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Miriam e
Aronne: la fraternità infranta
Dopo
il passaggio del mare, il popolo ritrova coraggio e unità e finalmente
Mosè e Israele possono cantare insieme: «Allora Maria, la profetessa,
sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le
donne con i timpani, formando cori di danze. Maria fece loro cantare il
ritornello: Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha
gettato in mare cavallo e cavaliere» (Es 15,20-21). E’ un episodio
stupendo! Miriam ci viene presentata in tutta la sua dignità. Ella vive
il suo ruolo con vera passione, con vera coscienza e unisce, nel canto,
il popolo. Prende l’iniziativa della preghiera; nel canto incita il
popolo a lodare YHWH e così si riscopre la sororità e la fraternità.
Questa donna è veramente strumento di unità e vive il suo servizio alla
sororità e alla fraternità con gioia e spirito d’iniziativa; sa intuire
che il canto, il ringraziamento al Signore, può unire il suo popolo.
Un
cammino bloccato.
- Secondo Num 12, Miriam è profetessa, ha quindi nella comunità il ruolo
d’interpretare la parola di Dio. Insieme a Mosè e Aronne, suoi fratelli;
ha il compito di additare le vie del Signore al popolo. Un giorno però
«Miriam e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che
aveva sposata... Dissero: «Il Signore ha forse parlato soltanto per
mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?». Il Signore udì.
Ora Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che c’era sulla terra».
Tutta l’armonia che
prima Miriam aveva creato, crolla d’un colpo. L’arrivismo, il voler
essere prima degli altri, può essere motivo di divisione nella comunità.
Ed è quello che succede a Miriam e Aronne. Essi non parlano apertamente
contro Mosè, ma mormorano alle sue spalle. E così Miriam, presa da
gelosia, passa da profetessa a donna meschina che complotta di nascosto
contro suo fratello... insieme al sacerdote e fratello Aronne! E’
veramente grave: qui non abbiamo solo una fraternità fondata sulla fede,
ma anche sul sangue.
In una comunità
religiosa la gelosia, l’invidia o l’arrivismo, il non accettare che
un’altra abbia il ruolo di comando o che in qualche cosa sia migliore di
noi, può scatenare nel nostro animo forme di mormorazione, e quel che è
peggio, non si resta soli, ma si tende a coinvolgere altre persone.
Niente di più “diabolico”!
Il narratore scrive con
fine ironia questo episodio. Da un lato sembra giustificare la
mormorazione di Miriam e di Aronne: Israele per la sua unità deve
mantenere la purità della razza e quindi bisogna evitare matrimoni con
donne non ebree. Dall’altro lato ci fa entrare nel segreto dialogo fra
Miriam e Aronne, i quali non parlano della donna etiope ma... «Non ha
forse il Signore parlato anche per mezzo nostro?». Sono gelosi ed
invidiosi di Mosè e l’autore smaschera il motivo profondo e reale della
loro mormorazione. Anche se si mormora in privato... «Il Signore udì».
Dio ascolta, vede e smaschera quello che abbiamo dentro... E Miriam
diventa lebbrosa!
Così ella diviene
motivo di disunità e tensione nel popolo per non aver accettato il suo
ruolo nell’ambito della comunità. La lebbra era considerata dagli ebrei
come il castigo di Dio per il peccato contro la verità. L’ammalato di
lebbra era considerato morto e quindi escluso dalla comunità dal punto
di vista sociale e cultuale.
E «il popolo stette
fermo per sette giorni». Miriam viene isolata dalla comunità, ma il
peccato e il castigo di una sola donna bloccano il cammino di tutta la
comunità. Miriam si manifesta in questo episodio come una donna ribelle
e con le sue mani rovina il suo prestigio e si autoesclude dalla
comunità. E’ solo l’intercessione di Mosè, per nulla geloso e vero amico
di Dio, che ricupera Miriam alla vita e alla comunità.
Anche nella comunità
religiosa capitano queste cose. Ricordate che la rottura della
fraternità, da parte anche di una sola sorella, blocca il cammino di
tutta la comunità. “Sette” è il numero di Dio: stare isolati per sette
giorni vuol dire “aspettare i ritmi di Dio” finché non si è pronti e,
poi, rientrare nella comunità e stare al proprio posto.
Due figli: i silenzi della fraternità
Il testo è comunemente
chiamato parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32), ma sarebbe
meglio intitolarlo la parabola del padre misericordioso, il vero
protagonista, infatti, non è il figlio (fra l’altro i figli sono due) ma
il padre con il quale, in modo diverso, si relazionano i due figli.
I personaggi dunque
sono tre: il padre, il figlio giovane, il figlio maggiore.
Notiamo che i due figli
non parlano mai fra di loro e che il padre parla solo con il figlio
maggiore, mentre con il figlio minore si esprime unicamente con il
linguaggio gestuale dell’amore e dell’accoglienza.
Il figlio più giovane
decide di gestire da sé la propria vita, di avere i beni che afferma
ingiustamente a lui dovuti e di disporne indipendentemente dal padre. Il
suo “peccato” sta nella prima affermazione: «Padre, dammi la parte del
patrimonio che mi spetta. E il padre divise fra loro le sostanze». E’
interessante notare che nel greco il termine “sostanza” è ton bion,
cioè la vita, quel che aveva per la vita. Dunque il figlio prodigo è
colui che non vuol saperne del padre nella gestione della sua vita. Il
suo è un peccato di ricchezza, un voler essere padroni della propria
vita, un escludere di affidare perdutamente e incondizionatamente questa
vita nelle mani del padre.
Gestire la vita esclusivamente da sé significa non vivere più, aver
smarrito il senso, la bellezza, la forza, l’essenza della propria vita.
Ebbene, il figlio giovane prende coscienza di tutto questo quando scopre
la solitudine interiore: «rientrò in se stesso», e percorre un cammino
dalla ricchezza alla povertà. Egli che ha voluto scegliere la ricchezza,
gestire la propria vita, essere padrone di sé, arriva come un povero
davanti al padre per confessare il proprio fallimento e il proprio
nulla. Solo quando prendiamo coscienza di essere peccatori nasce in noi
la nostalgia del Padre e ci mettiamo in marcia per cercare il suo volto
misericordioso.
Il perduto figlio.
- Il figlio
maggiore è l’ultimo personaggio della parabola. Egli è sempre rimasto in
casa, in una situazione di vicinanza fisica al padre. Ma la vicinanza
esteriore non significa necessariamente vicinanza del cuore. Si può
vivere tutta una vita nella casa di Dio e non amare Dio... Si può
“convivere” con Dio come con uno dei tanti feticci dell’esistenza, senza
lasciarsi in nulla segnare o trasformare da Lui. Dopo tanti anni di
convivenza col padre, il figlio maggiore è incapace di comprenderne la
logica di amore e di perdono. Prigioniero della sua solitudine e schiavo
dei suoi interessi («non mi hai dato mai un capretto» Lc 15,29), questo
figlio non è meno lontano dal padre del figlio andato via di casa: la
vicinanza fisica non basta. Quel che conta veramente è la vicinanza del
cuore, è l’essere interiormente innamorati di Dio, perché si può abitare
nella casa del padre e ignorarlo coi fatti. Si può continuamente parlare
di Dio, ma non incontrarlo e non farne alcuna esperienza profonda e
vivificante.
Anche il figlio
maggiore vive il suo dramma: non perdona al padre di avere perdonato il
fratello. E’ lo stesso peccato del figlio più giovane. Il figlio
maggiore vuole lui gestire la vita, farsi lui arbitro e giudice del bene
e del male. Anche in questo caso il padre “esce” per convincerlo, va da
lui quasi a chiedere perdono del suo amore. Il padre invita il figlio
maggiore a una conversione, ad uscire dalla logica del merito e del
profitto, per entrare nella logica dell’amore. Il padre invita il figlio
maggiore a convertirsi alla povertà, a passare dalla ricchezza di chi
presume di giudicare tutto e tutti, alla povertà di chi si lascia
condurre da Dio e giudicare da Dio. Il padre invita il figlio maggiore a
entrare nella logica della gratuità, dell’amore più grande. Ma il figlio
maggiore entrerà in casa a far festa con il padre e il fratello? Sta a
noi completare la storia e dare una risposta. La parabola, infatti, si
chiude con questo interrogativo, perché deve continuare nella vita di
ciascuno di noi.
I sentieri del
riconoscimento e della prossimità
L’imperativo di farsi
prossimo
(Lc 15,25-37)
e di avere
compassione.
- Il samaritano è un protagonista inaspettato: un eretico, un emarginato
dalla comunità cultuale di Israele, simbolo dell’impurità, giudicato dai
Giudei incapace di un autentico rapporto con Dio. Egli vede l’infelice e
ne ha compassione. Ci troviamo alla “svolta” del racconto. Il resto è
solo conseguenza “operativa”. Ebbe compassione: indica il
“ribollire delle viscere”, il lasciarsi afferrare dalla “tenerezza” per
l’altro facendo propria la sua situazione. Si tratta di un’esperienza
intensa che gli apre gli occhi sul valore delle cose, gli fa vedere
l’uomo bisognoso ed emarginato in una luce vera, gli dischiude il cuore
alla carità e alla solidarietà.
L’altro, con le sue
necessità mi interpella e, anche tacitamente, chiede che io impegni la
mia responsabilità.
Avere compassione:
i vangeli ci testimoniano più volte questo sentimento provato da Gesù.
Dinanzi alla supplica di un lebbroso (Mc 1,40-42), quando vede la folla
che lo cercava smarrita «come pecore senza pastore...» (Mc 6,34ss.); al
funerale dell’unico figlio di una vedova (Lc 7,12ss.). Gesù ha occhi
capaci di cogliere i bisogni degli altri, sa farsi carico della loro
situazione, si fa loro “prossimo” e compie il bene di cui hanno
necessità: guarisce dalle malattie, istruisce e dà il cibo, risuscita i
morti!
Ebbene, il Samaritano è
mosso dalla stessa tenerezza di Gesù e si fa “prossimo” del moribondo,
senza neppure chiedersi se è un amico o un nemico, un connazionale o uno
straniero. Sa che ha bisogno di lui, accoglie il suo silenzioso appello
e: «si prese cura di lui». Lo accompagna in una locanda. Spende tempo e
denaro per quell’infelice, non lo lascia al suo destino. Si interessa
del suo futuro. Anzi, coinvolge l’albergatore in questa carità
premurosa, ammonendolo: «Abbi cura di lui» e gli assicura la propria
disponibilità ad andare fino in fondo in questa opera di carità. E’ il
miracolo dell’amore! Il Samaritano è un uomo libero, libero da
pregiudizi, da interessi di parte... da se stesso. E’ fermamente
determinato a prendere a cuore fino in fondo la situazione di bisogno
dell’altro, a impegnare la sua persona per il bene dell’altro, ad
assumersi la responsabilità di una solidarietà senza frontiere. E’ il
cammino dell’uomo in compagnia di Dio!
Prossimo si diventa.
- Il dottore
della legge ha chiesto a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» Alla fine della
parabola è Gesù a interrogarlo: «Chi di questi tre ti sembra sia stato
il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» Con questa parabola
Gesù rivoluziona il concetto di “prossimo”: il prossimo non esiste già,
non è il destinatario della mia carità e della mia premurosa attenzione,
bensì il soggetto che ama. Prossimo si diventa! Prossimo non è lo
sventurato, ma il samaritano nel momento in cui prova compassione,
fa sua la sofferenza di quell’uomo, gli si avvicina offrendogli
un’amicizia radicale e gratuita. Prossimo divento io stesso nel momento
in cui, anche davanti allo straniero o al nemico, decido di
“avvicinarmi”, di essergli significativamente solidale. Anche a noi,
oggi come allora, dopo averci provocati con la sua parola, Gesù ripete
lo stesso e unico imperativo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso!»
Nell’ accoglienza la
trasmutazione delle relazioni:
la provocazione del “terzo”
Due discepoli disillusi
abbandonano il luogo degli avvenimenti, in un certo senso fuggono dalla
città del dolore e dalla comunità smarrita. Mentre camminano, Gesù si
affianca a loro: «Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in
persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci
di riconoscerlo» (Lc 24,15-16). Insieme si riprende la conversazione e
Gesù li invita a ricordare i fatti, a prendere in considerazione tutto,
a non staccarsi mai da quello che è accaduto: «Ed egli disse loro: “Che
sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?” Si
fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèofa, gli disse: “Tu
solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è
accaduto in questi giorni?” Domandò: “Che cosa?”» (Lc 24,17-19). Il
“terzo” è il forestiero, lo straniero: è l’altro, che irrompe nella mia
esistenza e vi giunge come un ad-ventus, come un venire a me. Il
“terzo” è la novità e mi provoca, mi interpella, mi cambia, perché parla
con me e spezza il monologo fatto a due in un dialogo autentico.
Esserci ascoltando.
- I due sono
dei bravi cronisti: raccontano i fatti senza comprenderli. Questa è la
drammaticità del loro monologo dialogato. Sono così precisi nel
delineare gli avvenimenti, ma non si sono lasciati comprendere
dall’avvenuto. I due camminano. Si cammina sempre... Il cammino dei due
discepoli indica che la vita non si ferma, anche quando si fanno opzioni
pragmatiche di ripiegamento in se stessi. La lingua dei due discepoli
non è quella della comprensione, ma della divisione. C’è un contesto di
litigio, di rabbia, di anonimia. Un “terzo”, uno straniero, si fa loro
prossimo e sincronizza i passi con i loro; questi due verbi riassumono
tutta la sua missione: in Gesù, Dio si fa vicino agli uomini, entra
nella loro storia e ridà vita alla loro esistenza quotidiana. Nei due
discepoli è morta la speranza, sono in crisi: «avevano il volto triste».
I due discepoli avevano i loro progetti e le loro speranze, desideravano
un Messia sulla misura delle loro ambizioni. La morte di Gesù,
condannato come un malfattore, non era compatibile con questi progetti:
da qui la profonda delusione. Era rimasta una piccola speranza: la
risurrezione, ma anche questa era fallita: «sono già tre giorni da
quando queste cose sono avvenute» (Lc 24,21) e non era successo niente
che li aiutasse a credere.
Camminando con i due viandanti lungo la strada, Gesù ascolta la loro
storia e li invita ad ascoltare ciò che stanno vivendo. Nel frattempo
Egli tace: è sufficiente che sia “con loro” lungo la via. Prenderà la
parola soltanto quando avranno finito, per rivelare e spezzare i limiti
della loro fede, manifestando ciò che avviene nella storia di ciascuno e
che è possibile “riconoscere”, se si sa veramente ascoltare. Ma,
ascoltare come?
Parola e
discernimento. -
I due discepoli conoscevano molto bene le Scritture, così come ancora
oggi le conoscono gli Ebrei.
Eppure esse non sono
state e non sono per loro un mezzo per riconoscere nel terzo, lo
“straniero”, il volto di Gesù. Ma quello che costa capire è la Passione,
la Croce. «Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere
alla parola dei profeti!”» (Lc 24,25). Ebbene, la parola di Gesù centra
subito l’argomento e dice che dalle Scritture si può desumere che il
Cristo doveva sopportare queste sofferenze per entrare nella sua gloria
(cfr. Lc 24,26). La sua sofferenza ha un senso se viene intesa come
“pasqua”, cioè come un “esodo”, un passaggio da questo mondo al Padre,
un’esaltazione alla gloria. Quelle Scritture sono lette alla luce di una
pienezza: mostrando loro quanto lo riguardava. Questo è il momento
dell’ascolto della Parola, è il momento esaltante in cui la Parola non è
più fredda informazione religiosa e neppure poesia: ma è ormai messaggio
di fede che entra nella conchiglia del cuore e non soltanto nella
conchiglia dell’orecchio. E’ una conquista che i discepoli fanno
lentamente; è il momento della lectio o della liturgia della
Parola.
Educare
all’accoglienza.
- «Fece
finta di voler continuare il viaggio». Perché questa “finta”? E’ la
svolta del racconto: i due escono dalla sfera del privato e dai loro
problemi personali e si aprono all’attenzione al “terzo”, al forestiero.
E’ lì la loro conversione. I due non sono più quelli di prima: delusi,
litiganti, tristi, sconvolti. E senza saperlo lo chiamano per nome:
«Signore».
Avviene come in Gen 18,lss., quando Abramo vede davanti alla sua tenda
tre uomini sconosciuti. E’ il baleno di un’intuizione, che determina un
capovolgimento nello sguardo interiore: egli li ferma, li invita, li
ospita. Ma mentre Abramo intuisce subito nei tre sconosciuti la presenza
del divino, i due di Emmaus hanno ancora gli occhi chiusi, accecati
dalle proprie visioni: non sanno riconoscere l’apparizione disparente
del loro Signore. Ma basta un invito perché il cammino del
riconoscimento si sblocchi nel lampo di un incontro. Proprio al riparo
di una locanda di campagna “scomparendo”, Gesù si rivela. I due
diventano “grandi” perché imparano ad ospitare: nel riconoscimento e
nell’accoglienza ospitale dell’altro si aprono alla prossimità.
Il pane dell’amicizia.
- Entrati in
quella casa, seduti a mensa, si raggiunge la meta ultima. Cristo spezza
il pane. L’espressione “frazione del pane” sarà usata da Luca in At 2,42
per descrivere la comunità di Gerusalemme: «Erano uniti nella comunione
fraterna, nelle preghiere, nell’insegnamento degli apostoli e nella
frazione del pane».
Lo spezzare il pane
eucaristico genera all’improvviso la rivelazione: i «loro occhi si
aprirono». Il racconto lucano è allora una rivelazione del Cristo
risorto a una Comunità accogliente e ospitale, all’interno della
liturgia della Parola e della liturgia Eucaristica.
Luca vuol dire a tutti
i cristiani che verranno: Voi che siete magari pieni di nostalgia per
non aver potuto conoscere il Cristo nella carne, ebbene Cristo voi lo
incontrate ogni volta che aprite il cuore al riconoscimento dell’altro e
vi piegate alla prossimità ospitale e gratuita, ogni volta che vi
abbeverate alla parola di Dio, ogni volta che celebrate l’Eucaristia.
Ma è solo un attimo:
Gesù si rende nuovamente invisibile, i due discepoli però non cadono
nella tristezza. Sanno già quello che devono fare: ritornare a
Gerusalemme e, sulla base della loro esperienza di fede, ricostruire con
gli altri discepoli la comunità.
«A chi di noi l’albergo
di Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada una
sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto per noi. Ce l’avevano
preso... Noi seguivamo una strada. Ed ecco qualcuno ci veniva a lato.
Eravamo soli e non soli, era la sera.
Rimani con noi, poiché
il giorno declina!» (François Mauriac).
Giunti al villaggio,
Gesù non impone la sua presenza, ma accetta il rischio della loro
capacità di accoglienza. E i discepoli invitano Gesù a rimanere. Entrati
nella casa, tutto si svolge nel più assoluto silenzio: non servono più
le parole. Gesù ha spezzato il pane della Parola di Dio e ora spezza con
loro e per loro il pane dell’amicizia e della comunione. Appena i
discepoli si aprono all’intelligenza della fede, Gesù si ritrae. La sua
presenza non è più necessaria, in quanto adesso sono capaci di camminare
da soli.
Il pane nel suo
rompersi apre, libera l’invisibilità del mistero e rifrange una luce
corrispondente agli occhi, che di fatto si aprono a una visione mai
intravista. Il pane spezzato risuscita nel cuore la memoria. Ma non si
tratta di un ricordare nostalgico, bensì di un “fuoco” che rischiara il
cammino dal passato verso il presente e illumina il sentiero notturno
che si deve intraprendere. I due di Emmaus attraversano il buio della
notte perché hanno attraversato la luce dell’ospitalità. Il cammino del
ritorno avviene nella notte, ma anche quella notte per i discepoli si
riempie di luce: ora essi “vedono”. La loro meta non era Emmaus, ma
Gerusalemme e ritornano in fretta alla “loro” città per aiutare gli
altri a vedere. Non importa che poi gli altri capiscano o credano, quel
che importa è aiutarli a capire e a credere condividendo la gioia della
speranza ritrovata, in una pedagogia di riconoscimento e prossimità.
«Tutto ciò accade nel
più grande silenzio. La divisione del pane, il dischiudersi degli occhi,
il muto riconoscimento, la scomparsa sono durati appena un istante... Un
istante per intravedere l’apparizione disparente e poi tutta la vita per
stropicciarsi gli occhi e parlarne!... L’uomo che ha riconosciuto, fosse
anche una sola volta in vita sua, fosse solo per lo spazio di un
istante, la purezza l’innocenza a lungo disconosciute, potrà dire
anch’egli: Ieri sera alla locanda un viaggiatore sconosciuto aveva un
non-so-che di lontano nello sguardo; il suo volto era dolce e stanco;
sui sandali si vedeva ancora la polvere del cammino. E questo
sconosciuto era un dio. E questo sconosciuto era Dio» (V. Jankèlèvitch).
Restituire l’altro a
se stesso. -
I farisei hanno denunciato, e denunceranno ancora, Gesù che mangia con
“i peccatori” (cfr. Lc 7,39). Questo, secondo la cultura del tempo,
significa diventare a propria volta peccatori. Farsi toccare da una
peccatrice, come nel nostro caso, equivaleva a diventare impuro e
condividere la sua stessa condizione di peccato.
L’atteggiamento di Gesù
sconcerta i cosiddetti “giusti”, e perfino Giovanni Battista, che dal
carcere invia i suoi discepoli a interrogare Gesù: «Sei tu colui che
deve venire, oppure ne dobbiamo aspettare un altro?» (Lc 7,19). Proprio
in questo contesto Luca colloca l’incontro tra il presunto giusto e la
pubblica peccatrice riconosciuta tale nel suo villaggio. Gesù è posto,
dunque, fra due tipi di umanità: la donna impura e l’uomo puro. E allora
accetta l’invito di Simone e anche quello inaspettato della donna
peccatrice. Tutti e due, di fatto, lo invitano anche se solo Simone gli
rivolge l’invito ufficiale. Ma chi lo invita veramente è la donna.
La situazione in casa
di Simone. -
E’ una situazione ambigua. C’è un uomo, Simone, che si crede importante,
che ha in mano la situazione e che non ha rischiato niente: ha ricevuto
Gesù, ma col minimo della cortesia, perché così pensa di riuscire ad
accontentare tutti! Partecipare alla mensa simboleggiava in Oriente la
comunanza di vita e l’amicizia. Qui il clima non è di amicizia; il
fariseo non compie nessun gesto di stima verso Gesù: non gli ha dato la
possibilità di rinfrescarsi e di profumarsi un po’ e neppure quel
tradizionale bacio che si dà ad ogni invitato.
Ricevendo Gesù, si
dimostra uomo aperto, capace di affrontare le nuove idee; non
rendendogli però tutti gli onori dovuti, può sempre dire di averlo
tenuto a bada. Questo salvarsi con tutti, senza però impegnarsi, è
esattamente l’immagine dell’agire politico che sempre ci minaccia: sì,
facciamo una cosa ma in maniera che nessuno possa criticarci e così
navighiamo, con estremo equilibrio, tra le due parti, senza
comprometterci.
A un certo punto entra
una donna e rompe tutte le convenzioni creando un enorme disagio per
tutti. La comparsa della donna presuppone non solo il fatto che ella
conoscesse la presenza di Gesù in casa del fariseo, ma anche che lo
avesse precedentemente incontrato e ne fosse rimasta molto
impressionata, anzi probabilmente già perdonata. Questo si nota pure
nell’uso del verbo al perfetto usato da Luca: afeontai ai amartiai
autes ai pollai, oti egapesen polu: «I tuoi peccati sono stati (nel
passato e continuano nel presente ad essere) perdonati perché veramente
amasti tanto».
La
donna, in un gesto di confessione pubblica, compie verso Gesù quei segni
di affetto, di riconoscenza, di venerazione, che nessuno aveva saputo
compiere. A questo punto Gesù dimostra una grande capacità di rovesciare
le posizioni: con una opportuna parabola fa capire che l’imbarazzato,
l’intruso, colui che non ha saputo agire è Simone; la persona che si è
comportata in maniera degna della situazione, vera, reale, umana, è la
donna: è lei che ha capito, è lei che ha vissuto questa realtà.
Il fariseo in noi.
- Simone
siamo noi quando non comprendiamo le situazioni, valutandole secondo
criteri di forma esteriore e senza sforzarci di penetrarle. Simone siamo
noi quando giudichiamo gli altri senza remissione, creando così molta
sofferenza. A Simone non viene assolutamente in mente che la peccatrice
possa avere una storia: è una donna, che ha dei problemi, delle angosce,
che non è stata magari aiutata da nessuno, che potrebbe avere dei
momenti di risalita. Non pensa nemmeno che questa donna sta facendo uno
sforzo di impegno. Secondo Simone, la donna non appartiene alla
categoria di persone che possono migliorare.
Simone non è morto, ma
vive in noi, vive nelle nostre comunità, vive nella nostra società con
le sue virtù, le sue doti, la sua onorabilità e anche con la sua
ottusità non evangelica, la stessa con cui pretende poi di dettare legge
a Gesù: se sapesse, se fosse davvero un profeta! Simone siamo noi, tutte
le volte che, invece di accusare noi stessi e di domandarci in che cosa
stiamo sbagliando, ci precipitiamo a giudicare gli altri!
Riconoscimento e
prossimità... senza calcoli.
- La donna fa ciò che può e che sa fare. Lo fa con tutta se stessa, al
di là del puro razionale. Ciò che fa è certamente eccessivo visto in sé
e tocca il limite della convenienza. Ma lei vuole esprimere ciò che
sente essere mancato a Gesù e ciò che Gesù merita. Agisce al di là del
calcolo. Ha compreso la trascendenza di Cristo, per il quale non si fa
mai abbastanza e non ci sono regole o limiti, perché è la totalità e
richiede la totalità! La cosa sconcertante è che questa donna, già
quando viene a sapere dell’arrivo di Gesù, già quando comincia a pensare
come raggiungerlo, quando coltiva il desiderio di cambiare, già da
allora si sente perdonata. Perché sa chi essa è davanti a Dio, comprende
il proprio peccato e vuole in tutti i modi abbandonarlo. Ma per
riuscirvi ha bisogno di essere accolta, non ce la fa ad uscire da sola
dalla propria situazione. E allora va da Gesù con fiducia, perché si
sente già accolta e perdonata.
La donna personifica il
dono di sé. Chi ama dà ciò che ha. La donna ha l’unguento, ha il suo
olio profumato, ha la sua capacità di attenzione. Con molta semplicità
dà ciò che ha, senza pensarci troppo. Gesù, da parte sua, dà la sua
stima, la sua attenzione, il suo giudizio favorevole, la sua
accettazione in un momento particolarmente difficile. C’è uno scambio di
doni. Donare significa comunicare ciò che veramente possediamo, poco o
molto che sia, senza domandarci se è poco o se è molto. Il dono è una
dichiarazione di importanza. La donna che va in casa di Simone, infatti,
considera Gesù più importante della sua reputazione, di tutte le
convenienze. Gesù considera la donna e la sua dignità, la sua verità,
più importante di coloro che si aspettavano di essere da Lui gratificati
e che lo avrebbero criticato, e si espone senza preoccuparsi degli
altri.
Il dono implica uno
sbilanciamento, un rischio! Il dono entra e scava nel mistero della
persona. Il dono è qualcosa di assolutamente gratuito e immeritato. La
parola che meglio esprime questo dono assoluto è perdono, cioè un dono
perfettissimo, è il dono che Gesù fa alla donna: «Ti sono perdonati i
tuoi peccati...»
Il sapersi perdonati
genera una capacità di dono: «... perché molto hai amato...» Il fariseo
non può partecipare alla danza dell’amore perché non ha partecipato al
riconoscimento del suo peccato! La donna peccatrice è nell’ottica
dell’amore. Simone no: è nell’ottica della religiosità formale. Se noi
ci pensiamo vicini a Dio, forse, in realtà, siamo ancora lontani, come
Simone. Credere in Dio, invece, è scoprire la nostra lontananza da lui,
avere il coraggio di attraversarla riconoscendo il nostro peccato. La
peccatrice sa uscire di casa incontro a una vita nuova, nella fiducia di
una relazione di gioia e di amore. Infine Gesù dice alla donna: «La tua
fede ti ha salvata». Amando in quel modo, la donna ha iniziato già un
cammino di fede: «Va’ in pace». Gesù le fa il dono dello shalom,
di una pace ritrovata. Non più il tormento, le paure, ma la dilatazione
dell’animo, l’esperienza di un incontro che ha cambiato la sua vita.
Amo te in te
«Era il mese d’agosto
quando lo rividi. Stava seduto all’ombra del cipresso, là nel
giardino...
Guardai, e fremette
l’anima mia, perché lui era bello...
Fu la mia solitudine, o
la sua fragranza che mi vinse? Fu una fame dei miei occhi anelanti
bellezza? O fu la sua bellezza a cercare la luce dei miei occhi?
Ancor oggi, non saprei
dirlo.
Mossi verso di lui con
i miei abiti profumati, e calzavo sandali dorati, i sandali che m’aveva
donato il comandante romano, questi sandali che vedi. E quando l’ebbi di
fronte gli dissi: “Buongiorno a te”.
E lui disse:
“Buongiorno a te, Miriam”.
E mi guardò, e i suoi
occhi notturni mi videro come nessun uomo mi aveva mai vista.
D’improvviso fui come
nuda, e ne ebbi vergogna.
Eppure mi aveva solo
detto: “Buongiorno a te”...
E la voce del mare era
nelle sue parole, e la voce del vento e degli alberi. E quando le
pronunciò, la vita parlò alla morte.
Perché, amico mio, io
ero morta, sappilo. Ero una donna che aveva divorziato dall’anima.
Vivevo separata da
questo essere che ora vedi. Appartenevo a tutti gli uomini, e a nessuno.
Prostituta, mi
chiamavano, e donna posseduta da sette demoni. Ero maledetta, ed ero
invidiata. Ma quando i suoi occhi d’aurora guardarono i miei occhi,
tutte le stelle della mia notte si dileguarono, e io divenni Miriam,
solo Miriam, una donna ormai perduta alla terra che aveva conosciuto, e
che si era ritrovata in un mondo diverso...
Lui allora mi guardò, e
il meriggio dei suoi occhi era su di me, e disse: “Tu hai molti amanti,
ma io solo ti amo. Gli altri, quando ti sono vicini, amano se stessi: io
amo te in te stessa. Altri uomini vedono in te una bellezza che
appassirà prima ancora dei loro anni. Ma io vedo in te una bellezza che
non appassirà mai, e nell’autunno dei tuoi giorni questa bellezza non
avrà paura di specchiarsi, e non conoscerà oltraggio.
Solo io amo in te
l’invisibile”.
Allora si alzò e mi
guardò proprio come immagino che le stagioni dall’alto guardino verso il
campo: sorrise. E ancora disse: “Tutti gli uomini ti amano per loro
stessi. È per te che io ti amo”.
Poi se ne andò.
Nessun altro uomo
camminò mai come lui camminava. Era un soffio nato nel mio giardino, che
alitava verso oriente? O una tempesta, che avrebbe squassato sin dalle
fondamenta tutte le cose?
Non lo sapevo, allora,
ma quel giorno il tramonto dei suoi occhi uccise in me il drago, e
divenni una donna, io divenni Miriam, Miriam di Mijdel».
(Kahlil
Gibran, Gesù Figlio di Dio)
*
Vescovo di Caltanissetta:
biblista e saggista.
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