 |
 |
 |
 |
Chi cerca nel Vangelo un testo in cui Maria sia raccordata
direttamente alla notte non ne troverà alcuno. Ma questo non equivale a
dire che Maria non abbia fatto esperienza delle valenze cronologica,
psicologica e spirituale della notte. Infatti era "notte"
quando l’angelo del Natale "si presentò ai pastori che
vegliavano facendo la guardia al loro gregge e la gloria del Signore li
avvolse di luce". Fu in quella notte che l’angelo "annunziò
la grande gioia": Maria aveva "dato alla luce il suo figlio
primogenito, lo aveva avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia"
(cf Lc 2, 7-10).
Era ancora una volta notte quando, "appena partiti i Magi",
"Giuseppe, destatosi dal sonno", obbedendo al comando
dell’angelo "prese con sé il bambino e sua madre nella notte e
fuggì in Egitto" (cf Mt 2,12-14). Altre notti, e notti lunghe e
variamente dolorose, furono vissute da Maria nel tempo del mistero
pasquale di Gesù.
Era "ormai sopraggiunta la sera della Parascève, cioè della
vigilia del sabato" (Mc 15,42; Mt 27,57), quando "Giuseppe
d’Arimatèa, [...] comprato un lenzuolo, calò (Gesù) giù dalla
croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella
roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro"
(Mc 15,43. 46) e "se ne andò" (Mt 27,60): cominciava così
per Maria la lunga notte del venerdì, quella dell’assenza di Gesù
crocifisso, morto e ormai sepolto. Luca (23,49. 56) ha annotato che
"le donne che avevano seguito (Gesù) fin dalla Galilea", dopo
aver "osservato", partecipi e dolenti insieme con Maria, gli
avvenimenti" della Passione, erano "tornate indietro"
(cioè a casa loro) e "secondo il comandamento avevano osservato il
riposo del giorno di sabato": per Maria era quella la notte del
sabato, la notte della solitudine più nera, il tempo in cui piangere
l’ultima lacrima, l’ora in cui se cede la fede crolla anche la
speranza e si apre il baratro della disperazione.
Queste notti di Maria sono molto di più di un tratto temporale della
sua vita: esse stanno sotto il segno d’una esperienza carica di
mistero e nel contempo ricca di luce. Per evitare di coartarle entro
significati restrittivi scelgo di designarle con intense espressioni
poetiche tratte dagli Inni alla notte di Novalis1 (F. von Hardenberg,
1772-1801), in cui il realismo della vita, dell’amore e della morte si
trasfigurano in sogno e visione spirituale.
"Notte di gioia, eterna poesia"
Il parto di Maria nella notte di Natale è riferito da Luca (2,7) con
la disadorna stringatezza della cronaca: Maria "diede alla luce il
suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una
mangiatoia". S. Brigida ha spinto lo sguardo al di là del velo che
ricopre queste parole evangeliche e in una delle sue visioni descrive
con squisitezza pittorica e con l’ardimento e l’intuito che sono
caratteristici dei mistici quanto ha visto: "Quando la Vergine sentì
di aver partorito, subito chinò il capo e giunse le mani al petto; poi
con grande riverenza cominciò ad adorare il Bambino dicendogli:
"Benvenuto, mio Dio, mio Signore, mio Figlio". Ma il Bambino
piangeva e tremava per il freddo e per la durezza del suolo sul quale
giaceva, stendeva le braccia e le gambe e si muoveva in cerca di tepore
e dell’affetto della Madre. Ella allora lo prese tra le sue mani, lo
strinse al suo petto e, accostando la sua guancia a quella del bambino,
con il seno lo riscaldava con grande gioia e amorevole tenerezza
materna"2.
I tratti narrativi della nascita di Gesù disegnano un’icona di
Maria come Madre gioiosa e dolcissima e invitano a immaginare quali
pensieri abbiano potuto affollare in quella notte di luce la mente di
Maria e per quali memorie abbia potuto esultare il suo cuore. L’angelo
del Natale aveva invitato alla festa "annunciando ai pastori una
grande gioia" (v. 10); anche Maria era stata invitata alla gioia
dall’angelo che, nell’Annunciazione, le aveva detto:
"ave", cioè, secondo il greco (kaíre), "gioisci".
Questo invito alla gioia aveva rallegrato ma anche un poco
"turbato" la Vergine di Nazaret (Lc 1,28. 29) perché ella si
rendeva conto che adesso veniva rivolto personalmente a lei l’invito
alla gioia che i profeti avevano rivolto all’antica "figlia di
Sion" invitandola a gioire perché Dio era finalmente venuto
"in mezzo" al suo popolo e vi si sarebbe dato a conoscere come
"salvatore potente" (Sof 3,14. 17; Zc 2,14). Si compiva dunque
la venuta di Dio e prendeva inizio l’opera del Salvatore e questo
avveniva proprio mediante il bimbo che Maria aveva appena partorito.
L’angelo del Natale lo aveva dichiarato a tutte lettere ai pastori:
"Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il
Cristo Signore" (v. 11).
Poesia delle cose, certo, nella notte di Natale, e anche gioia per
Maria e per i pastori e "grande gioia per tutto il popolo",
assicura l’angelo (v. 10). Poesia e gioia intrecciano una corona di
luce attorno alla verità del Natale. Per molti secoli i profeti avevano
rivolto messaggi di conforto ai "poveri del Signore", a coloro
che sulla terra non potevano far conto né sulla ricchezza né sulla
cultura né su un qualche potere, ma speravano soltanto in Dio e
attendevano da lui la liberazione dalla loro umiliazione: erano gli
‘anâwîm. Maria, "la serva del Signore" (Lc 1,38. 48), era
del loro numero, anzi, "ella primeggia tra gli umili e i poveri del
Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la
salvezza"3.
La notte del Natale è per Maria notte di gioia perché il bimbo da
lei partorito è "il salvatore" di lei e degli altri umili e
poveri del Signore come lei. Gioisce perché lei e ognuno che crede come
lei può constatare che nel Figlio nato da Maria viene premiata
l’attesa e coronata la speranza degli umili e dei poveri del Signore.
E anche la speranza si adorna di luce perché vede aprirlesi nuovi
orizzonti: nel tempo futuro ognuno che saprà essere umile e povero del
Signore potrà vivere l’attesa della liberazione e della salvezza non
più soltanto nella fiducia e nella speranza ma nella certezza di essere
liberato e salvato: "oggi è nato un salvatore, che è il Cristo
Signore".
"Arcana notte in plaghe remote"
Erano appena partiti i Magi che con i loro doni avevano forse
alleviato la povertà della famiglia di Nazaret, ma che avevano
dichiarato la verità del Figlio di Maria riconoscendone la divinità
con l’offerta dell’incenso, la regalità con quella dell’oro,
l’umanità con quella della mirra. Ma tanta e tanto grande luce della
verità venne subito offuscata quando, al fine di sottrarsi alla
"furia" infanticida del re Erode il quale "stava cercando
il bambino (Gesù) per ucciderlo", Giuseppe "prese con sé il
bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto" (Mt 2,16. 11.
13-14).
È questa un’altra delle notti vissute da Maria, notte di segno
completamente opposto a quella di Natale. L’oscurità inquadra adesso
una famigliola in preda al panico e in fuga precipitosa in direzione di
una terra sconosciuta, verso un paese ostile, lungo le carovaniere
volatili e insidiose del deserto. Sarebbe facile, a questo punto,
abbandonarsi alla ricostruzione psicologica del dolore di Maria e forse
anche raffigurarsi le sue perplessità circa la veracità del messaggio
dell’angelo del Natale e il riconoscimento dei Magi a riguardo di Gesù.
Di fatto, fu facile all’autore del Vangelo dello pseudo Matteo4
fantasticare su accadimenti che si sarebbero compiuti durante il viaggio
verso l’Egitto; tra essi quelli degli idoli che crollavano
ridicolmente a terra all’arrivo del bambino Gesù, come Dagon, dio dei
Filistei, all’arrivo dell’arca dell’alleanza (cf 1Sam 5,2-4), e il
prodigio con cui Gesù soddisfece il desiderio della madre di mangiare
datteri comandando ad una palma: "Piega i tuoi rami e ristora la
mia mamma con i tuoi frutti". E subito la palma piegò la sua
chioma fino ai piedi della beata Maria".
Ma la verità non sta in fatti come questi. Quell’"arcana
notte" condusse Maria a rivivere nella propria esistenza
un’esperienza che era stata del suo popolo. Attento, come sempre è, a
Gesù e al suo mistero, il Vangelo narra la fuga in Egitto vedendo il
dramma accentrato su Gesù: è lui il perseguitato a morte, è lui il
fuggiasco, è lui l’esule. Gesù è tutto questo, ma essendo ancora
bambino egli lo vive insieme a sua madre e assume la madre nella sua
stessa sorte. E dunque Maria è la madre in fuga nella notte,
anch’ella esule insieme con il figlio per salvare il figlio costretto
all’esilio per sottrarsi alla morte. In questa condizione Maria
rivive, insieme con Gesù e a somiglianza di lui, l’esperienza vissuta
nel tempo antico dal suo popolo.
Dal confronto dei testi risulta che l’evangelista Matteo ha
improntato il racconto della fuga di Gesù in Egitto su narrazioni
anticotestamentarie che alcuni esegeti riconoscono in Giacobbe (Gen
46,2-5) che scese in Egitto per sfuggire alla carestia che infieriva
nella Palestina (Gen 41,57), altri in Giacobbe in fuga inseguito
minacciosamente sulle montagne dal suocero Labano (Gen 31,1-42). Ma
molteplici dettagli fanno intendere che il riferimento più
significativo è quello che si richiama alla storia del popolo
d’Israele in Egitto.
Il raccordo è stabilito esplicitamente da Matteo (v. 15), il quale
cita il profeta Osea (11,1): "Dall’Egitto ho chiamato il mio
figlio". Sorprende che Matteo motivi l’andata e la presenza di
Gesù in Egitto utilizzando questo testo che annuncia invece l’uscita
d’Israele dall’Egitto. Osea scrive così perché, nella sua ottica,
la storia del popolo di Dio comincia appunto con l’esodo
dall’Egitto.
Matteo intreccia e sovrappone la prospettiva antica e quella attuale
per far sì che eventi e testi esprimano un messaggio che è presente in
essi e che nel contempo li trascende. Nel "figlio"
l’evangelista raffigura congiuntamente Israele e Gesù e richiama un
tratto della loro storia in cui si giocano la loro vita e il loro
futuro. Matteo vede Gesù entrare in Egitto povero e fuggiasco così
come Giacobbe e la sua famiglia vi erano entrati bisognosi del cibo che
li salvasse dalla morte per fame (Gen 42,1ss; 46,1ss); e come il popolo
d’Israele era uscito dall’Egitto libero e salvato, così Gesù dopo
un breve soggiorno ne uscì salvato perché "perché erano morti
coloro che insidiavano la vita del bambino" e – libero da Erode
come Israele dal faraone – "entrò nel paese d’Israele" (Mt
2,20. 21).
"In tal modo Matteo presenta Gesù che rivive la storia di
servitù e di liberazione dalla servitù nota al suo popolo nei tempi
passati. [...] Significativamente, quindi, Matteo colloca il testo del
profeta Osea che annuncia l’esodo dall’Egitto come articolazione che
separa/unisce entrata ed uscita: l’entrata di Gesù in Egitto è
profezia dell’esodo dall’Egitto. I due eventi non possono essere
dissociati: secondo la visione evangelica non c’è schiavitù che non
trovi in Gesù liberazione"5.
Gesù aveva appena cominciato a vivere che Maria si vide coinvolta in
una vicenda spirituale di proporzioni immense. Certo è grande il dolore
per quella fuga, per quel viaggio, per l’oscurità dell’avvenire suo
e del suo Figlio, ma grande è soprattutto il dramma che quella fuga
rammemora, ripete e attualizza. In quella notte veramente
"arcana" si ripresentano le infinite fughe nella notte, le
famiglie in esilio, il cammino senza approdo del forestiero, la
desolazione di chi non ha un luogo di riparo, l’abbandono della
propria casa, lo squallore di chi è fuggito in fretta carico soltanto
del proprio niente. E in tutto e sopra tutto la paura perché sulle
strade, nella notte ma anche nel giorno, c’è sempre qualcuno che
vuole uccidere, sia egli un potente assiso sul trono o un malvagio dal
volto mascherato.
Dall’oscurità della notte della fuga si staglia l’icona di Maria,
donna esule, sposa intrepida, madre alla ricerca d’un luogo di pace
ove abitare con il suo Figlio. E nella nostra notte Maria si ripresenta
ancora esule e in fuga in ogni madre che con il figlio in braccio cerca
salvezza varcando clandestinamente le frontiere o avventurandosi
disperatamente sulle vie dei mari.
"A nessuna tomba, di dolore piange chi crede amando"
Tra tutte le notti vissute da Maria quella che intercorre tra il
venerdì e il sabato fu certamente la più lunga. Dal punto di vista del
racconto evangelico essa cominciò a "mezzogiorno, quando si fece
buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio", l’ora
della morte di Gesù.
A partire da questo momento il Vangelo si esprime come se tutto si
svolgesse in una oscurità che è notte, e notte resa ancora più buia
dagli eventi che vi si svolgono. "Sopraggiunta la sera, cioè la
vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa andò coraggiosamente da
Pilato per chiedere il corpo di Gesù". Pilato concesse la salma a
Giuseppe. Questi, "comprato un lenzuolo, calò giù dalla croce Gesù
e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella
roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro"
(Mc 15,33. 42-44. 46).
Con la sepoltura di Gesù alla notte di Maria, che era cominciata in
pieno mezzogiorno, si aggiunge adesso un’oscurità che è ben più
spaventevole dell’assenza della luce del sole.
Poiché il Vangelo tace su questa notte di Maria, ci troviamo
nell’oscurità anche noi che pur vorremmo entrare pensosi e
condividenti nell’animo della madre di Gesù. Per accedere alla
comprensione e alla condivisione dello stato d’animo di Maria nella
notte del venerdì abbiamo a disposizione due vie: possiamo ricordare lo
smarrimento di cui abbiamo fatto esperienza quando abbiamo sentito che
la persona amata che moriva portava con sé nella tomba una parte di noi
stessi; oppure possiamo far ricorso ad alcuni testi dell’antichità
cristiana e della preghiera liturgica e cristiana, che hanno fissato
un’esperienza credente e più universale.
È a questi che affidiamo la nostra riflessione.
Nella sua Vita di Maria il teologo e mistico della Chiesa greca del
VII sec. Massimo il Confessore ricostruisce con fantasiosa coerenza gli
avvenimenti che seguirono alla sepoltura di Gesù6. Egli propone
anzitutto un tratto taciuto dal racconto evangelico ma di cui
Michelangelo ha genialmente intuito la grandezza scolpendo nel marmo
della sua "Pietà" l’umanissima verità di Maria, madre
amorevolissima, coraggiosa e forte: "Quando Giuseppe di Arimatea
ebbe staccato dalla croce il suo Re e Figlio, Maria accolse tra le sue
braccia colui che era stato deposto e abbracciò con tenerezza le membra
ferite". Poi Massimo ricorda che le donne che avevano assistito
"guardando da lontano" (Mt 27,55) alla tragedia del Golgota,
"quando i capi dei sacerdoti e gli scribi si recarono al sepolcro
di Gesù con le guardie e condussero uomini della coorte per custodirlo
e verificarono la tomba e sigillarono la pietra, allora, prese dalla
paura, anche queste donne fuggirono", come in precedenza erano
fuggiti gli apostoli, fatta eccezione per Giovanni, il discepolo che
amava Gesù ed era amato da Gesù (Gv 19,26). E Giuseppe di Arimatea e
Nicodemo (Gv 19, 38-39), dopo aver provveduto a profumare e ad avvolgere
nella sindone il cadavere di Gesù, a deporlo nel sepolcro (Mt
27,59-60), così offrendo al loro Maestro un ultimo tributo di
devozione, anch’essi, al pari delle donne, avevano lasciato il
sepolcro.
A questo punto Massimo scrive un’espressione che forse non
corrisponde alla fattualità storica ma i cui tratti incidono con
l’essenzialità e la nitidezza d’una xilografia l’icona di Maria
come donna inarrendevole nell’amore, coraggiosa nella fede, intrepida
nella speranza: "La santa immacolata madre del Signore invece
rimase là, presso il sepolcro, sola; guardava attentamente con gli
occhi vigili dell’anima e del corpo; prostrandosi in ginocchio,
pregava senza interruzione e senza posa": "rimase là",
"guardava con gli occhi dell’anima", "pregava".
Tre verbi bastano per dipingere l’icona della Madonna Addolorata e di
ogni madre nel dolore.
Secondo la sua spiritualità sempre ricca di afflato mistico. la
liturgia della Chiesa di lingua greca immagina poeticamente la preghiera
della Vergine Addolorata, la donna del dolore, in questa interminabile
notte di solitudine, e la propone così: "L’Agnella, vedendo
morto il suo Agnello, oppressa dal dolore gemeva, commuovendo tutto il
gregge a gridare con lei: Anche se sei sepolto in una tomba, sei tu
colui che ha svuotato le tombe. Disceso volontariamente sotto terra, o
Salvatore, hai ridato la vita agli uomini morti e li hai riportati nella
gloria del Padre. O Luce del mondo, luce mia, Gesù mio dilettissimo! O
Dio e Verbo! Mia gioia! Come potrò sopportare la tua sepoltura di tre
giorni? Ora le mie viscere di madre sono dilaniate". La preghiera
di Maria non si dilunga più di tanto in lamentazioni, ma subito si apre
alla speranza: "Quando ti vedrò, o Salvatore, Luce senza
principio, gioia e delizia del mio cuore?".
La speranza si tramuta rapidamente in invocazione credente:
"Risorgi, o Misericordioso. Risorgi, tu che doni la vita, dice la
Madre che ti ha generato"7. Speranza e fede si trasfigurano in
certezza, come dice questa invocazione che s. Massimo presta alla
Vergine: "Io so con certezza che tu risorgerai, e che avrai pietà
prima di tutto di tua Madre e poi di questa Sion e di Gerusalemme che ha
tanto peccato: ivi chiamerai a raccolta tutti i pagani ed edificherai il
tempio vivo della Chiesa dei pagani. Felice il giorno, quando mi farai
sentire di nuovo la tua dolce voce, quando rivedrò il tuo volto
divinamente bello e sarò ricolma della tua grazia desiderata. Beato il
momento quando ti contemplerò manifestamente come Dio vero e Signore
dei vivi e dei morti".
Il dolore di Maria è grande, ma più grande è la sua fede e del
tutto conforme al mistero cristiano, secondo il quale non c’è dolore
che non venga da Dio tramutato in gioia, non c’è morte che non venga
trasformata in vita, perché il giorno che dura in eterno non è il
venerdì della Passione, ma la domenica della Risurrezione.
Questa notte vissuta dalla Vergine esperta della solitudine e del
dolore insegna al cristiano pregare così: "Santa Maria, Vergine
della notte, noi t’imploriamo di starci vicino quando incombe il
dolore e irrompe la prova e sovrastano la nostra esistenza il freddo
delle delusioni e l’ala severa della morte. Santa Maria, liberaci dal
brivido delle tenebre. Tu che, nell’ora del Calvario, hai sperimentato
l’eclissi del sole, stendi il tuo manto su di noi, perché ci sia più
sopportabile la lunga attesa della libertà.
"Alleggerisci con carezze di madre la sofferenza dei malati.
Riempi di presenze amiche e discrete il tempo vuoto di chi è solo.
Rivolgi gli occhi tuoi misericordiosi a chi ha perso la fiducia nella
vita. Santa Maria, donna del dolore, non lasciarci soli nella notte a
gemere sulle nostre paure. Se, nei momenti di oscurità, sarai vicina a
noi e ci sussurrerai che anche tu, Vergine della speranza, hai atteso lo
spuntare della luce, le sorgenti del pianto si disseccheranno sul nostro
volto. E sveglieremo insieme con te l’aurora"8.
Maria, Vergine della notte, Madre dal cuore trafitto, Donna della
speranza.
"Tacito nunzio di misteri infiniti"
Il racconto evangelico della Passione è drammatico sotto molti
aspetti, oltre quello, tragico, che riguarda Gesù. Due verbi fissano la
situazione determinatasi con l’arresto di Gesù durante la notte del
giovedì nel Getsemani: "Tutti abbandonarono (Gesù) e
fuggirono" (Mc 14,50). Di questi fuggiaschi tre ricompaiono sulla
scena evangelica ove personificano gli atteggiamenti spirituali
possibili di fronte al fallimento di Gesù in questo momento. Giuda,
"sballottato dalla notte come un barile dalle onde", vive
"una notte senza stelle, profonda e tumultuosa come l’alto
mare"9 e, cedendo alla disperazione, va ad "impiccarsi" (Mt
27,3-10; At 1,18-19): egli e l’emblema della disperazione.
Pietro ricompare sulla scena evangelica con una fisionomia in cui si
mescolano le maggiori contraddizioni: è il discepolo fedele che segue
Gesù nella notte dell’abbandono da parte di tutti gli altri apostoli
e nel luogo della condanna; è il discepolo che dopo tanto coraggio
proprio allora e lì diventa rinnegatore del suo Maestro e persino
spergiuro; è il discepolo subito si pente, si ravvede e ritorna fedele
(Mc 14,53-54. 66-71; Gv 21,15-19).
Il Vangelo non dice che cosa sia stato di Giovanni mentre si
svolgevano queste vicende: egli compare sul Calvario, presso la croce,
insieme ad alcune poche donne fedelissime e alla Madre di Gesù. È a
Maria e a Giovanni che, sul punto di morire, il Crocifisso affida un
testamento in cui sono racchiuse le molte cose significate
dall’affidamento del discepolo alla madre e della madre al discepolo
ed espresse figurativamente nell’espressione: "E da quel momento
il discepolo la prese nella sua casa" (Gv 19,27).
Gli esegeti hanno stretto entro un amorevole assedio questa
espressione greca (eis tà ídia) intuendo che la sua oscurità è
causata non da mancanza ma da eccesso di senso: è ovvio infatti che
essa significa molto di più del solo abitare di Maria "nella
casa" di Giovanni a Gerusalemme (o a Efeso, secondo un’antica
tradizione). Pur nella sua elementarità, questo riferimento ci serve
comunque quale punto di partenza per considerare l’animo di Maria
nella notte tra il Sabato di Gesù nella tomba e la Domenica della sua
risurrezione.
Se quella del Venerdì era stata la notte del dolore e del trauma
perché la morte aveva spezzato la vita, quella del Sabato fu la notte
dello sconcerto perché in essa la fede nella risurrezione era messa
alla prova del tempo, del protrarsi della scadenza, dell’attesa d’un
compiersi che sembrava impossibile. Fu tempo di fede, ma anche di
tentazione della fede; fu tempo di speranza, ma anche di tentazione
della speranza. In quella notte fu necessario un amore indefettibile e
incrollabile, perché la fede crolla e la speranza si spegne se viene a
mancare l’amore.
La lettera pastorale per l’anno corrente è stata dedicata dal
vescovo di Milano a La Madonna del Sabato santo10. In essa il card. C.
M. Martini immagina di introdursi con grande discrezione nella
"casa" di Giovanni e di mettersi a dialogare con Maria. Poiché
il Vangelo cela nel più assoluto silenzio la permanenza di Maria in
quella casa, ciò che ci può aiutare a scostare un poco questo velo è
il parallelo con la presenza di Maria in un’altra casa – quella di
Nazaret – ove aveva avuto luogo l’Annunciazione e nella quale la
Vergine era stata presente da protagonista.
L’Annunciazione segna il sopraggiungere del compiersi delle
promesse: di quella biblicamente chiarissima legata alla nascita di un
discendente di Davide, erede del suo trono e del suo regno (Lc 1,32; 2
Sam 7,1ss); di quella biblicamente oscura riguardante il "resto
d’Israele" composto da quei credenti poveri e umili – gli ‘anâwîm
– al cui numero Maria mostra di appartenere quando "magnifica il
Signore" ed "esulta" perché "Dio ha guardato
all’umiltà della sua serva" (Lc 1,46-48)11; di quella
biblicamente oscurissima per Maria (e per noi) benché esplicita nelle
parole dell’angelo: "Colui che nascerà sarà Santo e chiamato
Figlio di Dio" (Lc 1,35). Maria viene così a trovarsi in una
situazione in cui tutto è chiaro a livello di Parola di Dio, ma tutto
è oscuro alle esigenze della razionalità, incompiuto nel tempo,
rimandato ancora al futuro pur avendo già attraversato secoli di
storia.
Pensieri come questi devono aver attraversato l’animo di Maria in
quella notte del Sabato: le era ben chiara sia la previsione di Gesù
– "Il Figlio dell’uomo sarà schernito, oltraggiato, flagellato
e ucciso" – sia la sua promessa – "Il terzo giorno
risorgerà" (Lc 18,31-33) –, e tuttavia in quella notte la sua
razionalità poteva costatare che l’unica verità compiuta nei fatti e
nel tempo era quella della morte. La risurrezione di Gesù? Sì, Maria
credeva che sarebbe avvenuta, ma "il terzo giorno" quando
sarebbe arrivato? quale sarebbe stato?
Nell’Annunciazione Maria aveva potuto chiedere all’angelo di
spiegare alla sua razionalità come sarebbe potuta diventare possibile
l’impossibile maternità che egli le aveva proposto. E ne aveva
ottenuto la spiegazione (Lc 1,34-35); e anche se questa aveva abbagliato
la sua razionalità con la luce del mistero, tuttavia aveva acceso la
sua fede, come aveva riconosciuto Elisabetta: "Beata colei che ha
creduto nell’adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45).
Nella notte del Sabato, invece, ci sono per Maria soltanto
interrogativi; interrogativi che ella deve vivere nella più totale
solitudine; interrogativi che non trovano risposta perché non c’è
Gabriele a rispondervi; interrogativi ai quali poteva dare risposta
soltanto la fede. Notte della fede da vivere entro una notte di fede.
Inoltre, Maria vive la notte del Sabato nell’accettazione di una
solitudine inconsolabile, nel silenzio di qualsiasi parola
illuminatrice, nell’oscurità di una spiegazione che non viene, nella
resa al mistero di Dio. Se questa non è fede…
Già la tradizione monastica medievale aveva dato rilievo al fatto
che nel Sabato in cui Gesù fu nella tomba Maria si conservò più di
tutti salda nella fede. Questo Sabato fu riempito dalla fede di Maria;
è lei a tenere accesa la fiamma della fede: è come se la fede della
Chiesa si fosse raccolta in lei12. È questa una delle ragioni
teologiche che hanno indotto la dedicazione del sabato alla memoria di
Maria13. A buon diritto la preghiera cristiana canta la fede che Maria
ha vissuto in ogni tempo e soprattutto nella notte del Sabato: "Hai
creduto al tuo Figlio: /quando cresceva come uno di noi, /quando parlava
l’eterna parola, /quando moriva tradito su un legno. – Hai creduto
alla Pasqua: /dopo la croce risplende la luce, /che ti fa madre di tutti
per sempre, /china sui passi di ogni tuo figlio"14.
Anche l’Annunciazione aveva segnato per Maria l’inizio del tempo
dell’attesa, un’attesa che si prolungò fino a quando, a Betlemme
"si compirono per lei i giorni del parto" (Lc 2,6). Da allora
Maria visse un cammino che la rese esperta dell’attendere: per
trent’anni aveva atteso a Nazaret che Gesù desse inizio alla sua
missione; poi per tre anni aveva atteso che venisse riconosciuto se non
come Figlio di Dio, almeno come Messia d’Israele; durante tutti i
giorni della Passione aveva atteso che venisse riconosciuta
l’innocenza del suo Figlio; sul Calvario per tre ore (Mc 15,33) aveva
atteso che morte mettesse fine alle sofferenze del Figlio crocifisso e
al suo strazio di madre. E anche quando tutto era giunto a compimento,
come ella aveva udito dire dal Figlio morente (Gv 19,30), in questa
notte di Sabato bisogna attendere ancora15.
E questo è un tempo di attesa diverso da quelli vissuti da lei in
precedenza: davanti a quelle attese si profilava l’orizzonte della
fine, fosse pure quello della morte. Adesso, invece, c’era soltanto da
attendere: attendere confidando nella promessa di Gesù, attendere
l’aurora del misterioso "terzo giorno", attendere l’alba
della vittoria della vita sulla morte. Per quanto avvolto nell’oscurità,
questo è tuttavia il vero volto dell’attesa: quello dell’attesa che
confida nella promessa divina, che si radica nel mistero della Pasqua,
che crede alla vittoria della vita, che spera nella ripresa della vita.
Chi aspetta senza sperare così crede di aspettare, ma in realtà non
aspetta proprio niente16.
Soltanto chi ha speranza vive in attesa, perché la speranza è la
vita dell’attesa. La "speranza viva" (1Pt 1,3) mantiene viva
l’attesa, la quale è capace di credere alla vita sempre, perfino,
come Abramo, "contro ogni speranza" (cf Rm 4, 18).
A raffigurarci l’attesa vissuta da Maria nella notte del Sabato ci
aiuta l’esperienza del sacerdote e poeta Clemente Rebora, da lui
espressa nella celebre lirica (del 1920) Dall’immagine tesa17, nella
quale il vuoto dell’attesa e il dolore per l’assenza vengono
trasfigurati dalla fede e dalla speranza in gioiosa percezione
dell’approssimarsi dell’Assente: "Vigilo l’istante con
imminenza di attesa – e non aspetto nessuno. [...] Non aspetto
nessuno: ma deve venire, verrà, se resisto, a sbocciare non visto, verrà
d’improvviso, quando meno l’avverto; verrà quasi perdono di quanto
fa morire, [...] verrà, forse già viene il suo bisbiglio".
Anche la preghiera cristiana contempla l’attesa di Maria: "Tu
attendi vigile che dal buio scaturisca la Luce, dalla terra germogli la
Vita. Attendi l’alba del giorno senza tramonto, l’ora del parto
dell’umanità nuova. Attendi di vedere nel Figlio risorto il volto
nuovo dell’uomo redento, di udire il nuovo saluto di pace, di cantare
il nuovo canto di gloria"18.
Maria, donna dell’attesa, vergine della speranza, madre sempre
sulla soglia ad additare il nuovo nascere del giorno.
È vero che nell’Annunciazione Maria era rimasta
"turbata" (Lc 1,29) e tuttavia, pur permanendo la sorpresa e
lo sconcerto, era prevalsa su tutto la gioia, come attestato da quel
"fiat", da quell’"avvenga di me", che secondo il
greco (ghenóito) vale accoglienza gioiosa, addirittura festosa del
messaggio recato dall’angelo a Maria. Invece in questa notte di Sabato
non echeggia alcuna gioia; se non c’è l’angelo
dell’Annunciazione, potesse esserci almeno quello che nel Getsemani
aveva confortato Gesù (Lc 22,42): invece niente, nessuno.
Dove Maria ha potuto attingere il coraggio di restare presente quando
tutti erano fuggiti? Dove Maria ha attinto la forza di continuare a
sperare quando non c’erano orizzonti per la speranza? Inoltre, come
noi anche Maria dovette interrogarsi sul senso e sul valore di tutto
quel silenzio, di tutta quella solitudine, di tutto quel soffrire nel
silenzio e nella solitudine.
La risposta che Maria dovette darsi è anche la spiegazione che ella
dà a noi. Nei giorni della Pasqua più che in ogni altro tempo "si
è manifestato l’amore di Dio per noi" (1Gv 4,9): il Padre non ha
risparmiato il suo Figlio ma lo ha dato per tutti noi (cf Rm 8,32);
"il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal
2,20). Nella notte del Sabato l’amore di Maria ha raggiunto il vertice
della purificazione, dell’essenzialità, della trasparenza perché in
questo momento il suo amore aveva per fondamento soltanto la fede e per
orizzonte soltanto la speranza.
Nella notte del Sabato, sulla soglia del compirsi del triduo
pasquale, Maria vive per intero la triade della santità cristiana: la
fede, la speranza e la carità, e la vive secondo la scansione
ascensionale insegnata da s. Paolo: "Queste le tre cose che
rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è
la carità" (1Cor 13,13). "Nel suo Sabato santo" la verità
di Maria ci si offre anche nell’ampiezza della sua esemplarità: oggi
Maria è "l’icona della Chiesa dell’amore, sostenuta dalla fede
più forte della morte e viva nella carità che supera ogni
abbandono" e insegna ad "amare anche nella notte della fede e
della speranza"19.
Maria, Madre dal dolore immenso e dall’infinita pace, Donna del
terzo giorno, Vergine dell’alba dell’eterna Pasqua.
|