alle prime quattro locuzioni. Se rinunciamo a dire la Chiesa popolo di Dio, rinunciamo alla sua storicità, alla sua indole peregrinante; rinunciamo all’originaria e nativa comune vocazione. Sono valori che altre immagini bibliche non altrettanto garantiscono. Analogamente se rinunciamo a dire la Chiesa corpo di Cristo, perdiamo la connessione organica delle membra tra loro, e perdiamo anche il rapporto con il radunarsi che fa la Chiesa, con la sinassi, con l’azione liturgica. Nel produrre il corpo eucaristico del Signore la Chiesa produce se stessa. Sicché il corpo è il corpo eucaristico del Signore, ma è il corpo ecclesiale che offre al Padre pane e vino perché diventino corpo e sangue del Signore. Analogamente non è possibile sottrarre la Chiesa all’ambito della sacramentalità. Ciò significherebbe chiuderla in un circolo di autoreferenzialità; la Chiesa si parlarebbe addosso. La sacramentalità, invece, è ponte, è apertura, è istanza missionaria, è, come dicevo prima, essere per gli altri.

 

1.1. La nuzialità della Chiesa e la vita religiosa come suo manifesto

Relativamente alla VR, ma anche relativamente a quella che è la struttura antropologica dell’essere umano nel suo accadimento secondo la dualità di genere, mi piace leggere la Chiesa secondo l’immagine della “sposa”. Ed è in questa figura della sposa che Cristo si è acquistata nel suo sangue, in questa chiamata all’alterità, all’incontro, alla comunione interpersonale, al dialogo – ci si metta pure ciò che si vuole – che trova senso l’esserci di ciascun essere vivente, che abbia avuto il privilegio d’essere chiamato sia alla vita che alla comunità ecclesiale. Ovviamente, la nuzialità viene espressa sacramentalmente nel matrimonio: ma, sia pure in modo non sacramentale, viene espressa anche nella consacrazione religiosa. In realtà, mi si perdoni, amerei leggere anche l’iscriversi del singolo/a nell’orizzonte di Dio unicamente amato, nell’ambito della sacramentalità. Probabilmente nel segnare sacramentalmente le sole nozze ha operato la sapienza dello Spirito avvertendoci circa il fatto che la sponsalità è esperienza duale compiuta. La nuzialità della continenza o della verginità consacrata è per così dire “postulata”. C’è una solitudine che io devo colmare nel donarmi totalmente a Dio. Forse, potrebbe essere questa, la ragione che ha portato a definire sacramento il matrimonio e, viceversa, a leggere come evento non sacramentale la consacrazione religiosa.

Comunque sia, l’orientarsi di ciascun essere umano, uomo o donna, all’altro avviene in due contesti che declinano entrambi la Chiesa come sposa che si sa generata da Cristo e ne attende il ritorno. Sia gli sposi cristiani nella compiutezza della loro unione coniugale, sia i consacrati nella virtualità o nella tensione all’unione piena e definitiva con Cristo attestano il medesimo mistero nuziale della Chiesa. E ciò appartiene all’essenza, alla struttura della Chiesa. La nuzialità della Chiesa non è qualcosa che può esserci o non esserci. La Chiesa è sposa nel suo statuto misterico. Da questo punto di vista credo veramente che la VR debba essere riconosciuta nella sua forza emblematica. Non è pensabile la Chiesa senza la consacrazione religiosa, come non è pensabile la Chiesa senza la nuzialità di quelli che sposano in Cristo. Quella della sposa non è una allegoria. Occorre dare contenuto reale alle parole, alle espressioni che usiamo, anche quando il punto di partenza è una metafora. Per altro popolo, corpo, sposa, mistero non possono essere ridotti a semplici metafore. Piaccia o non piaccia, semplice o complesso che sia, rinunciare alla dimensione nuziale della Chiesa vuol dire tagliarsi fuori da una dinamica relazionale senza la quale è davvero difficile l’intelligenza e la fruizione del mistero della Chiesa. Basta andare a Efesini, 5,22-32 per rendersi conto del valore del simbolo nuziale e delle dinamiche che comporta. Allo stesso modo, non è metafora il corpo di Cristo che la Chiesa è. Se proviamo a darne una interpretazione puramente metaforica avremo demolito una delle istanze più forti a partire dal NT e poi dai Padri, via via sino allo stesso Vaticano II; mi riferisco all’ecclesiologia di comunione. Quanto meno bisogna parlare di “metafore vive”, e riconoscerne le dinamiche vitali ed esistenziali. Certo queste chiavi di approccio non esauriscono il mistero della Chiesa; esso resta per definizione “eccedente”. La realtà della Chiesa rimane sempre al di là di ogni nostro tentativo di definizione.

 

1.2. La ministerialità della Chiesa e la vita religiosa come servizio

Se la Chiesa è tra “struttura” e “funzione”, tra “mistero” e “ministero”, evidentemente non è pensabile nessuna modalità di esistenza ecclesiale – singolare, duale, collettiva – se non nell’ambito della traduzione del mistero, e dunque del servizio, del ministero. Personalmente sono persuasa che la VR esprime la ministerialità della Chiesa. È facile costatare che non è mai fine a se stessa. Lo provano le formule diversificate dei riti della professione religiosa; nel momento in cui viene sulla candidata o sul candidato recitata la preghiera di consacrazione, troviamo sempre esplicitata la modalità pratica a cui, nello spirito dell’Istituto, all’interno di quella spiritualità, di quel carisma di fondazione, la candidata o il candidato si impegna e che costituisce lo specifico della stessa consacrazione.

Quando liturgicamente troviamo espressioni del tipo: “la grazia divina… porti a compimento ciò che ha iniziato in te”, ci troviamo dinanzi a una costituzione in ministero. Ho letto con attenzione tanto il rito della professione religiosa che quello della consecratio virginum e la costante è proprio questa. Ero solita dire in altri tempi che la Chiesa non ha bisogno di istituire il diaconato femminile: ce l’ha già, basta che prenda sul serio i riti relativi alla professione religiosa o alla consacrazione delle vergini.

Questo vuol dire, e chiudo, che la VR non è un determinarsi egocentrico ed egoistico, fine a se stesso, sia pure sull’onda emozionale o intellettuale di una proposta che seduce il cuore o il cervello. La VR si scrive nell’orizzonte ecclesiale del servizio; la sua ragion d’essere è il servizio. Esso potrà connotarsi come attività pubblica o meno ma sempre resterà servizio. Anche la vita interamente contemplativa è diretta al servizio. Ancora una volta, ciò che identifica la scelta d’auto-determinarsi in una vita d’assoluta, piena e sola contemplazione, non è la sola, assoluta e piena contemplazione, ma il servizio che così facendo viene reso alla comunità ecclesiale.

 

2. Il carisma come elemento strutturante la Chiesa

Tra la struttura della Chiesa e la ministerialità della Chiesa occorre però che invochiamo quella che ne è la molla; l’elemento che sutura le due cose e rende ultimamente possibile il servizio. Mi riferisco allo Spirito Santo e ai suoi carismi. Nella mia lettura ecclesiologica chiamo lo Spirito “soggetto strutturante” e i suoi doni, i carismi, “elementi strutturali”. Senza il rinvio allo Spirito e ai suoi doni, il mistero della Chiesa non potrebbe mai tradursi in ministero, la struttura non potrebbe mai tradursi in funzione.

 

2.1. Lo Spirito donatore e dono

Lo Spirito egli stesso è donatore e dono. Il carisma non è dunque un qualcosa di graziosamente elargito ora a questo ora a quello per pura gratuità. Il carisma è ciò attraverso cui la Chiesa si rivela come creatura dello Spirito, come realtà nella quale lo Spirito interagisce conducendola, perennemente purificandola, verso il suo Signore.

Lo Spirito che conduce la Chiesa-sposa incontro a Cristo-sposo elargisce alla comunità i suoi molteplici doni. È per loro tramite che la comunità viene disegnata nel suo dover essere all’interno come all’esterno. I doni infatti edificano la comunità, le consentono di raggiungere la sua pienezza grazie allo specifico contributo di ciascuno. Assicurano altresì alla Chiesa la capacità, nel tramite delle sue membra, di annunciare all’esterno la salvezza e di operare in conseguenza facendosi carico d’ogni bisogno.

 

2.2. I doni dello Spirito

Ciò in una circolazione di doni diversi nell’indole e tuttavia comunque diretti al bene comune.

Personalmente distinguo i doni in sintattici e asintattici. Chiamo sintattici quelli assolutamente necessari per la crescita del corpo ecclesiale. Chiamo asintattici quelli non assolutamente necessari nella loro straordinarietà: guarigione, lingue, discernimento carismatico, interpretazione delle lingue, consolazione carismatica, generosità carismatica, fede carismatica, carità carismatica... Mutuo con molta libertà questa classificazione dalle liste che Paolo ci dà nel Nuovo Testamento. Ricordo che sia l’Antico che il Nuovo ci testimoniano la presenza dei doni dello Spirito, ma come sempre avviene quando se ne fa esperienza, ciò non comporta il classificare o il distinguere. Paolo ciò nonostante opera delle correzioni soprattutto riferendosi all’effervescenza carismatica di alcune comunità, quella di Corinto ad esempio. Diciamo che troviamo nelle sue lettere la distinzione tra stati carismatici e doni carismatici.

Paolo ci descrive il fenomeno in tutta la sua ampiezza – ad esempio in 1Cor 12-14 –; ovvero declina – cfr. Efesini 4,11 – gli stati carismatici ricondotti ad apostoli, profeti, evangelisti, dottori e maestri.

Quali che siano i problemi sottesi alla esuberanza dei doni e all’indicazioni di doni che specialissimamente edificano la comunità – l’apostolato e la profezia innanzitutto – resta fondamentale l’articolazione trinitaria del carisma, ricondotto in 1Cor 12,4-6 allo Spirito nella sua gratuità; al Signore, al Kyrios nella sua diaconicità; al Padre nella sua operatività. Ciò perché il Padre è principio d’ogni operazione, il Figlio è principio d’ogni servizio, lo Spirito è principio d’ogni gratuità.

 

2.3. Il discernimento dei doni e i suoi criteri

La Scrittura attesta la presenza dei doni; ci avverte anche sulla necessità di discernerli. Il dono sempre richiede d’essere riconosciuto, e riconoscerlo vuol dire soprattutto due cose: primo, collocarsi nell’ambito della confessione cristologia; secondo, collocarsi nell’ambito della crescita della comunità. Secondo Paolo, nessuno può affermare che Gesù è il Signore, se non nello Spirito. I doni hanno un criterio regolatore che è l’agape, l’amore vicendevole, sono perciò diretti alla crescita, all’utilità comune.

Proprio la corrispondenza dono-servizio di 1Cor 12,4-6 ci autorizza a ipotizzare per la flessione dei ministeri un lessico analogo a quello usato per i carismi. Il che, se da una parte ci fa affermare che il servizio è esso stesso un carisma, dall’altra ci rende possibile operare il passaggio tra il dono nella sua peculiarità donata e la sua traduzione come operatività diretta al bene della comunità.

I carismi sono dunque molteplici ma tutti devono tradursi in servizio. Non è difficile rendersi conto che la nostra fragilità non riuscirà mai a tradurre per intero in servizio i doni ricevuti. Guai però a quella comunità che riconosce servizi non sorretti dal carisma, cosa purtroppo che è ripetutamente avvenuta ed avviene. Ricordo che Lumen Gentium 4 riconosce l’esistenza di doni carismatici e di doni gerarchici, ponendo con ciò lo stesso ministero ordinato, la stessa gerarchia all’interno della sintassi carismatica. Il che però non basta. Il problema è se al ministero ordinato corrisponda veramente un carisma. Ad esempio, se un candidato all’episcopato ha veramente il dono dell’episcopé. Si tratta di uno specifico carisma di vigilanza, supervisione, capacità di visione globale, e dunque capacità particolare di discernimento, grazie a cui è possibile esercitare il governo della comunità. Se una persona riceve l’ordinazione episcopale, ma non ha il dono dell’episcopé, avremo Chiese senza un effettivo pastore…

 

3. Il carisma-ministero sintattico della iniziazione cristiana

Ma al di là delle questioni legate al ministero ordinato e alla corrispondenza a esso propria di carisma-ministero, vorrei mettere a fuoco – e ci tocca tutti e tutte direttamente – il carisma-ministero fondamentale del popolo di Dio, sul quale è poi possibile modulare la ricchezza carismatico-ministeriale elargita alle Chiese. Mi riferisco alla iniziazione cristiana. Tutti e tutte nel Battesimo, nella Confermazione, nella partecipazione all’Eucaristia, veniamo costituiti per l’unzione dello Spirito – e dunque per partecipazione all’unzione messianica di Cristo – nella dignità regale, sacerdotale e profetica. I carismi tutti si riallacciano a questa triplice struttura di mediazione salvifica e ovviamente i ministeri tutti – si iscrivano nell’orizzonte battesimale o all’orizzonte successivo sacramentale o non sacramentale – ci radicano nella regalità, nel sacerdozio, nella profezia.

Solo nella pienezza acquisita dei sacramenti della iniziazione il cristiano può esercitare la sua indole regale sacerdotale profetica, può tradurre il suo diritto-dovere circa la “parola”, la “lode”, la “comunione”. Si tratta, occorre sottolinearlo, di un diritto-dovere originario e comune.

 

3.1. L’iniziazione cristiana e il servizio alla Parola

Generato alla fede nel lavacro in acqua e Spirito, ogni battezzato si scopre soggetto attivo, detentore di diritti nativi rispetto alla parola di Dio che lo ha chiamato a salvezza.

È questo l’orizzonte della profezia comune che appartiene, appunto, a tutti i battezzati, nessuno escluso.

Portatore del compito profetico, il battezzato ha innanzitutto diritto all’ascolto della Parola di Dio; ha diritto a crescere nel suo approfondimento. Tra i suoi diritti inalienabili quello di essere istruito nella Scrittura, così da esserne nutrito. Ha diritto, ancora, a ricevere ciò che costituisce il contenuto della fede che professa. Ha, insomma, diritto di acquisire quegli strumenti che lo pongono nelle condizioni di rendere ragione della propria speranza (cfr. 1Pt 3,15).

Diritto è l’accesso alla parola di Dio e alla sua intelligenza. Diritto attivo e passivo al tempo stesso, perché se chiama in causa la ministerialità ecclesiale nel suo dispensare la parola, chiama in causa l’aderenza ad essa dei singoli, il loro impegno nell’assimilarla.

Ne scaturiscono doveri altrettanto inalienabili. La parola che genera alla fede chiede, infatti, d’essere annunciata. Il battezzato deve mostrarsi come colui che vive in coerenza l’annuncio ricevuto. Egli non può che essere missionario, testimone, martire, anche nel senso radicale e ultimo del dare la vita per Cristo.

 

3.2. L’iniziazione cristiana e il servizio di lode

Se l’iniziazione cristiana ci rende figli di Dio, ottenuta la remissione dei peccati, se ci dona in Cristo la condizione di creature nuove, se nello Spirito ci conforma a lui facendoci idonei a testimoniarlo sino alla piena maturità del suo corpo crismato che è la Chiesa, tanta ricchezza non può restare senza risposta, e la risposta non può che essere il rendimento di lode.

Nell’orizzonte del sacerdozio comune la lode è innanzitutto benedizione di Dio, confessione della sua misericordia. È innanzitutto offerta di sé e della propria vita, anzi è ricondurre la propria e l’altrui vita, se stessi e lo stesso creato alla lode di Dio.

Ciò comporta il riconoscimento della propria creaturalità e dunque la confessione adorante della sua trascendenza e della sua misericordiosa bontà.

Ma il cristiano, poiché vive insieme ad altri credenti la sua fede in un Dio comunione, che ha voluto salvarlo chiamandolo a sperimentare comunitariamente la sua salvezza, è anche obbligato a tradurre la sua benedizione attraverso le forme di un culto comunitario.

Il culto cristiano – culto “in spirito e verità” (Gv 4,24); “culto spirituale” (Rom 12,1); “sacerdozio santo” (1Pt 2,5) – è innanzitutto l’eucaristia, la solenne azione di lode, in cui, la comunità adunata dallo Spirito, torna ad offrire al Padre la vittima santa e immacolata che è il suo Figlio donatosi per noi.

È soprattutto nella liturgia eucaristica che la comunità vive il suo mistero sponsale, accedendo alla carne e al sangue di Cristo, nutrendosene e così divenendo tutt’uno con lui. Né si tratta di una scelta arbitraria. Così facendo la comunità, il popolo sacerdotale, raccoglie le indicazioni del Signore Gesù che, al pane e al vino dell’ultima sua cena con i suoi, ha dato valenze testamentarie e memoriali.

L’intero popolo di Dio si sa dunque soggetto del rendimento di lode. E poiché la Chiesa fa l’eucaristia ma l’eucaristia fa la Chiesa, nella celebrazione eucaristica la Chiesa manifesta la sua articolazione misterica non meno di quanto manifesti la sua articolazione ministeriale. Lettori, accoliti, ministranti, salmista, cantori, ostiari, commentatori, coloro che raccolgono le offerte, ministri straordinari dell’eucaristia..., tutti additano il popolo sacerdotale nella sua connessione alla parola celebrata, alla comunità, ai suoi bisogni.

La celebrazione dell’eucaristia non prevede “spettatori”. Tutto il popolo di Dio è “con-celebrante”. I diversi ministeri, da quello imprescindibile di chi presiede a quelli più umili e minori, sono tutti a servizio del comune sacerdozio, così che esprima al meglio il suo statuto messianico.

 

3.3. L’iniziazione cristiana e il servizio alla “comunione ecclesiale”

La soggettualità del popolo sacerdotale, soprattutto evidente nella partecipazione alla liturgia e in essa all’eucaristia quale culmen et fons di tutta la vita cristiana (LG 11) si traduce infine nel servizio alla comunità e al mondo. Questo farsi carico della realtà di cui si vive, questo assumere il contesto più largo in cui la stessa comunità compie il suo pellegrinaggio nel tempo, ci riconduce all’esercizio del comune sacerdozio nel suo tratto regale.

Per il cristiano la regalità è inseparabile dalla sollecitudine e dal servizio. L’esempio, infatti, è quello di Cristo che sta tra i suoi come colui che serve e che dichiara espressamente di non essere venuto per essere servito ma per servire (cfr. Lc 22, 24-27; Gv 13,1-17).

Dunque la regalità messianica, la regalità comune in cui vengono costituiti quelli che hanno compiuto tutta intera l’iniziazione cristiana, ha quali nomi propri il servizio, la corresponsabilità, l’attenzione agli altri, la sollecitudine, la cura.

Certo c’è anche un aspetto “potente” nella partecipazione alla regalità ed è quello di essere chiamati a prender parte alla signoria e al potere di Cristo. Restituito nella iniziazione cristiana alla originaria sua condizione, il battezzato porta i segni della sua dignità. Ma a differenza della regalità possente di chi guida le nazioni, la regalità cristiana, anche nel mistero dell’immagine restaurata, non può dismettere la attenzione solidale, il farsi carico degli altri, come pure del mondo in cui abitiamo.

Il servizio regale dei laici, ma non soltanto, si dirige all’esterno del corpo ecclesiale, a realtà che esigono d’essere rispettate nella loro autonomia, che tuttavia la coscienza credente deve guardare senza schizofrenie, poiché, in ultima analisi, nulla può essere sottratto alla signoria di Dio.

La comunità ha bisogno di costruirsi nell’ordine, nel buon ordine. Ma per essere autenticamente tale ha bisogno della presenza attiva dei battezzati crismati eucaristizzati, della loro iniziativa. Essi non possono come il servo della parabola sotterrare il loro talento (cfr. Lc 19,11-27). Devono invece abituarsi a discernerlo e a trafficarlo per la crescita della comunità.

In particolare devono farsi attenti ai bisogni, della comunità come dell’ambiente, del paese, della cultura in cui vivono. Non c’è realtà di bimbi, giovani, anziani, uomini, donne, malati, sani, ricchi, poveri, lavoratori, disoccupati, handicappati, marginalizzati, deviati che non chieda la risposta del loro servizio regale.

 

4. Le traduzioni specifiche

Non fa eccezione la VR. Infatti, al cuore del nostro discorso, quelle che chiamo le tradizioni specifiche, dicono il mettersi insieme del dono comune originario proprio alla iniziazione cristiana – e dunque d’indole regale sacerdotale e profetica dataci dall’iniziazione stessa – con la chiamata personale, il dono personale che ci costituisce agli occhi di Dio come “tu” personalmente amato. C’è un dono che è un dono comune, c’è un dono che è il nostro nome proprio.

Quando un bambino o una bambina vengono a questo mondo la famiglia da loro un nome. Non si tratta semplicemente del doverlo individuare e riconoscere, ma di sottolineare la differenza, la novità, la ricchezza che il nuovo nato comporta. Nella nostra cultura tutto ciò si avverte poco. Ma non era così nelle culture che ci hanno preceduto.

Ebbene come c’è un nome anagrafico, familiare, c’è un nome di grazia, un nome segreto, un nome che bisogna fare la fatica di mettere fuori. In tante agiografie troviamo il topos di questo nome di grazia, rivelato magari alla madre prima della nascita del figlio. Che coincida o meno con il nome poi anagraficamente dato, il nome segreto indica il compito a cui quel bambino o quella bambina sono chiamati. Esemplare la vicenda di Emmelina, la madre di santa Macrina a cui è rivelato il nome segreto della creatura che porta in grembo: Tecla. Sappiamo bene che la bimba non sarà chiamata Tecla e tuttavia questo nome, quello della leggendaria compagna di Paolo, ne disegna il compito ecclesiale. Quello di Tecla è un mito talmente forte che Giacomo Alberione chiamerà così la prima maestra delle Figlie di San Paolo. Questo per dire come la storia della Chiesa poi è una storia di famiglia, nella quale, a distanza di 20 secoli, i temi ritornano in modo seducente.

 

4.1. Carisma del singolo – carisma collettivo

Orbene, ripeto, ciascuno di noi riceve da Dio il suo nome di grazia, e il suo nome di grazia è il carisma a lui proprio, comunque iscritto nella terna regalità, sacerdozio e profezia comune. Questo nome di grazia può tradursi nella vocazione al matrimonio, nella vocazione alla vita consacrata; può tradursi nella vocazione alla ministerialità ordinata o alle ministerialità istituite e non. Comunque si traduca il problema è di discernerlo, di riconoscerlo, di condurre ciascuno a conoscere il carisma a lui proprio e, in tutta coerenza, a tradurlo operativamente nel corrispondente servizio. Compito questo che investe insieme il singolo e la comunità cui appartiene.

Anni fa, nel dibattito che ha preceduto il sinodo sulla VR, mi sono posta il problema di individuare la tipologia di un carisma che mette insieme più persone. Giocai distinguendo tra carisma “singolo”, ipotesi davvero non comune, carisma “duale” e “carisma collettivo”. Chiamai “carisma duale” quello di due sposi (forse anche di due amici). Lo caratterizza la necessità d’essere l’uno/a per l’altro/a. Ciascuno/a ha il suo nome proprio di grazia ma concretamente lo realizza e lo vive nel rapporto con l’altro/a. Paradossalmente questo che dovrebbe avvenire nel matrimonio, è avvenuto assai più volte nelle affinità elettive; ad esempio, nella vicenda di non pochi santi fondatori. Parliamo di un rapporto forte, tale che l’uno/a trovi nell’altro/a la risposta alla sua ragion d’essere, al suo compito.

Ho chiamato “carisma collettivo” quello che invece chiama in causa più persone. In più persone cioè io trovo sintonia; la mia scelta di vita è anche la loro; ciò che mi seduce, seduce o ha sedotto anche loro. Per usare il linguaggio del carisma, si tratta di riconoscere nel carisma proprio un carisma proprio anche ad altri, e di conseguenza si sceglie di tradurlo con loro, di viverlo insieme a loro. Il mio nome proprio è anche il loro. Il mio carisma proprio è anche il carisma di ciascuno di loro.

 

4.2. Carisma del fondatore – carisma di fondazione

Questo riconoscimento può avvenire con modalità diverse. Ad esempio, può esserci una persona portatrice di un dono capace di suscitare eco e risposta. È come se il dono di questa particolarissima persona trovasse un naturale riscontro in altre così stabilendo una catena, una sequela, un circolo di comunione. Avremmo allora il carisma di un fondatore e attorno a lui i tanti/tante che lo riconoscono come carisma proprio. Può poi avvenire che, morto il fondatore, non finisca l’eco del consenso, del riconoscerne il dono come dono proprio. Il carisma di fondazione, così poi lo chiamiamo, creerà sempre questa dinamica di riconoscimento che mi lega a quanti si riconoscono in esso e lo riconoscono come dono proprio.

Per quale motivo mai dovrei scegliere quella determinata congregazione, se non a partire dalla constatazione esistenziale, non senza adeguato discernimento, che la mia ragion d’essere davanti a Dio coincide con la ragion d’essere di chi ha dato inizio a una determinata comunità con quei particolari intendimenti, con quella particolare forma, con quel determinato servizio?

E’ chiaro che il carisma del fondatore o della fondatrice, morto il fondatore o la fondatrice, per così dire si sclerotizza. Il problema sempre aperto è quello del dover permanentemente adeguare il carisma di fondazione al carisma originario del fondatore o della fondatrice. Passano le generazioni, a volte ne basta una; passano i secoli, a volte possiamo andare indietro addirittura di ben 15 secoli… È evidente che le situazioni sono profondamente mutate; che manca talora lo stesso contesto vitale che ha determinato l’insorgere di quel determinato carisma e che ha visto il fondatore e la fondatrice realizzarlo in quel modo.

Voglio offrire alcuni esempi, e me ne scuso. Li scelgo lontani, ma questo non impedisce che venga ricusata l’analisi che ne faccio. Parlo a titolo assolutamente personale.

Prendiamo a campione la comunità benedettina. Per carità, se ne ascoltiamo la regola è, nella sua essenzialità, una sorta di guscio vuoto nel senso che lascia enorme libertà di traduzione dei suoi principi guida. Ma guardiamone le realizzazioni storiche. Il guscio vuoto diventa, secondo me, l’oppressione, per esempio, di un abito che non ha più ragione di esistere. Dove mai le donne del secolo XX – parlo delle donne occidentali – vestono un abito così complesso: soggolo, cuffia, velo, sottana, scapolare, cocolla... L’esempio può apparire non calzante, al limite cos’è mai un abito!? Ma se ci spostiamo su un piano più impegnativo il nodo vero è quello della paternità/maternità assunte quale referente fondante, quale criterio ultimo della comunità. Vissute nel secolo VI dopo Cristo (e poi anche nei secoli seguenti) significavano potere discrezionale di vita o di morte sui sottoposti, sia pure moderate dalla carità. Paternità/maternità insomma evocano il referente della famiglia patriarcale, evocano un modello sociale e politico dichiaratamente diseguale e gerarchico, proprio dell’antichità e poi della stessa cultura cristiana. Modello che via via ha acquisito come proprie le regole che senza inficiarlo lo hanno reinterpretato nel tempo, si pensi, ad esempio, alla feudalità medievale. Può una regola religiosa nata in questi contesti suscitare seduzioni che non siano alienazioni, a meno che non si riformi e si rifondi? Di fatto il monachesimo benedettino ha avuto tutta una serie di correttivi e di riforme al maschile come al femminile. Ma, malgrado tutto, non credo che se ne sia mai incrinata l’impalcatura patriarcale. Resta, mi si dirà, la suggestione dell’ “Ora et labora”, di un modello produttivo che ha rivitalizzato l’Europa. Non nego che abbia avuto i suoi meriti, ma indubbiamente si è trattato di un circolo economico di guadagno e di profitto. È stato elaborato nei confronti della povertà, e dunque della sequela Christi, un atteggiamento profondamente diverso da quello dei padri del deserto, che non avevano tunica e se pure l’avevano all’inizio della loro vita eremitica, non temevano di restare nudi quando era del tutto consunta. La testimonianza di Cristo era strettamente legata alla povertà radicale – si legga la Vita di Antonio –. Nella comunità benedettina il singolo vivrà anche poveramente. Ma certamente il più delle volte non è povero il contesto in cui vive. Basta ancora una volta farsi attenti al mutare della storia per rendersi conto di quanto appaia controproducente e antievangelica una scelta che lascia povero il singolo ma incrementa la potenza e la ricchezza delle comunità a cui appartiene e, in ogni caso, rispecchia le regole della disparità sociale e le introietta al suo interno.

Se ci spostiamo alla sororità francescana e alla sua scelta di povertà radicale – scelta prontamente abbandonata dalla fraternità francescana – anche in questo caso non possiamo che costatare la mutata contestualità socio-politica. La comunità clariana nasce come protesta religiosa, come alternativa al potente modello monastico feudale. Se vogliamo impersona i sentimenti antifeudali nella nascente borghesia urbana. Usciti dal quello specifico contesto, anzi da quella specifica contestazione, che senso ha quella forma di vita, quel modulo di povertà, per altro per motivi culturali impedito a realizzare al femminile un modello questuante e itinerante? Certo, non posso che rispettare le clarisse nella loro fedeltà al “privilegium paupertatis”. Non posso non riconoscere la rivalsa controcorrente che ha loro proibito di vivere del loro stesso lavoro, separando l’obbligo del lavoro dalla pratica del guadagno o del profitto. Ciò che mi chiedo, tuttavia, è se oggi sia veramente possibile mettere in atto quel modello e se quel modello sia adeguato al mondo nostro d’oggi.

Secondo me, la storia della VR femminile, a parte i suoi primissimi momenti, è stata caratterizzata da tre diversi modelli. Il primo momento, elitario e colto, quello del monachesimo, ha prodotto soggettualità di grosso spessore e di grossa cultura. L’obbligo della santificazione del tempo, l’obbligo dell’ufficio ha costretto alla lettura della Scrittura, e dunque ha obbligato i soggetti, anche le donne, a interpretarla e a produrre teologia. Ha consentito alle donne anche d’esercitare un potere oggettivo, anche all’esterno dei monasteri, pur essendo iscritto in un modello diseguale e gerarchico.

Un secondo modello ha sottolineato più fortemente la sequela Christi radicale ma ha attenuato il rapporto con la Parola di Dio. Ha di fatto reso opzionale la preghiera salmica e la liturgia delle ore con un oggettivo impoverimento, soprattutto al femminile. Si aggiunga il permanere dell’obbligo della clausura con tutto che ciò essa ha comportato dal punto della soggezione femminile. A fronte di una situazione di dipendenza, esso ha però elaborato un modello di sororità.

Un terzo modello è quello delle congregazioni d’età moderna. Con esso si è usciti dall’ aut murus aut maritus. Le religiose hanno finalmente dismesso la clausura e impersonato la profezia dei bisogni. Il prezzo è stato quello della definitiva estraniazione dalla cultura, tutto investendo sulle “opere”. Questo terzo modello ci ha messi di fronte a una profusione straordinaria di doni, a una molteplicità di carismi che hanno profetizzato i modelli, poi recepiti, di avanzata sollecitudine sociale. Lo stato sociale, come oggi lo chiamiamo, è davvero debitore a questo terzo modello. C’è stata tuttavia, io credo, una malizia istitutiva che ha moltiplicato a dismisura la VR, estendendo alle congregazioni nuove la figura dell’esenzione, nata a suo tempo con finalità specifiche. Ciò ha strutturato a livello universale la VR maschile e femminile, alienandola dal luogo, dalle Chiese locali, con ciò rendendo difficile l’adeguazione al carisma di fondazione, difficile il discernimento del carisma personale, difficile la traduzione, la realizzazione del carisma collettivo.

Credo che gran parte dei problemi che la VR ha nell’attuale nostra transizione culturale dipendano dall’autoritarismo che in realtà soggiace alla lettura della VR in termini universalistici. Faccio riferimento a cose che vi sono già state dette nell’assemblea di primavera. C’è stato un intervento che ha ben evidenziato la violenza che la VR subisce proprio a partire dal principio universalistico, che apparentemente la rende esente ma di fatto la colloca al di fuori della storia.

 

5. La vita religiosa e la sfida della adeguazione al proprio dono

Come vedrei la VR? In che senso parlerei d’adeguazione della VR e del suo dono?. Come penserei di poter risolvere l’anomalia determinata dalla violenta e multiforme elargizione di richieste carismatiche nelle Congregazioni moderne, rispetto alla situazione nostra di oggi?

Tanto per cominciare, la VR non si colloca mai fuori dell’ambiente della comunità locale d’appartenenza. Certo io posso contagiare le Chiese, e pensare di mettere nel loro circolo il carisma di fondazione o il carisma collettivo che è all’origine di una Congregazione; in realtà un carisma di fondazione (dico carisma, ma bisogna sottintendere carisma-ministero, perché altrimenti il discorso non si capisce), in realtà è radicato in un bisogno locale. Lo Spirito non soffia indistintamente nel senso dell’universale, ma risponde ai bisogni concreti di una comunità, di una Chiesa, di una regione, di una situazione. Non a caso l’esperienza clariana, di cui ho parlato, si colloca nella nascente civiltà comunale e nella nuova classe borghese.

La provocazione, la profezia dei bisogni, che poi è la molla fondante della vita consacrata come d’ogni ministerialità ecclesiale, è sempre contestualizzata. A mio avviso bisognerebbe avere il coraggio di smettere di pensarsi in termini universalistici per accettare di confrontarsi con la propria Chiesa locale. Questo ovviamente vale soprattutto per le innumerevoli nuove forme di VR, perché, e lo dico con fermezza, il dono-ministero della VR non verrà mai meno. Sono le sue forme storiche che passano. Non tutti i carismi sono presenti alla Chiesa contemporaneamente. Lo Spirito elargisce quei doni che servono alle Chiese per superare l’insidia del “frattempo”. Lo Spirito è l’estetista della Chiesa, quello che le toglie le rughe e macchie, che la rende bella, idonea a presentarsi dinanzi al suo Signore. Può darsi che, in quel determinato frangente la ruga sia quella, ad esempio le zampe di gallina attorno agli occhi e che in un altro momento le rughe siano quelle attorno alle labbra. In un altro momento il problema sarà la cellulite, l’obesità, o saranno le malattie degli organi interni... Lo Spirito deve guarire e i doni che dà sono finalizzati alla guarigione, all’abbellimento, a mettere la Chiesa in condizione di vincere l’insidia del frattempo. È difficile stare al passo con la storia; il suo mutare è sfida permanente. Guai ad illudersi che i problemi sono risolti, perchè finito un problema ne spunta subito un altro.

L’equivoco, che è equivoco di Chiesa, non soltanto della VR, è stato quello di costruirsi un’immagine statica, un modello statico, nel quale tutto era o nero o bianco, e soprattutto era tale una volta per sempre. Ma tra il nero e il bianco ci sono tutte le sfumature del bianco e tutte le sfumature del nero e tutti i grigi possibili e immaginabili. Chi lo ha detto che il mondo è riducibile all’opposizione sì/no? Non voglio smentire la parola evangelica, perchè il senso lì è un altro; l’invito è alla coerenza.

Ma sul piano della storia, anche della storia personale, c’è uno spettro larghissimo di mutazione. L’intelligenza sta appunto nella capacità di adeguarsi al mutamento. Ci siamo illusi di poter gestire la Chiesa, come se fosse stato un meccanismo d’orologeria che mai si sarebbe inceppato. Abbiamo pensato di trasferire queste regole statiche a tutte le forme di vita ecclesiali, le quali invece non possono essere ingessate.

Il problema nostro d’oggi è accettare che carismi di fondazione, che un tempo si mostravano seducenti, che sono serviti alla Chiesa per realizzare la sua missione, che hanno santificato centinaia e migliaia di persone, oggi devono cedere il posto a realtà nuove, altrimenti indicate dallo Spirito. È una esperienza che va vissuta con un atteggiamento di speranza e di fiducia. Speranza, per il fatto che lo Spirito continuerà ad arricchire la Chiesa con il dono della VR; fiducia perché la nostra fatica non è vana, a condizione che non ci chiudiamo in una sorta d’accanimento terapeutico.

Se il problema è vivere la mutazione in atto, occorre stringersi insieme per similarità, stabilire cerchi concentrici che ci liberino da ciò che ci opprime e ci consentano di andare incontro al nuovo, nel modo meno doloroso possibile, possibilmente trasferendo la nostra eredità ad altri, per quel che ancora ha di valido. Se invece scegliamo d’accanirci ad ogni costo, pure con la tratta delle bianche e/o delle nere, per mantenere in piedi le nostre istituzioni, dobbiamo sapere in partenza che lo Spirito non ci aiuterà perché questa operazione nega l’indole costitutiva dello Spirito, la sua libertà di soffiare come e dove vuole, di trasformare ciò che vuole, senza che in alcun modo lo leghino le nostre regole e le nostre leggi.

Se io avessi la possibilità di dire la mia a livello di Chiesa universale, sinceramente trasformerei la Congregazione per la VR in un’agenzia che aiutasse a localizzare le comunità, senza più riconoscerle e avallarle a livello di Chiesa universale. I fenomeni non possono essere omologati. Non posso obbligare o imporre leggi a spettro mondiale. Se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo rimettere al centro, ricondurre la VR al livello della Chiesa locale.

Preciso che non intendo mettere in forse la multiculturalità o il dialogo con le culture, cose tutte cui siamo obbligati perché questo nostro mondo non solo è “globalizzato” ma vive acutamente l’esperienza di una migrazione epocale. Già negli anni 90 parlavo di prossimità di questo nostro tempo al IV secolo, quello delle invasioni barbariche, quando masse enormi di soggetti nuovi irruppero nei confini dell’impero romano, profondamente mutandolo. Non arresteremo la migrazione dall’est all’ovest e dal sud al nord. La sfida multiculturale ce la troviamo già da noi e ci impegnerà a lungo nel futuro… Certo ci sono anche le tensioni della missio ad gentes, nel qual caso occorre accettare la sfida postami dalla cultura presso cui penso di dover annunciare il vangelo.

Come ho detto e ripetuto più volte, rendendomi antipatica, se annuncio il mio vangelo di bianca, borghese, occidentale, di persona privilegiata e a pancia piena, questo mio annuncio non avrà nessun senso e nessun seguito. Se, viceversa, assumo la piccolezza, la povertà, l’analfabetismo, la malattia, l’emarginazione, la persecuzione, e quant’altro mi rende solidale a coloro ai quali voglio portare l’annuncio, allora davvero vado a dialogare e a cercare i valori altrui e le risorse; non mi limito a proporre il mio modello come ottimale, ad opporre il mio modello di sviluppo al cosiddetto sottosviluppo altrui.

Penso a quanti danni abbiamo operato elaborando un concetto di sviluppo illimitato, senza avvertire profeticamente la necessità di uno sviluppo compatibile. Eppure, come cristiani, dovremmo avere nel nostro DNA l’idea di uno sviluppo compatibile, perché la koinonia, la comunione che lo Spirito ci garantisce e mette in circolo non è la dissennatezza dello sfruttamento, o la corsa indefinita e illimitata a identificare e sfruttare le risorse, ma al contrario è l’accettare con misura i beni nella condivisione.

Per ritornare a ciò che ci sta a cuore, il problema vero è quello di operare un discernimento che metta veramente al primo posto le persone e, se possibile, le dirotti altrove, nella misura in cui si elabora il convincimento dell’obsolescenza del proprio carisma di fondazione. Davvero, di fronte all’enormità di Congregazioni fiorite dall’800 in poi, io chiederei, piuttosto che accogliere delle persone giovani all’interno della propria Congregazione, di suggerire loro, nella misura in cui si è fatto un autentico discernimento, di orientarsi verso realtà altre, verso le quali portare le loro energie.

Non saranno le poche persone che ogni anno chiedono d’entrarne a far parte a disegnare il futuro di una Congregazione. Bisogna avere il coraggio di praticare una sana eutanasia della propria istituzione. E in questione il più delle volte non sono i doni, i carismi di fondazione quanto le forme che hanno assunto via via nella storia di una congregazione. La cosmizzazione dello Spirito guarda al cuore del dono, ma elimina le forme obsolete, ormai incapaci di lasciar trasparire il dono.

Consentitemi ancora qualche esempio. Quante congregazioni non sono nate a servizio della formazione e dell’istruzione, e quante si sono poi omologate, tra l’altro tradendo la loro costitutiva vocazione della formazione dei poveri. Chiediamoci che cosa sono diventate le nostre scuole, che erano nate come scuole popolari, scuole rurali... Evidentemente la scolarizzazione di massa ha rese superflue determinate attività, determinati servizi. Abbiamo allora creato scuole prive di caratteristiche proprie, scuole che non possiamo più mantenere per le quali dobbiamo ricorrere alla professionalità di persone estranee all’originario carisma, per altro oberati, se vogliamo che i titoli siano riconosciuti, da una legislazione che esige la tutela dei diritti degli operatori, docenti e non. Mi si consenta di aggiungere che il più delle volte tanta fatica, diretta ormai a chi aveva mezzi, non ha neppure proposto un modello di fede seducente e vitale. Molto spesso abbiamo trasfuso un cristianesimo asfittico, incapace di respirare a pieni polmoni, soprattutto incapace di dialogare riconoscendo veramente nell’interlocutore un soggetto creato ad immagine e somiglianza di Dio e perciò educandolo al rispetto dell’altro.

Mi si consenta di concludere con parole di speranza. Certo, bisogna, anche con lucidità, elaborare le diagnosi. È atto di giustizia verso se stessi, è un atto di lealtà, di rispetto per le scelte di vita operate. Bisogna operare un discernimento confidando tuttavia nello Spirito. Egli mai cesserà di suggerire alla Chiesa, di suscitare nella Chiesa nuovi carismi e ministeri riconducibili alla nuzialità della sposa. Mai verrà meno in essa la pratica dei consigli evangelici, la ricerca dell’apostolica vivendi forma; mai cesserà nella sua seduzione radicale, totale, la sequela di Cristo. Mai verrà meno la VR.

Lo Spirito non cesserà mai di farne una realtà liminare, una realtà di frontiera che stimoli la comunità intera a riacquisire, a fare memoria di valori che l’esistenza multitudinista, la fede multitudinista, tende a mettere in secondo piano. La VR connota quanti la praticano a modo di sentinelle, di persone vigilanti; il suo compito è additare alla comunità più larga l’ideale cristiano in tutta la sua bellezza.

Questo vuol dire riacquisire la nozione di sacramentalità, riacquisire la Chiesa quale sacramento di salvezza, nel senso suo forte di apertura, di sfida; sfida di annuncio, sfida di vissuto.

Vuol dire anche pensare al futuro declinando le istanze della nostra attuale cultura, la quale chiede una ottimizzazione della vita. Non è cosa da poco realizzare se stessi, le proprie aspirazioni, i propri talenti; non cosa da poco l’essere presi sul serio. Il nostro mondo è talmente deluso in questa domanda, da sfociare in posizioni di individualismo selvaggio.

La VR, al contrario, può riproporre la comunità nel suo tratto bello di mutua accoglienza, di parola profonda, che circola all’interno e assegna a ciascuno il suo posto proprio.

Come chiamare comunità quella in cui il carisma personale, il nome proprio non appare né individuato né messo in circolo. Un tempo si consegnava tutto ciò all’ascesi, alla mortificazione… il nostro mondo non ne vuole più sentire parlare. Dobbiamo essere profeti di gioia. La gioia altro non è che il nome dello Spirito!

Infine, se mi consentite, bisogna non aver paura dei laici. La VR è nata fondamentalmente come esperienza laicale, ed è l’istituzione che l’ha normalizzata e de-laicalizzandola. Laiche sono rimaste le donne per motivi giuridici di altra indole. Forse, l’unica possibilità di permanenza dinamica di determinati carismi è proprio quella di lasciare che vengano recepiti e accolti da soggetti nuovi che non rimangono iscritti nelle forme di VR che abbiamo conosciuto, ma ne creano di nuove, di più larghe, di più informali.

E, ancora, per quello che serve, occorre scoraggiare le forme nuove dal darsi immediatamente una struttura istituzionale. La acquisiranno fin troppo presto, che lo vogliano o che non lo vogliano. Occorre invece invitarle a vivere una lunga stagione unicamente condotte dallo Spirito.

 

***

 

Ho provato a modulare alla mia maniera il tema che mi è stato assegnato. Vorrei concludere riassumendo i punti chiave di questo mio intervento. Innanzitutto la pertinenza alla Chiesa della VR. Espressione della nuzialità che connota la struttura stessa della Chiesa, essa ne ripropone anche la polarità dinamica carismatico-ministeriale iscritta nella presenza dello Spirito alla Chiesa.

A fronte alla crisi che traversa la VR ho sottolineato la necessità di fare spazio al nuovo, accettando la propria esperienza, la propria storia come dono grandissimo elargito dallo Spirito, ma riconoscendo allo Spirito l’indole nativa di portatore di cose nuove.

È con l’augurio di realizzare il nuovo, se è possibile di vederlo con i propri occhi, di assistere alla sua rigenerazione che chiudo questo mio intervento nello sfondo del tempo d’avvento che va a iniziare. Alziamo in alto lo sguardo… perché… la nostra salvezza è vicina.


 
 

Torna indietro

 

 

   

   

Numeri disponibili
in internet


   

Supplementi


   

50 anni nella storia per animare il cammino della vita apostolica e religiosa femminile
 



 

Direzione
e Amministrazione

Consacrazione e Servizio
Via Zanardelli 32
00186 - ROMA
Tel. e fax 06 68 80 23 36
Email redazione:
centrostudi@usminazionale.it
Email abbonamenti
abbonamentirivista@usminazionale.it
CCP 671008
Centralino USMI
Tel. 06 684005 - 1
Fax 06 68 80 19 35

 

Per abbonarsi

ABBONAMENTI 2013

  • Italia: € 35,00
  • Estero: € 40,00

Email abbonamenti
abbonamentirivista@usminazionale.it

Inserisci questo sito
fra i tuoi siti preferiti.

Imposta questo sito
come pagina di inizio. 
 

 


Modificato domenica 16 marzo 2014
© USMI, Via Zanardelli, 32 - Rome - Italy