n. 4 aprile 2001

 

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Dove porta la globalizzazione
di Giancarlo Panico
 

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Premessa

Niente sarà più come prima! Quest’espressione tanto abusata quanto vera ci restituisce la portata di ciò che stiamo vivendo con la globalizzazione.

Prima di addentrarsi in analisi di ogni sorta sugli effetti di questo fenomeno e delle sfide che la sua diffusione sempre più capillare pone all’uomo d’oggi (e in particolare alla Chiesa e ai cristiani) c’è da chiarirsi cosa sia veramente, quando ha avuto inizio e soprattutto dove sta portando. Insomma che cos’è la globalizzazione.

C’è da dire anzitutto che essa è politica, culturale, sociale, tecnologica e ovviamente economica. E’ sbagliato pensare che la globalizzazione riguardi solo alcuni aspetti della vita. Questo processo esiste e va avanti già da un po’ di tempo; adesso se ne parla di più perché riguarda giorno dopo giorno un numero sempre crescente di persone. Stiamo acquisendo la consapevolezza che il mondo sia globale perché quotidianamente ci ritroviamo proiettati in un contesto nuovo che non è più quello dei nostri quartieri, delle nostre città o della nostra nazione, ma quello del mondo intero.

Anche se la tocchiamo con mano, la globalizzazione però è fondamentalmente qualcosa di immateriale. E ciò aiuta a comprendere perché ci sia ancora tanta confusione sul suo significato e su cosa veramente rappresenti.

E’ bene ricordare che essa ha a che fare prevalentemente con l’economia e solo più recentemente se ne parla riferendosi anche al processo di interconessione planetario, all’omogeneizzazione della cultura e alle trasformazioni geo-politiche, proprio perché ha iniziato ad assumere un carattere sovranazionale, a radicarsi nella vita quotidiana e a divenire di massa. In quest’ottica però forse più che di globalizzazione si dovrebbe parlare di modernizzazione, per usare un termine caro all’intellettuale Mario Vargas Llosa. Modernizzazione che non significa solo progresso tecnologico, dal quale questo processo dipende e continuamente attinge, ma anche e soprattutto sociale, culturale, politico.

Il cambiamento sociale più importante e determinante apportato dalla globalizzazione però è nel modo di comunicare. La comunicazione si è spostata dall’ambito spaziale, caratterizzante del secolo scorso, a quello temporale, proprio dei nostri tempi. E dal momento che essa è alla base delle relazioni e dunque della vita delle persone sta rivoluzionando le società, locali e nazionali, il modo di governarle, la produzione di beni e servizi, il movimento dei capitali.

Tutto quello che fino a qualche tempo fa richiedeva tempi e soprattutto spazi ben precisi oggi può essere fatto in tempo reale. Insomma ogni tipo di processo che coinvolge singoli o gruppi di persone richiede del tempo che oggi la globalizzazione e la velocità e la facilità della comunicazione in tempo reale stanno annullando, con le drammatiche conseguenze sotto gli occhi di tutti.

Questo scenario, tanto nuovo quanto drammatico, interpella chi è chiamato a ruoli di responsabilità ad ogni livello: politico e istituzionale, formativo ed educativo e soprattutto morale, come la Chiesa.

Già nel ’98 il Santo Padre nel Messaggio per la giornata mondiale della pace prefigurava l’avvento di una nuova era mettendo in guardia sui possibili risvolti negativi. "La globalizzazione dell’economia e della finanza è ormai una realtà e sempre più chiaramente si vanno raccogliendo gli effetti dei rapidi progressi legati alle tecnologie informatiche. Siamo alle soglie di una nuova era, che porta con sé grandi speranze ed inquietanti interrogativi".

Di fronte alla profonda e radicale trasformazione in atto è assurdo qualsiasi atteggiamento di condanna, come ogni approccio dettato da pregiudizi etici, culturali o politici. "La globalizzazione può prospettare un mondo non particolarmente attraente o raffinato ma nessuno che voglia comprendere in che direzione si muove il nuovo secolo può ignorarla" ha sentenziato nel suo ultimo libro l’economista Antony Giddens.1

La rivoluzione telematica in corso, modifica radicalmente abitudini, relazioni umane, sociali ed economiche.

Andando indietro nel tempo e ripercorrendo la storia degli ultimi cinquant’anni ci si rende conto come questo fenomeno viene da lontano. E non è nemmeno una lontananza temporale ma soprattutto culturale. Con la diffusione della Coca cola forse è cominciata quella che oggi chiamiamo globalizzazione. Poi sono arrivati i Mc Donald’s, i ristoranti cinesi, i computer e solo dopo molto tempo la Microsoft, Windows, la posta elettronica.

L’avvento di Internet e il suo rapido sviluppo ha poi dato inizio all’era globale più propriamente intesa. O magari per dirla con le parole dell’economista americano Jeremy Rifkin, l’era dell’accesso. Perché la vera globalizzazione è possibile solo per chi ha accesso materialmente alla grande rete di interconnessione mondiale (la Inter Net, appunto).

Che la globalizzazione sia irreversibile è un dato di fatto. Dunque al bando tutte le polemiche su come frenare questo processo o magari, secondo altri, arrestarlo completamente. Il problema vero è come orientarla al servizio dell’uomo, alla promozione della persona e dello sviluppo sociale.

Opporsi in qualche modo più che alla globalizzazione a quello che viene chiamato pensiero unico, il vero nemico degli stati nazionali, delle piccole comunità, della storia, della cultura e delle tradizioni dei popoli. Il rischio più grande posto dalla globalizzazione, che è all’origine della contestazione, infatti è l’omogeneizzazione della cultura, la standardizzazione degli stili di vita, del linguaggio e delle diversità in genere.

Per essere nel mondo che conta bisogna parlare la stessa lingua, consumare gli stessi alimenti, possedere gli stessi oggetti, utilizzare le stesse tecnologie, leggere gli stessi libri o giornali, e così via.

Ormai il mondo è globalizzato! Lo è già da qualche tempo. Il terzo millennio dovrà essere allora l’era del dialogo, della comunicazione autentica: tra le nazioni, tra i popoli, tra le persone.

Questa esigenza etica ricorrente è stata anche l’intuizione che ha ispirato il primo Forum sociale mondiale svoltosi a Porto Alegre in Brasile a gennaio.

 

Da Davos a Porto Alegre: il primo forum sociale mondiale

27 gennaio 2001. Quello che ai più potrebbe sembrare un giorno come tanti ha segnato invece, a mio parere, l’inizio vero dell’era della globalizzazione. In quel giorno i Signori dell’economia e della politica internazionale riuniti a Davos per il Forum Mondiale dell’Economia e i paladini dello sviluppo sostenibile radunati a Porto Alegre per il primo Forum Sociale Mondiale si sono parlati: in teleconferenza. Un particolare non da poco, che fa pensare. I rappresentanti del Nord e del Sud del mondo si sono incontrati in quello stesso spazio immateriale oggetto dei loro dibattiti.

Quest’anno al Forum mondiale dell’economia, giunto alla trentesima edizione, che ogni anno porta a Davos in Svizzera il gotha dell’economia e della politica internazionale, il popolo di Seattle (il movimento che ha preso origine dalla contestazione al vertice del Organizzazione mondiale del commercio (il WTO) nel novembre del ’99), ormai ben organizzato, ha opposto il primo Forum sociale mondiale per discutere di sviluppo sostenibile e lanciare un appello ai potenti di tutto il mondo perché si ricominci seriamente a parlare di promozione della persona.

Mentre nella cittadina svizzera da 30 anni si discute e ci si accorda sugli orientamenti della politica e del mercato, a Porto Alegre, per la prima volta, si sono date appuntamento le organizzazioni non governative (Ong), le associazioni umanitarie e ambientaliste, i centri sociali, coloro che lottano per affermare i diritti umani, perché tutti possano vivere dignitosamente, perché i ricchi non siano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Quelli che hanno a cuore il destino dei piccoli e che dunque si oppongono al liberismo spinto, al dominio del libero mercato, alla violazione sistematica dei diritti umani. Si sono incontrati per discutere e concordare una linea politica comune contro l’ascesa imperante della globalizzazione.

Nella metropoli brasiliana sono arrivati il leader francese del movimento antiglobalizzazione Josè Bovè, l’ex presidente algerino Ben Bella, il teologo Leonardo Boff, l’architetto Oscar Niemeyer, il frate dei poveri frei Beto, lo scrittore uruguayano Edoardo Galeano e anche Danielle Mitterand. Sono arrivati in migliaia da tutto il mondo per gridare ad una sola voce il no deciso al liberismo spinto.

Un altro mondo è possibile! E’ in sintesi il messaggio lanciato dal primo Forum sociale mondiale all’indirizzo dei potenti della terra perché si adoperino per riaffermare il primato dell’uomo sull’economia e sugli affari.

La scelta di Porto Alegre non è stata casuale. La metropoli sul lago Guaiba, capitale dello stato brasiliano del Rio Grande do Sul è oggi, agli occhi del mondo, la dimostrazione che è possibile far convergere l’economia di mercato e lo sviluppo sostenibile.

La città latinoamericana è considerata un esempio di trasparenza e democrazia partecipata. Ha il più basso tasso di disoccupazione del Paese e percentuali elevatissime di alfabetizzazione. Nel 97 per cento delle case c’è l’acqua corrente ed è all’avanguardia nelle politiche a sostegno della famiglia, delle minoranze etniche, delle donne e dei disabili. L’Onu l’ha classificata al primo posto per la qualità e aspettative di vita dell’intero continente desaparecido, dove regnano povertà e analfabetismo. Questa situazione è frutto di un’attenta politica di coinvolgimento dei cittadini nel governo della città operata dal fortissimo partito dei lavoratori (Pt) di Luis Inacio Lula De Silva, da 12 anni al governo della città. Il sistema, fondato sul badget partecipativo, si basa sul coinvolgimento diretto della popolazione nella gestione delle risorse economiche della città. Nei mesi precedenti la discussione e l’approvazione del bilancio i cittadini delle 16 circoscrizioni in cui è suddiviso il territorio sono convocati, attraverso assemblee aperte, a contribuire alla valutazione dei progetti realizzati e ad avanzare proposte sull’impiego delle risorse della gestione finanziaria successiva.

In entrambi i summit di Davos e Porto Alegre si è parlato della stessa cosa: degli effetti della globalizzazione. Nella metropoli brasiliana così come nella cittadina svizzera si è discusso di deregolamentazione dei mercati, dell’abolizione del debito estero, delle transazioni finanziarie speculative, di Internet e della qualità della comunicazione ma soprattutto dei rischi di questi aspetti della globalizzazione per la democrazia e per l’economia.

Globocolonizzazione è il termine che ha coniato il forum sociale per indicare la forma moderna di colonizzazione mondiale perseguita con l’imposizione di modelli economici ultraliberali e soprattutto con la globalizzazione della comunicazione, dell’economia, della politica. "Davos è il simbolo di un mondo che promuove l’individualismo, nel quale l’importanza dell’essere umano è misurata dal suo rendimento economico nell’ingranaggio del libero mercato", hanno convenuto i partecipanti al forum sociale.

A Porto Alegre i 5mila partecipanti al "controvertice", per usare il termine coniato dalla stampa brasiliana, non hanno chiesto stupidamente di fermare la globalizzazione ma di darle un senso, di umanizzarla.

Quest’anno a Davos, per la prima volta, nei dibattiti, nei convengi e nelle sessioni di lavoro non si è parlato solo di economia e politica internazionale ma anche degli effetti sulla società civile del progresso e della globalizzazione. Forse perché questo processo sta diventando incontrollabile. Magari perché nel villaggio globale non è possibile prescindere più dai suoi cittadini, orami l’unica variabile indipendente. Una riflessione che è scaturita dall’attestazione di un dato di fatto allarmante. Oggi per primeggiare nella politica e negli affari come nella vita la parola d’ordine è riuscire a rimanere sempre connessi. Praticamente o si resta in rete e dunque nel mondo che conta e si lavora per 24 ore al giorno o si è destinati ad essere tagliati fuori. "Non vi sembra una visione dei gironi infernali? ha detto il presidente della Sony America Howard Stringer. Se possiamo solo lottare per vincere o morire, quando avremo tempo per la famiglia, per la musica o un buon libro? Fermate il mondo, voglio scendere". Qualche mese fa anche il nostro giornalista e scrittore Giorgio Bocca, titolava un suo libro allo stesso modo: Voglio scendere!

"Il grande rischio della globalizzazione – ha denunciato il forum di Porto Alegre – è quello di essere solo un susseguirsi senza senso di progressi tecnologici che tutti cercano di capitalizzare per accrescere il proprio potere politico, sociale e soprattutto economico". Dimenticando che la vita delle persone non è fatta solo di affari e di lavoro ma anche e soprattutto di relazioni, cultura, tempo libero, insomma di spazi sociali veri, da abitare.

 

Il mercato non è tutto

"Sulla terra – secondo l’ultimo Rapporto sullo sviluppo umano (Undp) – ci sono 3 miliardi di esseri umani che vivono con meno di 2 dollari al giorno". Di questi un miliardo non ha accesso all’acqua potabile e un altro miliardo e mezzo è anche senza casa. Nel mercato globale conta solo la massimizzazione del profitto anche e soprattutto a costo della qualità della vita. A farne le spese, come sempre, sono i più poveri, coloro che non hanno altra esigenza che quella di sopravvivere. Quando si è cominciato a parlare di globalizzazione si diceva che essa sarebbe diventata strumento di sviluppo sociale, economico, culturale e politico anche per quei paesi che fino ad oggi erano rimasti tagliati fuori dal mondo sviluppato. E invece il divario aumenta sempre di più e a ritmi insostenibili.

L’economia capitalistica e dunque la vita di un paese sviluppato, si fonda sul mercato, sulla circolazione delle merci e dei capitali. Chi non è in grado di produrre viene tagliato fuori dal mondo. Con una novità. Nell’era telematica i mercati stanno cedendo il passo alle reti di computer, i nuovi spazi dove oggi avvengono gli scambi, e alla proprietà privata (beni e prodotti) si sta sostituendo quella intellettuale. Anche l’oggetto dello scambio sempre più frequentemente è qualcosa di immateriale. Siamo proiettati in una società in cui ciascun individuo diventa esso stesso mercato perché al centro degli scambi non c’è più qualcosa di materiale ma un servizio, un’idea, una soluzione. Il business alla velocità del pensiero, per dirla con Bill Gates, il fondatore della Microsoft, che nel marzo del ’99 nel suo ultimo libro parlava di una nuova organizzazione della società dettata dalla globalizzazione dell’economia.

L’avanzare della globalizzazione in definitiva sta originando una nuova lotta di classe tra chi è in grado di fornire servizi e chi no; tra chi ha accesso alla rete di comunicazione globale e chi no. E in questo modo sta originando anche nuove forme di povertà. L’era dell’accesso è implacabile. Insomma "oggi il pericolo proviene proprio dal fondamentalismo del mercato" come scrive il finanziere George Soros nel suo ultimo libro. Lo spostamento delle merci, i profitti derivanti dalle transazioni economiche, la crescita sproporzionata del debito estero sono solo alcuni dei fenomeni che la globalizzazione porta con se.

Lo scorso anno a Davos l’ex presidente USA Bill Clinton lanciò l’appello per l’avvento di una forte solidarietà internazionale ai paesi più deboli di fronte all’ascesa imperante della globalizzazione. "In un mondo così organizzato le nazioni più sviluppate devono comprendere che non possono costruire il loro futuro senza aiutare le altre a costruire il loro. I mercati aperti sono il migliore motore di sviluppo – l’ex capo della Casa Bianca - e una maggiore apertura al commercio internazionale assicurerà alle nazioni più povere la possibilità di condividere la prosperità che oggi è dei paesi più ricchi, perché la crescita sia veramente sostenibile servono investimenti sulle persone, sull’educazione e sulle tecnologie".

Insomma la globalizzazione non può essere a scapito dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali come continuano a ripetere instancabilmente i contestatori.

"The cost of free trade? Human Rights" è lo slogan, che campeggiava sui manifesti e sugli striscioni dei manifestanti a Seattle, a Praga, Nizza e a Davos e che accompagna ogni vertice internazionale. Non è impossibile conciliare globalizzazione e diritti umani! Anzi la magna carta universale della promozione della persona deve diventare il punto di riferimento di ogni scelta politica.

Una soluzione praticabile al dominio incontrastato dell’economia di mercato l’ha proposta il premio nobel Amartya Sen. L’economista indiano nella sua crociata per un’economia dal volto umano è riuscito a reinterpretare il problema della povertà in modo totalmente nuovo, in termini relativi di quelle che ha chiamato capabilities. Secondo lui "i poveri sono poveri non per quello che non hanno, ma per quello che non possono fare"2. Non più fronteggiare la povertà in termini assistenzialistici ma riferendosi al grado di inclusione nella vita quotidiana. Il "ben essere" – secondo Sen - dipende dalle cose che gli individui possono fare e non da quelle che hanno, dalle risorse economiche o materiali. Si badi bene però che queste ultime non possono mancare.

In quest’ottica, lo sviluppo umano, questione a cui Sen tiene molto e che ha orientato gran parte del suo lavoro, è definito come un aumento delle opportunità socio-culturali.

 

Il ruolo della Chiesa

Per i cristiani queste riflessioni esigono una presa di coscienza seria e ancor più un cambiamento di rotta deciso nell’impegno missionario. Ciò però è possibile solo riuscendo ad essere al passo coi tempi, acquisendo la capacità critica di porsi di fronte al nuovo che avanza senza pregiudizi. La formazione in quest’ottica diventa un’esigenza imprescindibile. La sfida è quella di riuscire a tradurre in un linguaggio adeguato ai nostri tempi le indicazioni del messaggio cristiano. Un impegno che deve vedere in prima linea i consacrati e i religiosi, coloro che nella chiesa sono stati chiamati ad una vita di dedizione totale, perché primi testimoni e annunciatori dell’evangelo.

Ci si gioca tutto, come cristiani e come consacrati, sulla comunicazione della fede così come indicato anche nella prima bozza degli Orientamenti pastorali per il prossimo decennio a cui sta lavorando il consiglio permanente della Cei.

Punto di partenza del viaggio intrapreso all’alba del terzo millennio dell’era cristiana, così come indicato anche dal Papa nella Incarnationis Mysterium, è il mistero dell’incarnazione. Da esso e dalla necessità di riproporre l’annuncio in un linguaggio comprensibile per i nostri tempi, scaturiscono le linee operative dell’evangelizzazione e della pastorale. In primo luogo "cercando di capire – come ha detto mons. Renato Corti, il vice presidente dell’assemblea dei vescovi – qual è il contesto in cui annunciare il Vangelo e quali sono le sfide e i compiti che ci attendono". Insomma quali sono gli spazi e le modalità della pastorale che non può essere più considerata indipendente nei suoi diversi aspetti ma unitaria e principalmente vocazionale.

Questa sfida, che richiede una verifica del cammino fatto e un rinnovamento profondo nella prassi, interpella in primo luogo le realtà ecclesiali istituzionali e in esse i pastori, i religiosi, i consacrati. La sfida non può che essere letta in chiave pedagogica.

Non c’è alternativa che puntare decisamente sull’educazione: alla diversità e al multiculturalismo. Con una metodologia: quella dell’animazione culturale. Riscoprire cioè il ruolo socio-antropologico della pastorale e proiettarlo, con un pò di audacia e di coraggio nelle realtà ecclesiali di riferimento. Un’azione pastorale che si rivolge essenzialmente alle famiglie e ai giovani, i soggetti più a rischio, quelli che maggiormente esposti alla pluralità di proposte provenienti quotidianamente dalla società globalizzata difficilmente riescono ad orientarsi.

La Chiesa non ha mancato di indicare la strada da seguire con gli Orientamenti pastorali per gli anni ’90 e soprattutto con quell’intuizione geniale che è stato il Progetto culturale. La veicolazione dei valori cristiani oggi non può che essere attuata attraverso un’attenta inculturazione i cui primi destinatari sono i giovani. Dove inculturazione significa essere in grado di offrire opportunità di confronto e di dialogo, e di crescita umana e nella fede. Riscoprendo e valorizzando il ruolo della comunità ecclesiale e in essa del piccolo gruppo di animazione. Le Parrocchie e le comunità locali diventano allora dei punti di riferimento sul territorio, in cui ogni cristiano responsabile è chiamato in prima persona a un impegno concreto nella società per riaffermare il primato dell’uomo e del suo imprescindibile bisogno di Dio. Impegno che deve manifestarsi in ogni ambito della vita umana e della società secondo i diversi carismi e che deve trovare nei consacrati, nei religiosi e nelle religiose dei punti di riferimento saldi.

Un indirizzo chiaro sul quale la Chiesa e più recentemente questo pontefice non si sono mai stancati di esprimersi attraverso un attento Magistero e una dottrina sociale sempre attuale. La globalizzazione così diventa un’opportunità nuova e la Rete e gli strumenti della comunicazione, nuovi aeropaghi, una via privilegiata per l’evangelizzazione.

Già nel ’96, nell’esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata, Papa Woityla invitava a una presenza qualificata nel mondo della comunicazione sociale. "Oggi le persone consacrate sono interpellate in modo nuovo all’esigenza di testimoniare il Vangelo attraverso i mezzi della comunicazione sociale. Tali mezzi hanno assunto una capacità di irradiazione cosmica mediante potentissime tecnologie, in grado di raggiungere ogni angolo della terra. Le persone consacrate sono tenute ad acquisire una seria conoscenza del linguaggio proprio di tali mezzi, per parlare in modo efficace di Cristo all’uomo d’oggi". Sin da allora il Papa, lungimirante sugli effetti di un uso scriteriato delle nuove tecnologie, ammoniva: "Occorre tuttavia essere vigili nei confronti nell’uso distorto di questi mezzi, a motivo dello straordinario potere di persuasione di cui dispongono". Insomma un vero e proprio appello a usare i nuovi e potenti mezzi della comunicazione con discrezione e intelligenza, ponendoli al servizio dell’uomo.

Un appello che all’indomani del Giubileo, grande evento mediatico e forse primo vero evento globale, nella Novo millennio ineunte lo stesso pontefice ha ribadito, estendendo questo imperativo ad ogni cristiano.

"In effetti – dice il papa – sono tanti nel nostro tempo i bisogni che interpellano la sensibilità cristiana. Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale, tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità, lasciando milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana"3. Il riferimento è alle profonde e radicali trasformazioni che stanno cambiando il modo di comunicare, le relazioni tra le persone, l’economia, la diffusione del sapere ma che allo stesso tempo aumentano il divario tra Nord e Sud del mondo.

E poi, lo stesso ponteficie pone a se stesso e a tutti i cristiani alcune domande che restituiscono la dimensione e l’attualità del problema, imponendolo come imperativo per la missione ad gentes. "E’ possibile che, nel nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? Chi resta condannato all’analfabetismo? Chi manca delle cure mediche più elementari? Chi non ha una casa in cui ripararsi? Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all’insidia della droga, all’abbandono nell’età avanzata o nella malattia, all’emarginazione o alla discriminazione".

Il Ponteficie richiama anche il primato della carità come stile della missione, invitando però a esercitarla in forme nuove. "E’ l’ora di una nuova fantasia della carità che si dispieghi non tanto e non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati – ed è qui la novità – ma nella capacità di farsi vicini". Infine Giovanni Paolo II riferendosi alle sfide odierne indica anche gli ambiti dove portare la testimonianza. "La carità allora si farà servizio alla cultura, alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell’essere umano e il futuro della civiltà".

Per concludere una provocazione. Duemila anni fa proprio alla vigilia del mandato apostolico, dell’esortazione missionaria ad gentes, il Signore con la Sua sapienza profetica indicava agli apostoli di portare l’Evangelo, la Sua parola di salvezza, fino ai confini del mondo.

Don Giacomo Alberione alle figlie di San Paolo che gli chiedevano di indicargli i luoghi dell’evangelizzazione, riproponendo l’esortazione paolina esortava ad estendere la missione al mondo intero: "i vostri confini sono i confini del mondo". Se questa non è globalizzazione!


1. A. Giddens - Il mondo che cambia, Bologna - Il Mulino, 2000. (Torna al testo)

2. Lo sviluppo è libertà di Amartya Sen, Milano Mondadori, 2000. (Torna al testo)

3. Novo millennio ineunte, Ed. Vaticana, Città del Vaticano Roma 2001. (Torna al testo)

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