n. 6
giugno 2004

 

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Il volto dell'amore:
la fraternità infranta - II parte

di Mario Russotto*

 

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Miriam e Aronne: la fraternità infranta

Dopo il passaggio del mare, il popolo ritrova coraggio e unità e finalmente Mosè e Israele possono cantare insieme: «Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze. Maria fece loro cantare il ritornello: Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere» (Es 15,20-21). E’ un episodio stupendo! Miriam ci viene presentata in tutta la sua dignità. Ella vive il suo ruolo con vera passione, con vera coscienza e unisce, nel canto, il popolo. Prende l’iniziativa della preghiera; nel canto incita il popolo a lodare YHWH e così si riscopre la sororità e la fraternità. Questa donna è veramente strumento di unità e vive il suo servizio alla sororità e alla fraternità con gioia e spirito d’iniziativa; sa intuire che il canto, il ringraziamento al Signore, può unire il suo popolo.

 Un cammino bloccato. - Secondo Num 12, Miriam è profetessa, ha quindi nella comunità il ruolo d’interpretare la parola di Dio. Insieme a Mosè e Aronne, suoi fratelli; ha il compito di additare le vie del Signore al popolo. Un giorno però «Miriam e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva sposata... Dissero: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?». Il Signore udì. Ora Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che c’era sulla terra».

Tutta l’armonia che prima Miriam aveva creato, crolla d’un colpo. L’arrivismo, il voler essere prima degli altri, può essere motivo di divisione nella comunità. Ed è quello che succede a Miriam e Aronne. Essi non parlano apertamente contro Mosè, ma mormorano alle sue spalle. E così Miriam, presa da gelosia, passa da profetessa a donna meschina che complotta di nascosto contro suo fratello... insieme al sacerdote e fratello Aronne! E’ veramente grave: qui non abbiamo solo una fraternità fondata sulla fede, ma anche sul sangue.

In una comunità religiosa la gelosia, l’invidia o l’arrivismo, il non accettare che un’altra abbia il ruolo di comando o che in qualche cosa sia migliore di noi, può scatenare nel nostro animo forme di mormorazione, e quel che è peggio, non si resta soli, ma si tende a coinvolgere altre persone. Niente di più “diabolico”!

Il narratore scrive con fine ironia questo episodio. Da un lato sembra giustificare la mormorazione di Miriam e di Aronne: Israele per la sua unità deve mantenere la purità della razza e quindi bisogna evitare matrimoni con donne non ebree. Dall’altro lato ci fa entrare nel segreto dialogo fra Miriam e Aronne, i quali non parlano della donna etiope ma... «Non ha forse il Signore parlato anche per mezzo nostro?». Sono gelosi ed invidiosi di Mosè e l’autore smaschera il motivo profondo e reale della loro mormorazione. Anche se si mormora in privato... «Il Signore udì». Dio ascolta, vede e smaschera quello che abbiamo dentro... E Miriam diventa lebbrosa!

Così ella diviene motivo di disunità e tensione nel popolo per non aver accettato il suo ruolo nell’ambito della comunità. La lebbra era considerata dagli ebrei come il castigo di Dio per il peccato contro la verità. L’ammalato di lebbra era considerato morto e quindi escluso dalla comunità dal punto di vista sociale e cultuale.

E «il popolo stette fermo per sette giorni». Miriam viene isolata dalla comunità, ma il peccato e il castigo di una sola donna bloccano il cammino di tutta la comunità. Miriam si manifesta in questo episodio come una donna ribelle e con le sue mani rovina il suo prestigio e si autoesclude dalla comunità. E’ solo l’intercessione di Mosè, per nulla geloso e vero amico di Dio, che ricupera Miriam alla vita e alla comunità.

Anche nella comunità religiosa capitano queste cose. Ricordate che la rottura della fraternità, da parte anche di una sola sorella, blocca il cammino di tutta la comunità. “Sette” è il numero di Dio: stare isolati per sette giorni vuol dire “aspettare i ritmi di Dio” finché non si è pronti e, poi, rientrare nella comunità e stare al proprio posto.

Due figli: i silenzi della fraternità

Il testo è comunemente chiamato parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32), ma sarebbe meglio intitolarlo la parabola del padre misericordioso, il vero protagonista, infatti, non è il figlio (fra l’altro i figli sono due) ma il padre con il quale, in modo diverso, si relazionano i due figli.

I personaggi dunque sono tre: il padre, il figlio giovane, il figlio maggiore.

Notiamo che i due figli non parlano mai fra di loro e che il padre parla solo con il figlio maggiore, mentre con il figlio minore si esprime unicamente con il linguaggio gestuale dell’amore e dell’accoglienza.

Il figlio più giovane decide di gestire da sé la propria vita, di avere i beni che afferma ingiustamente a lui dovuti e di disporne indipendentemente dal padre. Il suo “peccato” sta nella prima affermazione: «Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise fra loro le sostanze». E’ interessante notare che nel greco il termine “sostanza” è ton bion, cioè la vita, quel che aveva per la vita. Dunque il figlio prodigo è colui che non vuol saperne del padre nella gestione della sua vita. Il suo è un peccato di ricchezza, un voler essere padroni della propria vita, un escludere di affidare perdutamente e incondizionatamente questa vita nelle mani del padre.

Gestire la vita esclusivamente da sé significa non vivere più, aver smarrito il senso, la bellezza, la forza, l’essenza della propria vita. Ebbene, il figlio giovane prende coscienza di tutto questo quando scopre la solitudine interiore: «rientrò in se stesso», e percorre un cammino dalla ricchezza alla povertà. Egli che ha voluto scegliere la ricchezza, gestire la propria vita, essere padrone di sé, arriva come un povero davanti al padre per confessare il proprio fallimento e il proprio nulla. Solo quando prendiamo coscienza di essere peccatori nasce in noi la nostalgia del Padre e ci mettiamo in marcia per cercare il suo volto misericordioso.

Il perduto figlio. - Il figlio maggiore è l’ultimo personaggio della parabola. Egli è sempre rimasto in casa, in una situazione di vicinanza fisica al padre. Ma la vicinanza esteriore non significa necessariamente vicinanza del cuore. Si può vivere tutta una vita nella casa di Dio e non amare Dio... Si può “convivere” con Dio come con uno dei tanti feticci dell’esistenza, senza lasciarsi in nulla segnare o trasformare da Lui. Dopo tanti anni di convivenza col padre, il figlio maggiore è incapace di comprenderne la logica di amore e di perdono. Prigioniero della sua solitudine e schiavo dei suoi interessi («non mi hai dato mai un capretto» Lc 15,29), questo figlio non è meno lontano dal padre del figlio andato via di casa: la vicinanza fisica non basta. Quel che conta veramente è la vicinanza del cuore, è l’essere interiormente innamorati di Dio, perché si può abitare nella casa del padre e ignorarlo coi fatti. Si può continuamente parlare di Dio, ma non incontrarlo e non farne alcuna esperienza profonda e vivificante.

Anche il figlio maggiore vive il suo dramma: non perdona al padre di avere perdonato il fratello. E’ lo stesso peccato del figlio più giovane. Il figlio maggiore vuole lui gestire la vita, farsi lui arbitro e giudice del bene e del male. Anche in questo caso il padre “esce” per convincerlo, va da lui quasi a chiedere perdono del suo amore. Il padre invita il figlio maggiore a una conversione, ad uscire dalla logica del merito e del profitto, per entrare nella logica dell’amore. Il padre invita il figlio maggiore a convertirsi alla povertà, a passare dalla ricchezza di chi presume di giudicare tutto e tutti, alla povertà di chi si lascia condurre da Dio e giudicare da Dio. Il padre invita il figlio maggiore a entrare nella logica della gratuità, dell’amore più grande. Ma il figlio maggiore entrerà in casa a far festa con il padre e il fratello? Sta a noi completare la storia e dare una risposta. La parabola, infatti, si chiude con questo interrogativo, perché deve continuare nella vita di ciascuno di noi.

 I sentieri del riconoscimento e della prossimità

L’imperativo di farsi prossimo (Lc 15,25-37) e di avere compassione. - Il samaritano è un protagonista inaspettato: un eretico, un emarginato dalla comunità cultuale di Israele, simbolo dell’impurità, giudicato dai Giudei incapace di un autentico rapporto con Dio. Egli vede l’infelice e ne ha compassione. Ci troviamo alla “svolta” del racconto. Il resto è solo conseguenza “operativa”. Ebbe compassione: indica il “ribollire delle viscere”, il lasciarsi afferrare dalla “tenerezza” per l’altro facendo propria la sua situazione. Si tratta di un’esperienza intensa che gli apre gli occhi sul valore delle cose, gli fa vedere l’uomo bisognoso ed emarginato in una luce vera, gli dischiude il cuore alla carità e alla solidarietà.

L’altro, con le sue necessità mi interpella e, anche tacitamente, chiede che io impegni la mia responsabilità.

Avere compassione: i vangeli ci testimoniano più volte questo sentimento provato da Gesù. Dinanzi alla supplica di un lebbroso (Mc 1,40-42), quando vede la folla che lo cercava smarrita «come pecore senza pastore...» (Mc 6,34ss.); al funerale dell’unico figlio di una vedova (Lc 7,12ss.). Gesù ha occhi capaci di cogliere i bisogni degli altri, sa farsi carico della loro situazione, si fa loro “prossimo” e compie il bene di cui hanno necessità: guarisce dalle malattie, istruisce e dà il cibo, risuscita i morti!

Ebbene, il Samaritano è mosso dalla stessa tenerezza di Gesù e si fa “prossimo” del moribondo, senza neppure chiedersi se è un amico o un nemico, un connazionale o uno straniero. Sa che ha bisogno di lui, accoglie il suo silenzioso appello e: «si prese cura di lui». Lo accompagna in una locanda. Spende tempo e denaro per quell’infelice, non lo lascia al suo destino. Si interessa del suo futuro. Anzi, coinvolge l’albergatore in questa carità premurosa, ammonendolo: «Abbi cura di lui» e gli assicura la propria disponibilità ad andare fino in fondo in questa opera di carità. E’ il miracolo dell’amore! Il Samaritano è un uomo libero, libero da pregiudizi, da interessi di parte... da se stesso. E’ fermamente determinato a prendere a cuore fino in fondo la situazione di bisogno dell’altro, a impegnare la sua persona per il bene dell’altro, ad assumersi la responsabilità di una solidarietà senza frontiere. E’ il cammino dell’uomo in compagnia di Dio!

Prossimo si diventa. - Il dottore della legge ha chiesto a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» Alla fine della parabola è Gesù a interrogarlo: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» Con questa parabola Gesù rivoluziona il concetto di “prossimo”: il prossimo non esiste già, non è il destinatario della mia carità e della mia premurosa attenzione, bensì il soggetto che ama. Prossimo si diventa! Prossimo non è lo sventurato, ma il samaritano nel momento in cui prova compassione, fa sua la sofferenza di quell’uomo, gli si avvicina offrendogli un’amicizia radicale e gratuita. Prossimo divento io stesso nel momento in cui, anche davanti allo straniero o al nemico, decido di “avvicinarmi”, di essergli significativamente solidale. Anche a noi, oggi come allora, dopo averci provocati con la sua parola, Gesù ripete lo stesso e unico imperativo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso!»

Nell’ accoglienza la trasmutazione delle relazioni:
la provocazione del “terzo”

Due discepoli disillusi abbandonano il luogo degli avvenimenti, in un certo senso fuggono dalla città del dolore e dalla comunità smarrita. Mentre camminano, Gesù si affianca a loro: «Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo» (Lc 24,15-16). Insieme si riprende la conversazione e Gesù li invita a ricordare i fatti, a prendere in considerazione tutto, a non staccarsi mai da quello che è accaduto: «Ed egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?” Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèofa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?” Domandò: “Che cosa?”» (Lc 24,17-19). Il “terzo” è il forestiero, lo straniero: è l’altro, che irrompe nella mia esistenza e vi giunge come un ad-ventus, come un venire a me. Il “terzo” è la novità e mi provoca, mi interpella, mi cambia, perché parla con me e spezza il monologo fatto a due in un dialogo autentico.

Esserci ascoltando. - I due sono dei bravi cronisti: raccontano i fatti senza comprenderli. Questa è la drammaticità del loro monologo dialogato. Sono così precisi nel delineare gli avvenimenti, ma non si sono lasciati comprendere dall’avvenuto. I due camminano. Si cammina sempre... Il cammino dei due discepoli indica che la vita non si ferma, anche quando si fanno opzioni pragmatiche di ripiegamento in se stessi. La lingua dei due discepoli non è quella della comprensione, ma della divisione. C’è un contesto di litigio, di rabbia, di anonimia. Un “terzo”, uno straniero, si fa loro prossimo e sincronizza i passi con i loro; questi due verbi riassumono tutta la sua missione: in Gesù, Dio si fa vicino agli uomini, entra nella loro storia e ridà vita alla loro esistenza quotidiana. Nei due discepoli è morta la speranza, sono in crisi: «avevano il volto triste». I due discepoli avevano i loro progetti e le loro speranze, desideravano un Messia sulla misura delle loro ambizioni. La morte di Gesù, condannato come un malfattore, non era compatibile con questi progetti: da qui la profonda delusione. Era rimasta una piccola speranza: la risurrezione, ma anche questa era fallita: «sono già tre giorni da quando queste cose sono avvenute» (Lc 24,21) e non era successo niente che li aiutasse a credere.

Camminando con i due viandanti lungo la strada, Gesù ascolta la loro storia e li invita ad ascoltare ciò che stanno vivendo. Nel frattempo Egli tace: è sufficiente che sia “con loro” lungo la via. Prenderà la parola soltanto quando avranno finito, per rivelare e spezzare i limiti della loro fede, manifestando ciò che avviene nella storia di ciascuno e che è possibile “riconoscere”, se si sa veramente ascoltare. Ma, ascoltare come?

Parola e discernimento. - I due discepoli conoscevano molto bene le Scritture, così come ancora oggi le conoscono gli Ebrei.

Eppure esse non sono state e non sono per loro un mezzo per riconoscere nel terzo, lo “straniero”, il volto di Gesù. Ma quello che costa capire è la Passione, la Croce. «Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!”» (Lc 24,25). Ebbene, la parola di Gesù centra subito l’argomento e dice che dalle Scritture si può desumere che il Cristo doveva sopportare queste sofferenze per entrare nella sua gloria (cfr. Lc 24,26). La sua sofferenza ha un senso se viene intesa come “pasqua”, cioè come un “esodo”, un passaggio da questo mondo al Padre, un’esaltazione alla gloria. Quelle Scritture sono lette alla luce di una pienezza: mostrando loro quanto lo riguardava. Questo è il momento dell’ascolto della Parola, è il momento esaltante in cui la Parola non è più fredda informazione religiosa e neppure poesia: ma è ormai messaggio di fede che entra nella conchiglia del cuore e non soltanto nella conchiglia dell’orecchio. E’ una conquista che i discepoli fanno lentamente; è il momento della lectio o della liturgia della Parola.

Educare all’accoglienza. - «Fece finta di voler continuare il viaggio». Perché questa “finta”? E’ la svolta del racconto: i due escono dalla sfera del privato e dai loro problemi personali e si aprono all’attenzione al “terzo”, al forestiero. E’ lì la loro conversione. I due non sono più quelli di prima: delusi, litiganti, tristi, sconvolti. E senza saperlo lo chiamano per nome: «Signore».

Avviene come in Gen 18,lss., quando Abramo vede davanti alla sua tenda tre uomini sconosciuti. E’ il baleno di un’intuizione, che determina un capovolgimento nello sguardo interiore: egli li ferma, li invita, li ospita. Ma mentre Abramo intuisce subito nei tre sconosciuti la presenza del divino, i due di Emmaus hanno ancora gli occhi chiusi, accecati dalle proprie visioni: non sanno riconoscere l’apparizione disparente del loro Signore. Ma basta un invito perché il cammino del riconoscimento si sblocchi nel lampo di un incontro. Proprio al riparo di una locanda di campagna “scomparendo”, Gesù si rivela. I due diventano “grandi” perché imparano ad ospitare: nel riconoscimento e nell’accoglienza ospitale dell’altro si aprono alla prossimità.

Il pane dell’amicizia. - Entrati in quella casa, seduti a mensa, si raggiunge la meta ultima. Cristo spezza il pane. L’espressione “frazione del pane” sarà usata da Luca in At 2,42 per descrivere la comunità di Gerusalemme: «Erano uniti nella comunione fraterna, nelle preghiere, nell’insegnamento degli apostoli e nella frazione del pane».

Lo spezzare il pane eucaristico genera all’improvviso la rivelazione: i «loro occhi si aprirono». Il racconto lucano è allora una rivelazione del Cristo risorto a una Comunità accogliente e ospitale, all’interno della liturgia della Parola e della liturgia Eucaristica.

Luca vuol dire a tutti i cristiani che verranno: Voi che siete magari pieni di nostalgia per non aver potuto conoscere il Cristo nella carne, ebbene Cristo voi lo incontrate ogni volta che aprite il cuore al riconoscimento dell’altro e vi piegate alla prossimità ospitale e gratuita, ogni volta che vi abbeverate alla parola di Dio, ogni volta che celebrate l’Eucaristia.

Ma è solo un attimo: Gesù si rende nuovamente invisibile, i due discepoli però non cadono nella tristezza. Sanno già quello che devono fare: ritornare a Gerusalemme e, sulla base della loro esperienza di fede, ricostruire con gli altri discepoli la comunità.

«A chi di noi l’albergo di Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto per noi. Ce l’avevano preso... Noi seguivamo una strada. Ed ecco qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli, era la sera.

Rimani con noi, poiché il giorno declina!» (François Mauriac).

Giunti al villaggio, Gesù non impone la sua presenza, ma accetta il rischio della loro capacità di accoglienza. E i discepoli invitano Gesù a rimanere. Entrati nella casa, tutto si svolge nel più assoluto silenzio: non servono più le parole. Gesù ha spezzato il pane della Parola di Dio e ora spezza con loro e per loro il pane dell’amicizia e della comunione. Appena i discepoli si aprono all’intelligenza della fede, Gesù si ritrae. La sua presenza non è più necessaria, in quanto adesso sono capaci di camminare da soli.

Il pane nel suo rompersi apre, libera l’invisibilità del mistero e rifrange una luce corrispondente agli occhi, che di fatto si aprono a una visione mai intravista. Il pane spezzato risuscita nel cuore la memoria. Ma non si tratta di un ricordare nostalgico, bensì di un “fuoco” che rischiara il cammino dal passato verso il presente e illumina il sentiero notturno che si deve intraprendere. I due di Emmaus attraversano il buio della notte perché hanno attraversato la luce dell’ospitalità. Il cammino del ritorno avviene nella notte, ma anche quella notte per i discepoli si riempie di luce: ora essi “vedono”. La loro meta non era Emmaus, ma Gerusalemme e ritornano in fretta alla “loro” città per aiutare gli altri a vedere. Non importa che poi gli altri capiscano o credano, quel che importa è aiutarli a capire e a credere condividendo la gioia della speranza ritrovata, in una pedagogia di riconoscimento e prossimità.

«Tutto ciò accade nel più grande silenzio. La divisione del pane, il dischiudersi degli occhi, il muto riconoscimento, la scomparsa sono durati appena un istante... Un istante per intravedere l’apparizione disparente e poi tutta la vita per stropicciarsi gli occhi e parlarne!... L’uomo che ha riconosciuto, fosse anche una sola volta in vita sua, fosse solo per lo spazio di un istante, la purezza l’innocenza a lungo disconosciute, potrà dire anch’egli: Ieri sera alla locanda un viaggiatore sconosciuto aveva un non-so-che di lontano nello sguardo; il suo volto era dolce e stanco; sui sandali si vedeva ancora la polvere del cammino. E questo sconosciuto era un dio. E questo sconosciuto era Dio» (V. Jankèlèvitch).

Restituire l’altro a se stesso. - I farisei hanno denunciato, e denunceranno ancora, Gesù che mangia con “i peccatori” (cfr. Lc 7,39). Questo, secondo la cultura del tempo, significa diventare a propria volta peccatori. Farsi toccare da una peccatrice, come nel nostro caso, equivaleva a diventare impuro e condividere la sua stessa condizione di peccato.

L’atteggiamento di Gesù sconcerta i cosiddetti “giusti”, e perfino Giovanni Battista, che dal carcere invia i suoi discepoli a interrogare Gesù: «Sei tu colui che deve venire, oppure ne dobbiamo aspettare un altro?» (Lc 7,19). Proprio in questo contesto Luca colloca l’incontro tra il presunto giusto e la pubblica peccatrice riconosciuta tale nel suo villaggio. Gesù è posto, dunque, fra due tipi di umanità: la donna impura e l’uomo puro. E allora accetta l’invito di Simone e anche quello inaspettato della donna peccatrice. Tutti e due, di fatto, lo invitano anche se solo Simone gli rivolge l’invito ufficiale. Ma chi lo invita veramente è la donna.

La situazione in casa di Simone. - E’ una situazione ambigua. C’è un uomo, Simone, che si crede importante, che ha in mano la situazione e che non ha rischiato niente: ha ricevuto Gesù, ma col minimo della cortesia, perché così pensa di riuscire ad accontentare tutti! Partecipare alla mensa simboleggiava in Oriente la comunanza di vita e l’amicizia. Qui il clima non è di amicizia; il fariseo non compie nessun gesto di stima verso Gesù: non gli ha dato la possibilità di rinfrescarsi e di profumarsi un po’ e neppure quel tradizionale bacio che si dà ad ogni invitato.

Ricevendo Gesù, si dimostra uomo aperto, capace di affrontare le nuove idee; non rendendogli però tutti gli onori dovuti, può sempre dire di averlo tenuto a bada. Questo salvarsi con tutti, senza però impegnarsi, è esattamente l’immagine dell’agire politico che sempre ci minaccia: sì, facciamo una cosa ma in maniera che nessuno possa criticarci e così navighiamo, con estremo equilibrio, tra le due parti, senza comprometterci.

A un certo punto entra una donna e rompe tutte le convenzioni creando un enorme disagio per tutti. La comparsa della donna presuppone non solo il fatto che ella conoscesse la presenza di Gesù in casa del fariseo, ma anche che lo avesse precedentemente incontrato e ne fosse rimasta molto impressionata, anzi probabilmente già perdonata. Questo si nota pure nell’uso del verbo al perfetto usato da Luca: afeontai ai amartiai autes ai pollai, oti egapesen polu: «I tuoi peccati sono stati (nel passato e continuano nel presente ad essere) perdonati perché veramente amasti tanto».

La donna, in un gesto di confessione pubblica, compie verso Gesù quei segni di affetto, di riconoscenza, di venerazione, che nessuno aveva saputo compiere. A questo punto Gesù dimostra una grande capacità di rovesciare le posizioni: con una opportuna parabola fa capire che l’imbarazzato, l’intruso, colui che non ha saputo agire è Simone; la persona che si è comportata in maniera degna della situazione, vera, reale, umana, è la donna: è lei che ha capito, è lei che ha vissuto questa realtà.

Il fariseo in noi. - Simone siamo noi quando non comprendiamo le situazioni, valutandole secondo criteri di forma esteriore e senza sforzarci di penetrarle. Simone siamo noi quando giudichiamo gli altri senza remissione, creando così molta sofferenza. A Simone non viene assolutamente in mente che la peccatrice possa avere una storia: è una donna, che ha dei problemi, delle angosce, che non è stata magari aiutata da nessuno, che potrebbe avere dei momenti di risalita. Non pensa nemmeno che questa donna sta facendo uno sforzo di impegno. Secondo Simone, la donna non appartiene alla categoria di persone che possono migliorare.

Simone non è morto, ma vive in noi, vive nelle nostre comunità, vive nella nostra società con le sue virtù, le sue doti, la sua onorabilità e anche con la sua ottusità non evangelica, la stessa con cui pretende poi di dettare legge a Gesù: se sapesse, se fosse davvero un profeta! Simone siamo noi, tutte le volte che, invece di accusare noi stessi e di domandarci in che cosa stiamo sbagliando, ci precipitiamo a giudicare gli altri!

Riconoscimento e prossimità... senza calcoli. - La donna fa ciò che può e che sa fare. Lo fa con tutta se stessa, al di là del puro razionale. Ciò che fa è certamente eccessivo visto in sé e tocca il limite della convenienza. Ma lei vuole esprimere ciò che sente essere mancato a Gesù e ciò che Gesù merita. Agisce al di là del calcolo. Ha compreso la trascendenza di Cristo, per il quale non si fa mai abbastanza e non ci sono regole o limiti, perché è la totalità e richiede la totalità! La cosa sconcertante è che questa donna, già quando viene a sapere dell’arrivo di Gesù, già quando comincia a pensare come raggiungerlo, quando coltiva il desiderio di cambiare, già da allora si sente perdonata. Perché sa chi essa è davanti a Dio, comprende il proprio peccato e vuole in tutti i modi abbandonarlo. Ma per riuscirvi ha bisogno di essere accolta, non ce la fa ad uscire da sola dalla propria situazione. E allora va da Gesù con fiducia, perché si sente già accolta e perdonata.

La donna personifica il dono di sé. Chi ama dà ciò che ha. La donna ha l’unguento, ha il suo olio profumato, ha la sua capacità di attenzione. Con molta semplicità dà ciò che ha, senza pensarci troppo. Gesù, da parte sua, dà la sua stima, la sua attenzione, il suo giudizio favorevole, la sua accettazione in un momento particolarmente difficile. C’è uno scambio di doni. Donare significa comunicare ciò che veramente possediamo, poco o molto che sia, senza domandarci se è poco o se è molto. Il dono è una dichiarazione di importanza. La donna che va in casa di Simone, infatti, considera Gesù più importante della sua reputazione, di tutte le convenienze. Gesù considera la donna e la sua dignità, la sua verità, più importante di coloro che si aspettavano di essere da Lui gratificati e che lo avrebbero criticato, e si espone senza preoccuparsi degli altri.

Il dono implica uno sbilanciamento, un rischio! Il dono entra e scava nel mistero della persona. Il dono è qualcosa di assolutamente gratuito e immeritato. La parola che meglio esprime questo dono assoluto è perdono, cioè un dono perfettissimo, è il dono che Gesù fa alla donna: «Ti sono perdonati i tuoi peccati...»

Il sapersi perdonati genera una capacità di dono: «... perché molto hai amato...» Il fariseo non può partecipare alla danza dell’amore perché non ha partecipato al riconoscimento del suo peccato! La donna peccatrice è nell’ottica dell’amore. Simone no: è nell’ottica della religiosità formale. Se noi ci pensiamo vicini a Dio, forse, in realtà, siamo ancora lontani, come Simone. Credere in Dio, invece, è scoprire la nostra lontananza da lui, avere il coraggio di attraversarla riconoscendo il nostro peccato. La peccatrice sa uscire di casa incontro a una vita nuova, nella fiducia di una relazione di gioia e di amore. Infine Gesù dice alla donna: «La tua fede ti ha salvata». Amando in quel modo, la donna ha iniziato già  un cammino di fede: «Va’ in pace». Gesù le fa il dono dello shalom, di una pace ritrovata. Non più il tormento, le paure, ma la dilatazione dell’animo, l’esperienza di un incontro che ha cambiato la sua vita.

Amo te in te

«Era il mese d’agosto quando lo rividi. Stava seduto all’ombra del cipresso, là nel giardino...

Guardai, e fremette l’anima mia, perché lui era bello...

Fu la mia solitudine, o la sua fragranza che mi vinse? Fu una fame dei miei occhi anelanti bellezza? O fu la sua bellezza a cercare la luce dei miei occhi?

Ancor oggi, non saprei dirlo.

Mossi verso di lui con i miei abiti profumati, e calzavo sandali dorati, i sandali che m’aveva donato il comandante romano, questi sandali che vedi. E quando l’ebbi di fronte gli dissi: “Buongiorno a te”.

E lui disse: “Buongiorno a te, Miriam”.

E mi guardò, e i suoi occhi notturni mi videro come nessun uomo mi aveva mai vista.

D’improvviso fui come nuda, e ne ebbi vergogna.

Eppure mi aveva solo detto: “Buongiorno a te”...

E la voce del mare era nelle sue parole, e la voce del vento e degli alberi. E quando le pronunciò, la vita parlò alla morte.

Perché, amico mio, io ero morta, sappilo. Ero una donna che aveva divorziato dall’anima.

Vivevo separata da questo essere che ora vedi. Appartenevo a tutti gli uomini, e a nessuno.

Prostituta, mi chiamavano, e donna posseduta da sette demoni. Ero maledetta, ed ero invidiata. Ma quando i suoi occhi d’aurora guardarono i miei occhi, tutte le stelle della mia notte si dileguarono, e io divenni Miriam, solo Miriam, una donna ormai perduta alla terra che aveva conosciuto, e che si era ritrovata in un mondo diverso...

Lui allora mi guardò, e il meriggio dei suoi occhi era su di me, e disse: “Tu hai molti amanti, ma io solo ti amo. Gli altri, quando ti sono vicini, amano se stessi: io amo te in te stessa. Altri uomini vedono in te una bellezza che appassirà prima ancora dei loro anni. Ma io vedo in te una bellezza che non appassirà mai, e nell’autunno dei tuoi giorni questa bellezza non avrà paura di specchiarsi, e non conoscerà oltraggio.

Solo io amo in te l’invisibile”.

Allora si alzò e mi guardò proprio come immagino che le stagioni dall’alto guardino verso il campo: sorrise. E ancora disse: “Tutti gli uomini ti amano per loro stessi. È per te che io ti amo”.

Poi se ne andò.

Nessun altro uomo camminò mai come lui camminava. Era un soffio nato nel mio giardino, che alitava verso oriente? O una tempesta, che avrebbe squassato sin dalle fondamenta tutte le cose?

Non lo sapevo, allora, ma quel giorno il tramonto dei suoi occhi uccise in me il drago, e divenni una donna, io divenni Miriam, Miriam di Mijdel».

 (Kahlil Gibran, Gesù Figlio di Dio)

* Vescovo di Caltanissetta: biblista e saggista.

   

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