n. 6
giugno 2004

 

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Conoscere e accettare se stessi
di Anna Bissi *

 

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La necessità di conoscersi e accettarsi è sempre stata evidenziata dai filosofi e dagli autori spirituali; la persona umana, per essere veramente se stessa, deve autopossedersi, sapere chi è e accogliere ciò che è. Per precisare in che cosa consistano e quali siano le conseguenze della conoscenza e dell’accoglienza di sé, nel concreto del vissuto personale, è indispensabile descrivere i diversi significati attribuiti, spesso inconsciamente, a queste due attività della psiche. All’interno della cultura in cui siamo inseriti è, infatti, possibile individuare due modi diversi di concepire il conoscersi e l’accettarsi: un modo che potremmo definire autoreferenziale e un altro che chiameremo teocentrico.


La conoscenza autoreferenziale

Tale tipo di conoscenza, come indica il termine stesso, pone l’Io al centro quale punto di riferimento per comprendere e valutare se stessi. L’approccio, di conseguenza, è puramente soggettivo e i criteri di giudizio sono del tutto personali: solo l’individuo, si afferma, può conoscere le profondità del proprio mondo interiore, solo lui può comprendersi e capire chi è; lui solo deve impegnarsi ad accettare se stesso ed accogliersi quale egli è e, nello stesso tempo, cercare di sviluppare le potenzialità di cui è dotato.
Questa forma di conoscenza possiede alcune caratteristiche particolari: essa, innanzi tutto, non fa riferimento ad alcun modello esterno. Non esiste un ideale con cui confrontarsi, una prospettiva verso cui tendere, ma l’unico criterio con cui la persona si osserva si basa sul modo in cui attualmente si valuta e su ciò che vuole diventare. Di conseguenza, la finalità di tale autoconoscenza non è la trasformazione interiore, la conversione del cuore, ma il benessere personale, un desiderio di stare meglio nella propria pelle che, ancora una volta, pone l’Io al centro. La conoscenza di se stessi è, dunque, considerata come un passaggio obbligato per raggiungere quel benessere che è la naturale conseguenza dell’autoguarigione, dell’autoaffermazione e autorealizzazione. Il fatto che tali mete inizino tutte e tre con il termine auto non è, ovviamente, casuale.
La conoscenza di sé mira così a individuare le proprie ferite per curarle e guarirle, affinché la persona sia protetta dall’incontro con la sofferenza. La parte dell’Io considerata adulta, di conseguenza, è invitata a riconoscere le proprie difficoltà, a rintracciare le amarezze e i turbamenti del passato per curare il bambino che, interiormente, ancora soffre.
La conoscenza è, inoltre, orientata all’autoaffermazione nei confronti degli altri: è importante diventare consapevoli delle proprie vulnerabilità per impedire che ci “mettano i piedi in testa”; è essenziale rendersi conto del vissuto emotivo per meglio gestirlo e non lasciarsi travolgere dall’aggressività e dalla paura, ma imparare invece a difendere e affermare se stessi in modo corretto.
L’ultima, e forse più eloquente, finalità della conoscenza personale è la realizzazione di sé, l’attuazione delle proprie potenzialità. In questo caso lo sguardo si sofferma sulle doti e qualità personali, soprattutto se si ha l’impressione che esse non siano adeguatamente valorizzate; riconoscerle significa allora metterle in luce, farle risaltare, magari nascondendo e accantonando i difetti, le debolezze e tutti quegli aspetti della personalità che costituiscono dei limiti e possono essere di peso agli altri.


Accoglienza di sé e autoreferenzialità

L’accettazione di sé, nell’approccio di tipo autoreferenziale, implica un modo particolare di considerare il proprio limite, quella debolezza che, attraverso la conoscenza personale, abbiamo scoperto dentro di noi e che ora vogliamo accogliere. La tendenza a porre l’Io come criterio di riferimento comporta spesso una maggiore sottolineatura della necessità di essere accettati rispetto all’impegno a cambiare; altre volte, invece, induce a osservare le proprie debolezze come degli aspetti di sé inammissibili, che si desidera eliminare perché ostacolo alla realizzazione personale. Di conseguenza tale conoscenza di sé orienta verso un’accoglienza che spesso si concentra sulle proprie ferite, per consolarsi o rivendicare il diritto di essere come si è; raramente, invece, educa ad unire accettazione e riconoscimento del proprio valore con l’impegno a cambiare, per migliorare e diventare più capaci di accogliere gli altri.
Questa forma di autoaccettazione presenta degli aspetti positivi: è, infatti, importante sapersi feriti, riconoscere e accettare le proprie vulnerabilità; ciò aiuta a riscoprire le radici di tanti comportamenti attuali le cui origini sono nel passato e che tendiamo a perpetuare nel presente, poiché ci sfuggono le motivazioni profonde da cui sono provocati. Tale accoglienza rischia, però, di essere finalizzata a se stessa e di favorire alcuni atteggiamenti “pericolosi”, che spesso troviamo presenti nella vita consacrata: in primo luogo il vittimismo, tipico della persona che, mentre guarda a se stessa, prende in considerazione soprattutto le “occasioni mancate”, le opportunità non concesse, le ferite ingiustamente inflitte dagli altri. Altre volte essa si esprime sotto forma di rivendicazione, che nasce da una lettura di se stessi tendente a mettere in risalto le qualità e a ignorare i limiti; così, la realtà di ciò che si è viene distorta, attraverso un processo di ingrandimento dell’Io e di negazione delle vulnerabilità personali, e dà luogo a una sorta di lotta contro possibili ingiustizie subite e di pretesa, al fine di ottenere ciò di cui si ritiene aver diritto.

La conoscenza e accoglienza di sé, basate sul principio dell’autoreferenzialità, rischiano così di aiutare la persona in modo limitato e limitante: esse tendono, infatti, a concentrare l’individuo su se stesso, poiché guarire, affermarsi e realizzarsi sono le parole chiave che orientano il processo di autoconoscenza. Poco spazio viene lasciato all’incontro con l’altro, al dinamismo del dono e del superamento di sé. Il presupposto di fondo di tale conoscenza è, infatti, la bontà intrinseca dell’essere umano, da cui, ovviamente, deriva l’importanza attribuita al rispetto dei diritti personali e al riconoscimento del proprio valore.


La conoscenza teocentrica

Con questo termine ci riferiamo a un modo di guardare, conoscere e accettare se stessi che non pone al centro il soggetto, come avveniva invece nel caso precedente, ma ha come riferimento un criterio esterno, che lo supera e nello stesso tempo orienta il suo cammino. Tale criterio è Dio, nella persona di Gesù Cristo, negli ideali da Lui proclamati nel Vangelo, che costituiscono, contemporaneamente, il parametro di confronto in base al quale leggere se stessi e la meta ultima da raggiungere.
Tale approccio possiede, come quello precedente, una componente statica e un’altra dinamica. La prima prevede l’osservazione di se stessi e la presa di coscienza, sempre più approfondita, di ciò che si è; ma, mentre nel caso dell’autoreferenzialità è il soggetto stesso la norma in base alla quale vengono considerati e valutati i diversi tratti del carattere, qui esiste un criterio oggettivo che supera e trascende la persona. Conoscersi, allora, non significa guardarsi a uno specchio dove è riflesso il mio volto, di cui io posso compiacermi o che mi è possibile abbellire, ignorando aspetti della mia persona difficili da accettare; esso comporta, invece, il confronto con un Volto diverso rispetto al mio, a cui voglio assomigliare, ma che mi sarà sempre impossibile raggiungere del tutto.
In questa differenza tra il Suo e il mio volto ritroviamo la componente dinamica a cui si è accennato in precedenza: è proprio la distanza a trasformare la conoscenza di sé in un cammino, capace di integrare accettazione di ciò che sono e volontà di trasformarmi, consapevolezza del mio valore e umile coscienza del limite personale e umano. Tale percorso interiore aiuta, allora, a rinsaldare i legami comunitari: invece di perdersi nel fare memoria di occasioni mancate, di fermarsi a curare le proprie ferite, talvolta ignorando le sofferenze altrui, o di accampare diritti, magari calpestando quelli di chi ci vive accanto, una sana conoscenza di sé invita a non puntare il dito sugli altri; essa ci ricorda che anche noi siamo abitati dal limite, ci invita ad accettare le debolezze altrui, così come accogliamo le nostre, a camminare insieme, sapendoci tutti deboli peccatori e peccatrici, amati da Dio.
Definiamo tale modo di conoscere se stessi con il termine teocentrico innanzi tutto perché, come già accennato, esso non pone il soggetto, ma la persona di Cristo, quale riferimento essenziale per l’autoconoscenza e l’accoglienza della propria persona; tale espressione però ci ricorda anche che l’attività del conoscersi non può essere pensata come pura opera umana, poiché trascende la semplice analisi psicologica personale e soggettiva. Questo percorso, soprattutto quando raggiunge le profondità del nostro essere, è infatti frutto di una sinergia, una collaborazione fra l’azione dell’uomo e quella dello Spirito; di conseguenza esso è guidato da Dio e orientato verso Dio e riguarda la totalità della persona. Per conoscersi davvero non ci si può limitare, come spesso avviene attualmente anche nella formazione religiosa, a prendere in considerazione la dimensione psichica, i limiti, le caratteristiche, le qualità, le doti e i difetti della persona: è necessario invece considerare l’individuo nella sua completezza e, quindi, nella sua realtà più vera di figlio o figlia di Dio.


Solo lo Spirito ci orienta a una vera conoscenza di noi stessi

La conoscenza di sé, in questa prospettiva teocentrica, è dunque prima di tutto un’opera di collaborazione; essa comporta indubbiamente un impegno, uno sforzo della volontà, ma necessita soprattutto di capacità d’accoglienza e ricezione. Proprio perché possiede una componente dinamica, richiede la disponibilità a intraprendere un cammino, che si snoda lungo un percorso interiore non facile da attuare, a causa della naturale tendenza a nascondere, mascherare e camuffare la verità di noi stessi. Per tale motivo è necessaria una Guida e, da parte nostra, la capacità e disponibilità a lasciarsi condurre lungo un itinerario che può rivelarsi stancante, faticoso e talvolta perfino minaccioso e oscuro. E’ lo Spirito santo, Colui che viene in aiuto alla nostra debolezza (Rm 8,26), il vero conoscitore di noi stessi, capace di guidarci lungo i sentieri impervi dell’interiorità. A noi il compito di collaborare riconoscendo la Sua presenza, gli orientamenti che ci offre e i passi verso cui ci dirige. La Sua voce non ci è ignota, poiché nelle profondità della psiche e dello spirito ritroviamo le tracce della Sua presenza. Si tratta allora di individuare e recepire quanto Egli ci indica o suggerisce, per riscoprire il nostro vero volto.

Il primo grande aiuto che lo Spirito ci offre è il fare verità. Egli è, infatti, lo Spirito di Verità, la Luce che illumina le nostre zone oscure, quando Gli permettiamo di entrare nell’intimo per rischiararlo con la Sua presenza radiosa. Egli ci invita innanzi tutto a riconoscere la profonda paura del limite, insita in ognuno di noi. Non è possibile alcuna conoscenza di se stessi senza accettazione di questa realtà tipicamente umana; la nostra debolezza invece ci spaventa e, per tale motivo, tendiamo a nasconderla, a mascherarla e camuffarla, proprio come fecero Adamo ed Eva, quando, per la prima volta, si accorsero di essere nudi (cfr. Gen 3,7). Ognuno di noi ha le sue foglie di fico, le difese attraverso cui si protegge, per permettere a se stesso di illudersi riguardo al proprio valore e di aspirare a un’ipotetica invulnerabilità. C’è, per esempio, chi fugge di fronte alla vita, all’assunzione di responsabilità, agli impegni, alle scelte e a tutto ciò che può mettere in gioco la sua persona; talvolta mascherandosi dietro a un’apparente umiltà, nasconde prima di tutto a se stesso/a la verità di ciò che è: una persona fragile, limitata, come ogni altro essere umano. In questo caso la conoscenza di sé è evitata attraverso forme autoprotettive che, per salvaguardare se stessi, tendono a trasformare la realtà esterna in un nido accogliente, una sorta di “campana di vetro” in cui porsi al riparo da ciò che ci spaventa al di fuori e dentro di noi. Accanto a chi fugge è presente anche chi lotta, ma non per pervenire alla verità di se stesso, bensì per mascherarla, nasconderla prima di tutto ai propri occhi. Ecco allora che ci si difende cercando sempre al di fuori di sé le colpe, i limiti, le responsabilità e trasformando le relazioni personali – la comunità, la parrocchia, la scuola, l’oratorio, i luoghi in cui operiamo – in veri campi di battaglia.
Oltre a favorire la presa di coscienza delle strategie utilizzate per difenderci, lo Spirito ci introduce sempre più nelle profondità del nostro essere, facendoci inoltrare in un viaggio che non terminerà mai, poiché fino all’ultimo istante di vita dovremo riconoscerci peccatori abitati dal limite e tentati dal male. In questo percorso, nei meandri della nostra interiorità, saremo costantemente e ripetutamente invitati ad accettare la verità di noi stessi in tutto ciò che ci allontana dal vero bene. Se Colui che ci guida è lo Spirito santo, tale itinerario non ci farà paura, né ci spaventerà il riconoscimento della nostra debolezza e fragilità. Potremo superare il timore che nasce dallo scoprire presente in noi la bambina pretenziosa o spaventata, l’adolescente ribelle, il nemico del prossimo, il fratello, o la sorella, invidioso/a, il figlio, o la figlia, ingrato/a. Sapremo identificare come nostri tutti questi volti senza timore, perché Colui che ci conduce alla conoscenza delle nostre debolezze ripete in noi il nome del Padre e, dunque, ci ricorda come i nostri difetti non costituiscono la verità più profonda di noi stessi.
E’, forse, questo uno degli aspetti in cui la conoscenza “autoreferenziale” e quella “teocentrica” si distinguono maggiormente: la prima, infatti, tende a cancellare il limite, a non riconoscerlo e, se non può fare a meno di vederlo, a volerlo guarire a tutti i costi o ad addebitare ad altri, o a cause esterne, la sua origine. La persona tende, quindi, a negare le sue debolezze o ad accusare gli altri di averle provocate, ma finisce per ritrovarsi sola, a gestire il proprio narcisismo e l’aggressività verso cui tali strategie la orientano: si gonfierà nei momenti di illusione e si arrabbierà in quelli di frustrazione. La conoscenza teocentrica, invece, libera interiormente, poiché portando alla luce le zone oscure dell’interiorità le trasforma: un limite umilmente accettato si trasfigura, diventa meno drammatico, perde quella componente di “pericolosità” che lo accompagnava quando lo tenevamo chiuso e segregato nel nostro mondo intimo.
La conoscenza serena della nostra debolezza ci apre così alla relazione: finché non siamo in grado di ammettere il limite, non possiamo fare a meno di guardare gli altri con sospetto e anche chi ci è vicino si trasforma per noi in estraneo, talvolta anche in nemico. Siamo sempre pronti a difenderci dalle persone, perché potrebbero, volontariamente o inconsapevolmente, mettere in risalto le nostre fragilità. Al contrario, la consapevolezza dei lati oscuri, del peccato e della debolezza che ci abitano, ci apre agli altri: non li guardiamo più con timore, temendo di essere esposti nei nostri “punti deboli”, ma non tendiamo nemmeno più a condannarli, perché di fronte alla loro vulnerabilità, invece di scandalizzarci o di ergerci a giudici, non possiamo fare a meno di vedere la presenza del limite che ci accomuna. La conoscenza di sé diventa, allora, via all’umiltà che, oltre ad introdurci in rapporti maturi, ci avvicina a Dio. Più il nostro sguardo si affina e purifica, più diventa trasparente e capace di riconoscere la verità di se stessi e più Dio si rivela ai nostri occhi. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8), dice la Scrittura; tale visione è intimamente legata alla nostra disponibilità a lasciare che lo Spirito ci purifichi lo sguardo, togliendo dai nostri occhi la trave dei giudizi critici, l’oscurità delle colpe non riconosciute, la tenebra del male che, benché ci abiti, noi non vogliamo vedere. Più ci conosciamo e riconosciamo la povertà di ciò che siamo e più la nostra interiorità si purifica e semplifica: «Essa diventa allora come un calmo lago in cui si riflette il cielo, in cui si rispecchia il volto di Cristo, e in tal modo anche il vero volto degli altri»1.
La verità che lo Spirito santo opera in noi non concerne unicamente il limite. Egli è lo Spirito di Vita, per questo richiede la nostra collaborazione per far crescere e maturare in noi la vita. Egli è Colui grazie al quale diventiamo capaci di riconoscere i talenti ricevuti in consegna dal Padre: quelli di cui siamo consapevoli e che sappiamo valorizzare, ma anche gli altri, sepolti per paura, e senza quasi rendercene conto, nel nostro campo improduttivo, magari accompagnando questo gesto con qualche lamentela e quel po’ di risentimento, tipico di chi fa fatica a rendersi conto della bontà e generosità di Dio. Conoscersi, dunque, significa aprire gli occhi sui doni di Dio, accoglierli con gratitudine, entusiasmo, impegnandosi a usarli, invece che trattenerli presso di sé per paura di perderli o di rischiare troppo. Questa forma di conoscenza si colloca, però, in una prospettiva del tutto diversa rispetto a quella autoreferenziale. Essa non favorisce l’orgoglio, l’autocompiacimento e nessuna forma d’ingrandimento della propria persona che, grazie alle proprie qualità, riesce ad affermarsi accanto se non addirittura sugli altri; la coscienza di ciò che abbiamo ricevuto diventa, invece, invito alla misericordia, umile gratitudine, fiducia e certezza di essere oggetto di un amore generoso, che si dà a noi anche attraverso numerosi doni.

Lo Spirito santo è anche Colui che ci rivela dove è la nostra vera gioia e a che fonte attingere la felicità. Una reale conoscenza di noi stessi, infatti, non può limitarsi alla semplice consapevolezza delle qualità e limiti personali. Questo è il messaggio che ci proviene da tutte le teorie autoreferenziali, le quali, ponendo il fine dell’uomo all’interno dell’uomo stesso, eliminano ogni forma di trascendenza, ogni tensione verso realtà che superano la semplice realizzazione personale. Se vogliamo conoscerci veramente, però, non possiamo limitarci a prendere in considerazione come siamo fatti; dobbiamo anche saperci domandare dove andare, interrogarci su che cosa può renderci davvero felici e come realizzare una vita capace di essere contemporaneamente “bella e buona”. Lo Spirito santo, quindi, non è solo Colui che fa la verità illuminando le nostre zone oscure, ma è anche la Guida alla felicità, il Timoniere che orienta la nostra navicella verso la dimora del Padre. Egli non si accontenta di svelarci la verità di ciò che siamo, ma ci indica la meta verso cui siamo invitati ad andare. Lo fa donandoci la dolcezza e la consolazione, che accompagnano la ricerca del vero bene, e la tristezza e la desolazione presenti in ciò che per noi è un male. Conoscersi significa, dunque, saper discernere gli spiriti dentro di noi, saper ascoltare i pensieri e i sentimenti capaci di indicarci la via della vera gioia e di tenerci lontano dalle strade dell’autoinganno, dell’impoverimento e, talvolta, perfino dell’autodistruzione. In ognuno di noi è presente, infatti, l’Adamo facilmente tentato da colui che vuole allontanarlo dalla felicità proposta da Dio, il figlio o la figlia illusi di trovare la gioia lontano dal Padre o, addirittura, contro di Lui, il sognatore che si lascia ingannare, pensando di trarre dalla soddisfazione dei suoi bisogni fisici, o psichici, ogni bene e di raggiungere quella pienezza di vita, la cui origine invece si colloca altrove.


Accettare noi stessi

In questa prospettiva teocentrica anche l’accettazione di sé assume un volto nuovo: ancora una volta la persona non è rinchiusa in se stessa, sola, a fare i conti con ciò che è, con le sue qualità e i suoi limiti. Essa è, invece, invitata a comprendere che accogliersi significa prima di tutto e innanzi tutto scoprire, come afferma Romano Guardini2, che noi siamo stati dati a noi stessi e dobbiamo riceverci da Colui il quale ci ha consegnati a noi. Usciamo così dall’orizzonte ristretto della nostra persona per introdurre Dio, la Sua volontà su di noi, il Suo amore paterno all’interno della nostra vita. In questa prospettiva accettare se stessi non è più una questione prettamente personale, ma relazionale; essa si inserisce, infatti, nel nostro rapporto con Dio e si modella in base alla profondità e consistenza di questo legame. Un elemento oggettivo si colloca all’interno di un processo di autoconoscenza, che potremmo essere tentati di vivere in maniera puramente soggettiva, e ci impone di superare ogni atteggiamento basato unicamente sul “mi piaccio/non mi piaccio”, “è giusto/non è giusto”. Accettarsi significa riceversi da un Altro, il quale ci ha pensati così, e il fatto che sia stato “un Altro” a volerci in questo modo, ci obbliga ad uscire dagli egoismi, dalle lamentele e dalle meschinità, che spesso accompagnano il nostro modo di autocomprenderci. Se l’accettazione di se stessi si basa solamente su un criterio di autoreferenzialità, essa scade spesso o nella lamentela o nell’orgoglio: possiamo, infatti, accentuare l’aspetto del limite, delle ferite e debolezze che ci caratterizzano e finire per subire ciò che siamo, sentendoci vittime di un destino ingiusto. L’altra alternativa è di inorgoglirsi, accentuando soprattutto le qualità e le doti che ci caratterizzano, da noi vissute come se fossero opera nostra, frutto dell’impegno o delle qualità personali. Se in questo processo di autoconoscenza e accettazione noi ci poniamo, invece, di fronte a un Altro, da cui sentiamo di aver ricevuto la vita e tutto ciò che l’accompagna, impariamo ad accoglierci e a percepire che la nostra origine non è in noi. Guardando a noi stessi sotto lo sguardo di un Altro da cui ci sentiamo amati, impareremo lentamente ad attribuire un significato sempre più profondo alle caratteristiche della nostra personalità. Scopriremo così che non solo quella dote particolare ci è stata donata perché molti potessero goderne, ma che anche quel difetto, contro cui da anni cerchiamo di combattere e facciamo fatica ad accettare, ci è offerto in dono perché impariamo ad essere umili, a non giudicare, a rispettare tutti.
L’accettazione di sé si trasforma allora in impegno, in compito: essa ci invita a diventare veramente noi stessi e a voler essere pienamente ciò che siamo. Ciò significa che, in ultima analisi, dobbiamo collocarci all’interno di un progetto di autorealizzazione personale? La prospettiva da cui partiamo è troppo diversa per pensare che possa concludersi in una semplice affermazione delle proprie potenzialità. Nel compito che attende coloro i quali si accolgono dalla mano di Dio, e desiderano diventare veramente se stessi, è presente un elemento in più di fondamentale importanza: il confronto con l’Altro. Non in noi stessi, infatti, troviamo le indicazioni necessarie per realizzare il nostro vero volto, ma è lo Spirito che, attraverso la Parola, per mezzo dei Sacramenti, della Chiesa, ci orienta e ci indica ciò che siamo davvero chiamati a diventare.
Le parole di Gesù a Nicodemo a proposito del rinascere dall’alto (cfr. Gv 3,3) aiutano a comprendere in profondità in che cosa consista veramente conoscersi e accettarsi: è scoprire di essere figli/e, che ricevono la vita e se stessi/e dal Padre; è desiderio di conformarsi sempre più al Figlio, riconoscendo e lottando per liberarsi da ciò che da Lui ci allontana, mentre cerchiamo di far crescere e valorizzare quanto rafforza la nostra somiglianza.
Solo questa adesione e conformazione al Figlio permettono una conoscenza e accettazione di sé capaci di trasformarsi in accoglienza: ogni criterio di autoreferenzialità, infatti, chiude alla relazione e fa dell’altro un ostacolo o un rivale nella realizzazione personale. L’avere come riferimento il volto del Figlio apre, invece, all’accoglienza del fratello e della sorella: l’accettazione del proprio limite induce a rispettare il suo, mentre il sapersi chiamati a diventare se stessi permette di godere con gioia della crescita altrui.
Conoscere se stessi diventa, allora, una via privilegiata per una fraternità e una sororità misericordiosa e buona, come quella dei santi, i quali scoprono mille peccati e debolezze dentro di sé, senza però mai perdere la fiducia nell’amore di Dio. Il loro sguardo, purificato dalla verità, sa così trasfigurare il volto dei fratelli e delle sorelle, persino di quelli più fragili, in cui riescono sempre a cogliere il Mistero di una Presenza, anche quando questa è nascosta dietro l’opacità di una vita all’apparenza vana. Conoscenza e amore diventano, allora, due espressioni di una stessa realtà, manifestazioni diverse di un unico movimento di accoglienza e di dono.




* Psicologa.
1. Clément O., Alle fonti con i padri, Città Nuova, Roma 1992, p. 164.
2. Guardini R., Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992.
 

   

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