Premessa
Niente sarà più
come prima! Quest’espressione tanto abusata quanto vera ci restituisce
la portata di ciò che stiamo vivendo con la globalizzazione.
Prima di
addentrarsi in analisi di ogni sorta sugli effetti di questo fenomeno e
delle sfide che la sua diffusione sempre più capillare pone all’uomo
d’oggi (e in particolare alla Chiesa e ai cristiani) c’è da
chiarirsi cosa sia veramente, quando ha avuto inizio e soprattutto dove
sta portando. Insomma che cos’è la globalizzazione.
C’è da dire
anzitutto che essa è politica, culturale, sociale, tecnologica e
ovviamente economica. E’ sbagliato pensare che la globalizzazione
riguardi solo alcuni aspetti della vita. Questo processo esiste e va
avanti già da un po’ di tempo; adesso se ne parla di più perché
riguarda giorno dopo giorno un numero sempre crescente di persone.
Stiamo acquisendo la consapevolezza che il mondo sia globale perché
quotidianamente ci ritroviamo proiettati in un contesto nuovo che non è
più quello dei nostri quartieri, delle nostre città o della nostra
nazione, ma quello del mondo intero.
Anche se la
tocchiamo con mano, la globalizzazione però è fondamentalmente
qualcosa di immateriale. E ciò aiuta a comprendere perché ci sia
ancora tanta confusione sul suo significato e su cosa veramente
rappresenti.
E’ bene
ricordare che essa ha a che fare prevalentemente con l’economia e solo
più recentemente se ne parla riferendosi anche al processo di
interconessione planetario, all’omogeneizzazione della cultura e alle
trasformazioni geo-politiche, proprio perché ha iniziato ad assumere un
carattere sovranazionale, a radicarsi nella vita quotidiana e a divenire
di massa. In quest’ottica però forse più che di globalizzazione si
dovrebbe parlare di modernizzazione, per usare un termine caro
all’intellettuale Mario Vargas Llosa. Modernizzazione che non
significa solo progresso tecnologico, dal quale questo processo dipende
e continuamente attinge, ma anche e soprattutto sociale, culturale,
politico.
Il cambiamento
sociale più importante e determinante apportato dalla globalizzazione
però è nel modo di comunicare. La comunicazione si è spostata
dall’ambito spaziale, caratterizzante del secolo scorso, a quello
temporale, proprio dei nostri tempi. E dal momento che essa è alla base
delle relazioni e dunque della vita delle persone sta rivoluzionando le
società, locali e nazionali, il modo di governarle, la produzione di
beni e servizi, il movimento dei capitali.
Tutto quello che
fino a qualche tempo fa richiedeva tempi e soprattutto spazi ben precisi
oggi può essere fatto in tempo reale. Insomma ogni tipo di processo che
coinvolge singoli o gruppi di persone richiede del tempo che oggi la
globalizzazione e la velocità e la facilità della comunicazione in
tempo reale stanno annullando, con le drammatiche conseguenze sotto gli
occhi di tutti.
Questo scenario,
tanto nuovo quanto drammatico, interpella chi è chiamato a ruoli di
responsabilità ad ogni livello: politico e istituzionale, formativo ed
educativo e soprattutto morale, come la Chiesa.
Già nel ’98 il
Santo Padre nel Messaggio per la giornata mondiale della pace
prefigurava l’avvento di una nuova era mettendo in guardia sui
possibili risvolti negativi. "La globalizzazione dell’economia e
della finanza è ormai una realtà e sempre più chiaramente si vanno
raccogliendo gli effetti dei rapidi progressi legati alle tecnologie
informatiche. Siamo alle soglie di una nuova era, che porta con sé
grandi speranze ed inquietanti interrogativi".
Di fronte alla
profonda e radicale trasformazione in atto è assurdo qualsiasi
atteggiamento di condanna, come ogni approccio dettato da pregiudizi
etici, culturali o politici. "La globalizzazione può prospettare
un mondo non particolarmente attraente o raffinato ma nessuno che voglia
comprendere in che direzione si muove il nuovo secolo può
ignorarla" ha sentenziato nel suo ultimo libro l’economista
Antony Giddens.1
La rivoluzione
telematica in corso, modifica radicalmente abitudini, relazioni umane,
sociali ed economiche.
Andando indietro
nel tempo e ripercorrendo la storia degli ultimi cinquant’anni ci si
rende conto come questo fenomeno viene da lontano. E non è nemmeno una
lontananza temporale ma soprattutto culturale. Con la diffusione della
Coca cola forse è cominciata quella che oggi chiamiamo globalizzazione.
Poi sono arrivati i Mc Donald’s, i ristoranti cinesi, i computer e
solo dopo molto tempo la Microsoft, Windows, la posta elettronica.
L’avvento di
Internet e il suo rapido sviluppo ha poi dato inizio all’era globale
più propriamente intesa. O magari per dirla con le parole
dell’economista americano Jeremy Rifkin, l’era dell’accesso. Perché
la vera globalizzazione è possibile solo per chi ha accesso
materialmente alla grande rete di interconnessione mondiale (la Inter
Net, appunto).
Che la
globalizzazione sia irreversibile è un dato di fatto. Dunque al bando
tutte le polemiche su come frenare questo processo o magari, secondo
altri, arrestarlo completamente. Il problema vero è come orientarla al
servizio dell’uomo, alla promozione della persona e dello sviluppo
sociale.
Opporsi in
qualche modo più che alla globalizzazione a quello che viene chiamato
pensiero unico, il vero nemico degli stati nazionali, delle piccole
comunità, della storia, della cultura e delle tradizioni dei popoli. Il
rischio più grande posto dalla globalizzazione, che è all’origine
della contestazione, infatti è l’omogeneizzazione della cultura, la
standardizzazione degli stili di vita, del linguaggio e delle diversità
in genere.
Per essere nel
mondo che conta bisogna parlare la stessa lingua, consumare gli stessi
alimenti, possedere gli stessi oggetti, utilizzare le stesse tecnologie,
leggere gli stessi libri o giornali, e così via.
Ormai il mondo è
globalizzato! Lo è già da qualche tempo. Il terzo millennio dovrà
essere allora l’era del dialogo, della comunicazione autentica: tra le
nazioni, tra i popoli, tra le persone.
Questa esigenza
etica ricorrente è stata anche l’intuizione che ha ispirato il primo
Forum sociale mondiale svoltosi a Porto Alegre in Brasile a gennaio.
Da
Davos a Porto Alegre: il primo forum sociale mondiale
27 gennaio 2001.
Quello che ai più potrebbe sembrare un giorno come tanti ha segnato
invece, a mio parere, l’inizio vero dell’era della globalizzazione.
In quel giorno i Signori dell’economia e della politica internazionale
riuniti a Davos per il Forum Mondiale dell’Economia e i paladini dello
sviluppo sostenibile radunati a Porto Alegre per il primo Forum Sociale
Mondiale si sono parlati: in teleconferenza. Un particolare non da poco,
che fa pensare. I rappresentanti del Nord e del Sud del mondo si sono
incontrati in quello stesso spazio immateriale oggetto dei loro
dibattiti.
Quest’anno al
Forum mondiale dell’economia, giunto alla trentesima edizione, che
ogni anno porta a Davos in Svizzera il gotha dell’economia e della
politica internazionale, il popolo di Seattle (il movimento che ha preso
origine dalla contestazione al vertice del Organizzazione mondiale del
commercio (il WTO) nel novembre del ’99), ormai ben organizzato, ha
opposto il primo Forum sociale mondiale per discutere di sviluppo
sostenibile e lanciare un appello ai potenti di tutto il mondo perché
si ricominci seriamente a parlare di promozione della persona.
Mentre nella
cittadina svizzera da 30 anni si discute e ci si accorda sugli
orientamenti della politica e del mercato, a Porto Alegre, per la prima
volta, si sono date appuntamento le organizzazioni non governative (Ong),
le associazioni umanitarie e ambientaliste, i centri sociali, coloro che
lottano per affermare i diritti umani, perché tutti possano vivere
dignitosamente, perché i ricchi non siano sempre più ricchi e i poveri
sempre più poveri. Quelli che hanno a cuore il destino dei piccoli e
che dunque si oppongono al liberismo spinto, al dominio del libero
mercato, alla violazione sistematica dei diritti umani. Si sono
incontrati per discutere e concordare una linea politica comune contro
l’ascesa imperante della globalizzazione.
Nella metropoli
brasiliana sono arrivati il leader francese del movimento
antiglobalizzazione Josè Bovè, l’ex presidente algerino Ben Bella,
il teologo Leonardo Boff, l’architetto Oscar Niemeyer, il frate dei
poveri frei Beto, lo scrittore uruguayano Edoardo Galeano e anche
Danielle Mitterand. Sono arrivati in migliaia da tutto il mondo per
gridare ad una sola voce il no deciso al liberismo spinto.
Un altro mondo è
possibile! E’ in sintesi il messaggio lanciato dal primo Forum sociale
mondiale all’indirizzo dei potenti della terra perché si adoperino
per riaffermare il primato dell’uomo sull’economia e sugli affari.
La scelta di
Porto Alegre non è stata casuale. La metropoli sul lago Guaiba,
capitale dello stato brasiliano del Rio Grande do Sul è oggi, agli
occhi del mondo, la dimostrazione che è possibile far convergere
l’economia di mercato e lo sviluppo sostenibile.
La città
latinoamericana è considerata un esempio di trasparenza e democrazia
partecipata. Ha il più basso tasso di disoccupazione del Paese e
percentuali elevatissime di alfabetizzazione. Nel 97 per cento delle
case c’è l’acqua corrente ed è all’avanguardia nelle politiche a
sostegno della famiglia, delle minoranze etniche, delle donne e dei
disabili. L’Onu l’ha classificata al primo posto per la qualità e
aspettative di vita dell’intero continente desaparecido, dove regnano
povertà e analfabetismo. Questa situazione è frutto di un’attenta
politica di coinvolgimento dei cittadini nel governo della città
operata dal fortissimo partito dei lavoratori (Pt) di Luis Inacio Lula
De Silva, da 12 anni al governo della città. Il sistema, fondato sul
badget partecipativo, si basa sul coinvolgimento diretto della
popolazione nella gestione delle risorse economiche della città. Nei
mesi precedenti la discussione e l’approvazione del bilancio i
cittadini delle 16 circoscrizioni in cui è suddiviso il territorio sono
convocati, attraverso assemblee aperte, a contribuire alla valutazione
dei progetti realizzati e ad avanzare proposte sull’impiego delle
risorse della gestione finanziaria successiva.
In entrambi i
summit di Davos e Porto Alegre si è parlato della stessa cosa: degli
effetti della globalizzazione. Nella metropoli brasiliana così come
nella cittadina svizzera si è discusso di deregolamentazione dei
mercati, dell’abolizione del debito estero, delle transazioni
finanziarie speculative, di Internet e della qualità della
comunicazione ma soprattutto dei rischi di questi aspetti della
globalizzazione per la democrazia e per l’economia.
Globocolonizzazione
è il termine che ha coniato il forum sociale per indicare la forma
moderna di colonizzazione mondiale perseguita con l’imposizione di
modelli economici ultraliberali e soprattutto con la globalizzazione
della comunicazione, dell’economia, della politica. "Davos è il
simbolo di un mondo che promuove l’individualismo, nel quale
l’importanza dell’essere umano è misurata dal suo rendimento
economico nell’ingranaggio del libero mercato", hanno convenuto i
partecipanti al forum sociale.
A Porto Alegre i
5mila partecipanti al "controvertice", per usare il termine
coniato dalla stampa brasiliana, non hanno chiesto stupidamente di
fermare la globalizzazione ma di darle un senso, di umanizzarla.
Quest’anno a
Davos, per la prima volta, nei dibattiti, nei convengi e nelle sessioni
di lavoro non si è parlato solo di economia e politica internazionale
ma anche degli effetti sulla società civile del progresso e della
globalizzazione. Forse perché questo processo sta diventando
incontrollabile. Magari perché nel villaggio globale non è possibile
prescindere più dai suoi cittadini, orami l’unica variabile
indipendente. Una riflessione che è scaturita dall’attestazione di un
dato di fatto allarmante. Oggi per primeggiare nella politica e negli
affari come nella vita la parola d’ordine è riuscire a rimanere
sempre connessi. Praticamente o si resta in rete e dunque nel mondo che
conta e si lavora per 24 ore al giorno o si è destinati ad essere
tagliati fuori. "Non vi sembra una visione dei gironi infernali? ha
detto il presidente della Sony America Howard Stringer. Se possiamo solo
lottare per vincere o morire, quando avremo tempo per la famiglia, per
la musica o un buon libro? Fermate il mondo, voglio scendere".
Qualche mese fa anche il nostro giornalista e scrittore Giorgio Bocca,
titolava un suo libro allo stesso modo: Voglio scendere!
"Il grande
rischio della globalizzazione – ha denunciato il forum di Porto Alegre
– è quello di essere solo un susseguirsi senza senso di progressi
tecnologici che tutti cercano di capitalizzare per accrescere il proprio
potere politico, sociale e soprattutto economico". Dimenticando che
la vita delle persone non è fatta solo di affari e di lavoro ma anche e
soprattutto di relazioni, cultura, tempo libero, insomma di spazi
sociali veri, da abitare.
Il
mercato non è tutto
"Sulla terra
– secondo l’ultimo Rapporto sullo sviluppo umano (Undp) – ci sono
3 miliardi di esseri umani che vivono con meno di 2 dollari al
giorno". Di questi un miliardo non ha accesso all’acqua potabile
e un altro miliardo e mezzo è anche senza casa. Nel mercato globale
conta solo la massimizzazione del profitto anche e soprattutto a costo
della qualità della vita. A farne le spese, come sempre, sono i più
poveri, coloro che non hanno altra esigenza che quella di sopravvivere.
Quando si è cominciato a parlare di globalizzazione si diceva che essa
sarebbe diventata strumento di sviluppo sociale, economico, culturale e
politico anche per quei paesi che fino ad oggi erano rimasti tagliati
fuori dal mondo sviluppato. E invece il divario aumenta sempre di più e
a ritmi insostenibili.
L’economia
capitalistica e dunque la vita di un paese sviluppato, si fonda sul
mercato, sulla circolazione delle merci e dei capitali. Chi non è in
grado di produrre viene tagliato fuori dal mondo. Con una novità.
Nell’era telematica i mercati stanno cedendo il passo alle reti di
computer, i nuovi spazi dove oggi avvengono gli scambi, e alla proprietà
privata (beni e prodotti) si sta sostituendo quella intellettuale. Anche
l’oggetto dello scambio sempre più frequentemente è qualcosa di
immateriale. Siamo proiettati in una società in cui ciascun individuo
diventa esso stesso mercato perché al centro degli scambi non c’è più
qualcosa di materiale ma un servizio, un’idea, una soluzione. Il
business alla velocità del pensiero, per dirla con Bill Gates, il
fondatore della Microsoft, che nel marzo del ’99 nel suo ultimo libro
parlava di una nuova organizzazione della società dettata dalla
globalizzazione dell’economia.
L’avanzare
della globalizzazione in definitiva sta originando una nuova lotta di
classe tra chi è in grado di fornire servizi e chi no; tra chi ha
accesso alla rete di comunicazione globale e chi no. E in questo modo
sta originando anche nuove forme di povertà. L’era dell’accesso è
implacabile. Insomma "oggi il pericolo proviene proprio dal
fondamentalismo del mercato" come scrive il finanziere George Soros
nel suo ultimo libro. Lo spostamento delle merci, i profitti derivanti
dalle transazioni economiche, la crescita sproporzionata del debito
estero sono solo alcuni dei fenomeni che la globalizzazione porta con
se.
Lo scorso anno a
Davos l’ex presidente USA Bill Clinton lanciò l’appello per
l’avvento di una forte solidarietà internazionale ai paesi più
deboli di fronte all’ascesa imperante della globalizzazione. "In
un mondo così organizzato le nazioni più sviluppate devono comprendere
che non possono costruire il loro futuro senza aiutare le altre a
costruire il loro. I mercati aperti sono il migliore motore di sviluppo
– l’ex capo della Casa Bianca - e una maggiore apertura al commercio
internazionale assicurerà alle nazioni più povere la possibilità di
condividere la prosperità che oggi è dei paesi più ricchi, perché la
crescita sia veramente sostenibile servono investimenti sulle persone,
sull’educazione e sulle tecnologie".
Insomma la
globalizzazione non può essere a scapito dell’uomo e dei suoi diritti
fondamentali come continuano a ripetere instancabilmente i contestatori.
"The cost of
free trade? Human Rights" è lo slogan, che campeggiava sui
manifesti e sugli striscioni dei manifestanti a Seattle, a Praga, Nizza
e a Davos e che accompagna ogni vertice internazionale. Non è
impossibile conciliare globalizzazione e diritti umani! Anzi la magna
carta universale della promozione della persona deve diventare il punto
di riferimento di ogni scelta politica.
Una soluzione
praticabile al dominio incontrastato dell’economia di mercato l’ha
proposta il premio nobel Amartya Sen. L’economista indiano nella sua
crociata per un’economia dal volto umano è riuscito a reinterpretare
il problema della povertà in modo totalmente nuovo, in termini relativi
di quelle che ha chiamato capabilities. Secondo lui "i poveri sono
poveri non per quello che non hanno, ma per quello che non possono
fare"2. Non più fronteggiare
la povertà in termini assistenzialistici ma riferendosi al grado di
inclusione nella vita quotidiana. Il "ben essere" – secondo
Sen - dipende dalle cose che gli individui possono fare e non da quelle
che hanno, dalle risorse economiche o materiali. Si badi bene però che
queste ultime non possono mancare.
In
quest’ottica, lo sviluppo umano, questione a cui Sen tiene molto e che
ha orientato gran parte del suo lavoro, è definito come un aumento
delle opportunità socio-culturali.
Il
ruolo della Chiesa
Per i cristiani
queste riflessioni esigono una presa di coscienza seria e ancor più un
cambiamento di rotta deciso nell’impegno missionario. Ciò però è
possibile solo riuscendo ad essere al passo coi tempi, acquisendo la
capacità critica di porsi di fronte al nuovo che avanza senza
pregiudizi. La formazione in quest’ottica diventa un’esigenza
imprescindibile. La sfida è quella di riuscire a tradurre in un
linguaggio adeguato ai nostri tempi le indicazioni del messaggio
cristiano. Un impegno che deve vedere in prima linea i consacrati e i
religiosi, coloro che nella chiesa sono stati chiamati ad una vita di
dedizione totale, perché primi testimoni e annunciatori
dell’evangelo.
Ci si gioca
tutto, come cristiani e come consacrati, sulla comunicazione della fede
così come indicato anche nella prima bozza degli Orientamenti pastorali
per il prossimo decennio a cui sta lavorando il consiglio permanente
della Cei.
Punto di partenza
del viaggio intrapreso all’alba del terzo millennio dell’era
cristiana, così come indicato anche dal Papa nella Incarnationis
Mysterium, è il mistero dell’incarnazione. Da esso e dalla necessità
di riproporre l’annuncio in un linguaggio comprensibile per i nostri
tempi, scaturiscono le linee operative dell’evangelizzazione e della
pastorale. In primo luogo "cercando di capire – come ha detto
mons. Renato Corti, il vice presidente dell’assemblea dei vescovi –
qual è il contesto in cui annunciare il Vangelo e quali sono le sfide e
i compiti che ci attendono". Insomma quali sono gli spazi e le
modalità della pastorale che non può essere più considerata
indipendente nei suoi diversi aspetti ma unitaria e principalmente
vocazionale.
Questa sfida, che
richiede una verifica del cammino fatto e un rinnovamento profondo nella
prassi, interpella in primo luogo le realtà ecclesiali istituzionali e
in esse i pastori, i religiosi, i consacrati. La sfida non può che
essere letta in chiave pedagogica.
Non c’è
alternativa che puntare decisamente sull’educazione: alla diversità e
al multiculturalismo. Con una metodologia: quella dell’animazione
culturale. Riscoprire cioè il ruolo socio-antropologico della pastorale
e proiettarlo, con un pò di audacia e di coraggio nelle realtà
ecclesiali di riferimento. Un’azione pastorale che si rivolge
essenzialmente alle famiglie e ai giovani, i soggetti più a rischio,
quelli che maggiormente esposti alla pluralità di proposte provenienti
quotidianamente dalla società globalizzata difficilmente riescono ad
orientarsi.
La Chiesa non ha
mancato di indicare la strada da seguire con gli Orientamenti pastorali
per gli anni ’90 e soprattutto con quell’intuizione geniale che è
stato il Progetto culturale. La veicolazione dei valori cristiani oggi
non può che essere attuata attraverso un’attenta inculturazione i cui
primi destinatari sono i giovani. Dove inculturazione significa essere
in grado di offrire opportunità di confronto e di dialogo, e di
crescita umana e nella fede. Riscoprendo e valorizzando il ruolo della
comunità ecclesiale e in essa del piccolo gruppo di animazione. Le
Parrocchie e le comunità locali diventano allora dei punti di
riferimento sul territorio, in cui ogni cristiano responsabile è
chiamato in prima persona a un impegno concreto nella società per
riaffermare il primato dell’uomo e del suo imprescindibile bisogno di
Dio. Impegno che deve manifestarsi in ogni ambito della vita umana e
della società secondo i diversi carismi e che deve trovare nei
consacrati, nei religiosi e nelle religiose dei punti di riferimento
saldi.
Un indirizzo
chiaro sul quale la Chiesa e più recentemente questo pontefice non si
sono mai stancati di esprimersi attraverso un attento Magistero e una
dottrina sociale sempre attuale. La globalizzazione così diventa
un’opportunità nuova e la Rete e gli strumenti della comunicazione,
nuovi aeropaghi, una via privilegiata per l’evangelizzazione.
Già nel ’96,
nell’esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata, Papa
Woityla invitava a una presenza qualificata nel mondo della
comunicazione sociale. "Oggi le persone consacrate sono
interpellate in modo nuovo all’esigenza di testimoniare il Vangelo
attraverso i mezzi della comunicazione sociale. Tali mezzi hanno assunto
una capacità di irradiazione cosmica mediante potentissime tecnologie,
in grado di raggiungere ogni angolo della terra. Le persone consacrate
sono tenute ad acquisire una seria conoscenza del linguaggio proprio di
tali mezzi, per parlare in modo efficace di Cristo all’uomo
d’oggi". Sin da allora il Papa, lungimirante sugli effetti di un
uso scriteriato delle nuove tecnologie, ammoniva: "Occorre tuttavia
essere vigili nei confronti nell’uso distorto di questi mezzi, a
motivo dello straordinario potere di persuasione di cui
dispongono". Insomma un vero e proprio appello a usare i nuovi e
potenti mezzi della comunicazione con discrezione e intelligenza,
ponendoli al servizio dell’uomo.
Un appello che
all’indomani del Giubileo, grande evento mediatico e forse primo vero
evento globale, nella Novo millennio ineunte lo stesso pontefice ha
ribadito, estendendo questo imperativo ad ogni cristiano.
"In effetti
– dice il papa – sono tanti nel nostro tempo i bisogni che
interpellano la sensibilità cristiana. Il nostro mondo comincia il
nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica,
culturale, tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità,
lasciando milioni e milioni di persone non solo ai margini del
progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del
minimo dovuto alla dignità umana"3.
Il riferimento è alle profonde e radicali trasformazioni che stanno
cambiando il modo di comunicare, le relazioni tra le persone,
l’economia, la diffusione del sapere ma che allo stesso tempo
aumentano il divario tra Nord e Sud del mondo.
E poi, lo stesso
ponteficie pone a se stesso e a tutti i cristiani alcune domande che
restituiscono la dimensione e l’attualità del problema, imponendolo
come imperativo per la missione ad gentes. "E’ possibile che, nel
nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? Chi resta condannato
all’analfabetismo? Chi manca delle cure mediche più elementari? Chi
non ha una casa in cui ripararsi? Lo scenario della povertà può
allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà,
che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di
risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso,
all’insidia della droga, all’abbandono nell’età avanzata o nella
malattia, all’emarginazione o alla discriminazione".
Il Ponteficie
richiama anche il primato della carità come stile della missione,
invitando però a esercitarla in forme nuove. "E’ l’ora di una
nuova fantasia della carità che si dispieghi non tanto e non solo
nell’efficacia dei soccorsi prestati – ed è qui la novità – ma
nella capacità di farsi vicini". Infine Giovanni Paolo II
riferendosi alle sfide odierne indica anche gli ambiti dove portare la
testimonianza. "La carità allora si farà servizio alla cultura,
alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto
vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino
dell’essere umano e il futuro della civiltà".
Per concludere
una provocazione. Duemila anni fa proprio alla vigilia del mandato
apostolico, dell’esortazione missionaria ad gentes, il Signore con la
Sua sapienza profetica indicava agli apostoli di portare l’Evangelo,
la Sua parola di salvezza, fino ai confini del mondo.
Don Giacomo
Alberione alle figlie di San Paolo che gli chiedevano di indicargli i
luoghi dell’evangelizzazione, riproponendo l’esortazione paolina
esortava ad estendere la missione al mondo intero: "i vostri
confini sono i confini del mondo". Se questa non è globalizzazione!
1. A. Giddens - Il mondo che
cambia, Bologna - Il Mulino, 2000. (Torna al testo)
2. Lo sviluppo è libertà
di Amartya Sen, Milano Mondadori, 2000. (Torna al testo)
3. Novo millennio ineunte,
Ed. Vaticana, Città del Vaticano Roma 2001. (Torna al
testo)
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