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La
vita consacrata vive oggi in un campo di tensioni difficilmente
padroneggiabile. La totale delegittimazione culturale della dimensione
vocazionale della vita (non solo religiosa quindi) si accompagna alla
sofferenza di frutti scarsi e di un cammino incerto. In un romanzo dal
titolo provocatorio (Bastarda), Christine Grän fa dire alla
protagonista: «Io preferisco non essere nessuno e non fare alcuna
esperienza del dolore, sono disposta a sopportare qualunque cosa, anche
a uccidere, pur di rimanere in vita. Sono pronta a tradire ogni amico e
ogni amante sotto la minaccia della tortura. A rinnegare qualsiasi
causa, se ne avessi una. Ad abbandonare il mondo alla sua fine, se io
posso sopravvivere». E con un anacoluto fulminante illustra «il
senso della vita clonato di una generazione che onora il dio ego e non
ha nel proprio corpo la scintilla della dedizione di sé» (Neri
Pozza, Vicenza 2002, pp. 138 e 171). Una condizione difficile in cui,
per contrasto, cresce l’apprezzamento per chi non si adatta. Come diceva
il Rabbi di Czorthokow: «Io dico che questa generazione, in cui Dio
si occulta a noi, è migliore di quella del deserto. A quella fu concessa
la grande rivelazione, poiché, com’è noto, allora una serva vedeva più
che in seguito il profeta Ezechiele, e avevano potenti forze spirituali,
e il loro maestro era Mosè. Ma ora è il grande occultamento, e le forze
sono poche, eppure quando si sente una piccola oncia di rivelazione si è
esaltati e lieti. Perciò io dico: questa generazione è migliore di
quella del deserto» (M. Buber, I racconti dei Chassidim,
Parma 1992, p. 336).
Difficile il contesto
culturale, ma non meno problematico quello ecclesiale dove accanto alla
riaffermazione piena della vita consacrata si raccoglie la percezione di
un suo «inevitabile» tramonto. Ciascuno sente la verità e pertinenza
delle parole di Vita consecrata: «L’universale presenza della
vita consacrata e il carattere evangelico della sua testimonianza
mostrano con tutta evidenza – se ce ne fosse bisogno – che essa non è
una realtà isolata e marginale, ma tocca tutta la Chiesa […] la vita
consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo
per la sua missione, giacché “esprime l’intima natura della vocazione
cristiana” e la tensione di tutta la Chiesa-sposa verso l’unione col suo
sposo. Al sinodo è stato più volte affermato che la vita consacrata non
ha svolto soltanto nel passato un ruolo di aiuto e di sostegno per la
Chiesa, ma è dono prezioso e necessario anche per il presente e per il
futuro del popolo di Dio, perché appartiene intimamente alla sua vita,
alla sua santità, alla sua missione» (EVC 6948). Ma basta guardarci
attorno e il giudizio può rovesciarsi. «Tutto indica che in Europa
occidentale siamo ormai prossimi alla dissoluzione virtuale della vita
religiosa così com’è stata finora, e cioè un collettivo con forza e
significato sociale ed ecclesiale rilevante»: l’affermazione del
sudamericano J.M. Virgil è ampiamente condivisa, seppur con sfumature
diverse. Si percepisce che un mutamento profondo è in atto e
l’estinzione di una parte significativa della vita religiosa è
possibile.
Il campo di tensione
culturale ed ecclesiale è ulteriormente turbato dalle modifiche interne
al mondo della vita consacrata. Accenno solo a due elementi: la dinamica
demografica e la plurietnicità delle comunità.
La vita religiosa
femminile in Italia – come è stato ricordato più volte dal camaldolese
Giovanni Del Piaz – è stata attraversata nel Novecento da due dinamiche
contrapposte di espansione e di riduzione. La prima iniziata negli
ultimi decenni dell’Ottocento, e poi continuata fino agli anni ’60, è
stata caratterizzata da un rapido sviluppo in termini numerici e di
presenze territoriali. Nel 1871 le religiose (incluse le claustrali)
erano 29.707, nel 1901 erano 40.250 (+ 35%) e nel 1971 erano 154.790
(delle quali circa il 10% sono monache). Con gli anni ’70 comincia il
calo, mascherato un po’ dall’allungarsi della vita media. Con l’esito di
una vita religiosa ancora consistente nella sua struttura numerica, ma
assai fragile nelle prospettive di durata. Alla generazione più anziana
manca, infatti, il ricambio. E ciò determina in tempi rapidi
l’impossibilità di mantenere i livelli di presenza raggiunti in
precedenza. Dal 1971 al 2001 il calo per la vita consacrata femminile è
del 28%: da 154.790 a 111.032. La riduzione vale sia per la vita attiva
che per quella monastica, ma con una maggiore resistenza di quest’ultima.
Il secondo elemento è la crescente presenza di consorelle straniere
nelle comunità italiane. Nel 1983 le religiose italiane all’estero erano
9.690 e quelle straniere in Italia 3.480. Nel 2001 le italiane
all’estero erano calate del 24% (7.333), mentre le suore operanti in
Italia ma provenienti da altre aree culturali e sociali erano cresciute
del 177% (9.651). Ciò è ancora più evidente a livello di novizie. Nel
2001 delle 1.212 novizie presenti in Italia il 69% (842) era costituito
da straniere e il 31% (370) da italiane. Ci avviamo a una vita religiosa
multietnica, in termini più accelerati di quanto avviene a livello
sociale. Il fatto può essere una opportunità, ma esso impone alle
comunità la necessità di imparare a dialogare con le diversità
culturali. La consorella straniera non porta solo aiuto ma anche un modo
particolare di vedere l’esistenza e le dinamiche comunitarie con il
quale non è sempre agevole accordarsi.
Il campo di tensioni in
cui la vita consacrata vive la costringe a un ripensamento profondo che
si può evocare attraverso una triplice polarità: violenza e fortezza,
disperazione e speranza, continuità e rifondazione.
1. Violenza e
fortezza.
Uso il
termine violenza in una accezione molto ampia. Chi ha fatto la scelta
religiosa conosce la dolcezza e la violenza di un rapporto con Dio che
pretende una radicalità assoluta e una disponibilità sempre rinnovata.
L’annuncio di Dio e della vita eterna è il proprio che orienta il
testimone della fede. È al mondo per dire questa parola: il resto è già
noto. «Dal giorno di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei
cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12).
Ma si esperimenta violenza anche nella vicenda storica e anche
all’interno delle comunità. Anche in questo caso vi sono aspetti
positivi (la lotta per la giustizia o la fortezza per favorire un
cambiamento coerente con il proprio carisma), ma anche i pesi e le
negatività censurabili. La forma più comune per evitarsi la fatica della
propria storia, per non esercitare la virtù della fortezza è quella
delle dimissioni implicite («per la mia congregazione o il mio monastero
non c’è più nulla da fare») o delle giustificazioni improprie («la vita
consacrata è ormai emigrata verso il terzo mondo, qui non c’è più aria
sufficiente»). Sta venendo meno l’identificazione della vita consacrata
con lo spazio europeo. La vita consacrata nata alla periferia
dell’Europa (Egitto-Siria e Inghilterra-Irlanda) ha conosciuto lo
sviluppo storico nel continente. Le filiazioni esterne non sono state in
grado nei secoli passati di piantare radici profonde. È una costante
storica che sembra in via di smentita. La vita consacrata mette davvero
radici anche altrove (Africa, Asia, America Latina). Ma sarebbe
improprio delegare il futuro solo ai Paesi del Terzo Mondo senza operare
per una persistenza della vita consacrata anche nel quadrante europeo.
Ciò che sta succedendo in Europa «ha acquisito una rilevanza
teologica e un significato religioso che giustifica l’attenzione del
cristianesimo mondiale a questo continente, intravedendo in esso
un’approssimazione a quello che può essere il proprio futuro».
«Alla creazione di una espressione religiosa radicalmente nuova in
coerenza e in risposta creativa alla crisi europea della religione
possono contribuire solo coloro che l’abbiano vissuta e compresa da
dentro in tutta la sua profondità» (J.M. Virgil).
La capacità di
resistenza e l’esercizio della fortezza e della vigilanza sono messi
alla prova dalla decadenza degli istituti e dallo sfarinarsi della
concezione che faceva della vita consacrata lo “stato di perfezione”.
Come diceva M. Buber: «La decadenza di un grande movimento,
specialmente di un grande movimento religioso, mi sembra la più dura
prova a cui possa essere sottoposto un uomo di fede».
T. Radcliffe,
ex-maestro generale dei domenicani, faceva notare che il rinnovamento è
impossibile «se evitiamo di affrontare la morte delle nostre
istituzioni. Oggi, nell’Europa occidentale, molte congregazioni,
comunità, monasteri e province devono affrontare la morte. Per evitare
tale realtà esistono diverse strategie. Possiamo beatificare il
fondatore, iniziare costosi programmi edilizi, redigere splendidi
documenti su progetti che non saranno mai realizzati... Se non siamo in
grado di affrontare la prospettiva della morte, allora cosa abbiamo da
dire al Signore della vita? Una volta dovetti visitare un monastero
domenicano in Inghilterra insieme a un vecchio frate. Era evidente che
il monastero stava per estinguersi, tuttavia una delle suore disse al
mio compagno: “Sicuramente, padre, il buon Dio non permetterà che questo
monastero muoia!” Ed egli rispose: “Non ha lasciato che morisse suo
Figlio?”». E Martinez Diez aggiunge: «La semplice possibilità di
morte o di scomparsa suscita nelle congregazioni un terrore panico. La
sola presentazione di alcune problematiche in assemblee o capitoli
risulta traumatizzante… Spesso manca il coraggio istituzionale o
evangelico per prendere queste decisioni (chiudere opere o comunità) e
portarle a termine. E, tuttavia, in alcuni casi si dovrebbe morire prima
di entrare in accomodamenti e capitolazioni poco evangeliche».
Archiviato lo “stato di perfezione” tutte le esperienze che il cristiano
vive, illuminate dal Vangelo, sono vie di santità: la professione, la
famiglia, l’impegno pubblico, ecc. Lo sono anche i consigli evangelici,
ma senza che ad essi venga riconosciuto un alone di particolare
qualificazione.
La comunità religiosa
non vive in un luogo asettico e non può sottrarsi alle influenze della
violenza che attraversa il tessuto vitale dei cittadini. Si percepisce
la fatica della reazione alla malavita organizzata in diverse comunità
religiose, là dove il fenomeno si presenta (dalla Sicilia alla Calabria,
dalla Campania alla Puglia). Più ampiamente le comunità percepiscono e
talora esperimentano la crescita del conflitto sociale, la consunzione
dell’ethos collettivo, la crisi dello stato sociale, la forma
aggressiva della comunicazione mediale, il disprezzo per il povero.
Va riconosciuta la
presenza di una indebita violenza anche all’interno della pratica
ecclesiale. Qui rimando semplicemente allo studio di p. Camilo Maccise (Regno-doc.
n. 1/2004, p. 17). Se non esiste una violenza fisica tuttavia ci sono
violenze di tipo morale e psicologico. Ricordo il centralismo («è una
forma raffinata di violenza perché concentra il potere di decisione in
una burocrazia ecclesiastica che ignora le sfide che affrontano i
credenti nei diversi ambiti socio-culturali ed ecclesiali, che è lontana
dalla realtà della vita, incapace di ammettere la multiformità»);
l’autoritarismo patriarcale (con l’«esclusione delle donne dagli
spazi di partecipazione in vari settori e a tutti i livelli, anche nei
processi di elaborazione delle decisioni, soprattutto in ciò che le
riguarda»); il dogmatismo («senza distinguere fra l’essenziale
della fede cristiana e le sue forme di espressione teologica, il
dogmatismo porta a imporre una sola prospettiva teologica, quella
tradizionalista, elaborata a partire da condizionamenti filosofici e
culturali di epoche passate»).
Ma qui interessa
soprattutto quella violenza indebita che si esercita o si manifesta
dentro la vita della comunità. In primo luogo la violenza legata a un
esercizio improprio del potere. «La dimenticanza della complessità
delle persone e delle comunità e l’assenza di ascolto e di concertazione
rendono in parte inoperante il delicato compito del governo e rischiano
di secernere un clima deleterio, portatore di una violenza quasi
istituzionalizzata» (L. Crepy). Qualche forma di violenza può
nascere anche dal sentimento di frustrazione in chi non trova nella
comunità il riconoscimento e lo spazio giudicati essenziali. È violenza
negare i gesti aggressivi in nome dei valori evangelici, perché il
riconoscimento è il primo, passo di una sana fortezza cristiana. È
violenza affermare la fraternità o la sororità senza costruirla giorno
dopo giorno. È violenza demonizzare la conflittualità e il contrasto
quando rispondono a criteri di giustizia e di rispetto. È violenza
pensare che il perdono sia impossibile e che il Vangelo sia
impraticabile. «È assai probabile che solo “l’eccesso della fede”
possa contenere “l’eccesso della violenza” […]. Solo questa dismisura
del credere, qui intesa come confidenza senza calcolo, sfugge alla
spirale della violenza, rifiutando l’eccesso e preferendogli
l’interpretazione critica e dialogante, rende possibile l’assorbimento
della violenza e mantiene aperto lo spazio comunitario ove possono
essere proposti, al momento opportuno, il perdono che rompe la
concatenazione dei mali e la promessa che dà un nome nuovo all’avvenire»
(B-M. Duffé).
Sono espressioni di
violenza quegli atteggiamenti che pretendono di essere sottratti alla
regola o alle disposizioni comuni, giustificati dalla forza del proprio
ruolo o dalla ribellione agli ammonimenti. È violenza la svalutazione
dei dati istituzionali e delle decisioni conseguenti. Atteggiamenti che
l’attuale difficoltà della vita consacrata rende meno gestibili.
«Certe comunità, in particolare quelle segnate dall’invecchiamento,
vivono delle vere esperienze di morte: riduzione degli effettivi,
fusioni con altre comunità, crescente angoscia per l’avvenire. Conflitti
che sarebbero stati affrontati agevolmente nei momenti di crescita si
esasperano nelle situazioni di declino. Si tratta di riflettere sui
mezzi da mettere in opera per aiutare le comunità ad affrontare – come
si fa con certi nuclei familiari – i momenti di “rimessa in questione”,
l’elaborazione del lutto, le esperienze di morte» (J. Arénes).
L’attenzione ai dati di
violenza e alle richieste di fortezza insiti nella vita consacrata,
oggi, non vuole convergere negli strumenti di natura psicologica o di
compromesso dimissionario. I valori antropologici delle persone e delle
comunità non avrebbero senso fuori della dimensione teologica e
spirituale. Non è condivisibile la convinzione che l’acquisizione di un
primo livello di umanità sia premessa necessaria per sviluppare poi la
dimensione cristiana e religiosa. Nel nostro caso, che il controllo
della violenza e l’esercizio della fortezza siano premesse alla
comprensione spirituale del proprio vivere. Fede e carisma sarebbero
ridotti a semplice sovrastruttura. L’ispirazione e la “forma” con cui
attraversare questa stagione non può che riferirsi al Cristo. È
necessario essere avvertiti e liberati da «una mentalità
fondamentalmente segnata da un dualismo tra umano e divino, una
mentalità dunque che non ragiona nei termini di una cristologia vera. Su
questo sfondo dualista si percepiscono inoltre paure di dogmatismi, di
violenze sull’umano ecc., timori che abitano una mentalità abituata a
ragionare in termini di concetti e di forme, ma non di vita spirituale.
Un ragionamento spirituale coglie una compenetrazione vivificante della
dimensione spirituale con quella psichica e della psichica con quella
fisica, evitando in tal modo antagonismi e contrapposizioni di vario
tipo. Ma uno sguardo così integro esige una dimensione pneumatologica,
cioè la presenza dello Spirito santo nella comprensione dell’uomo e
nella sua definizione. Una visione dell’uomo che include lo Spirito
santo, farà sì che un intervento medico, terapeutico sia inseparabile
dalla dimensione spirituale. Mentre si lavora sulla persona con una
scienza ausiliaria, come può essere la psicologia, lo sfondo di tale
intervento non potrà essere che spirituale» (M.I. Rupnik).
Per questo, in momenti
di gravi tensioni come l’attuale, è bene riandare alle questioni
critiche di fondo. Non tanto quindi ad osservazioni come quelle proposte
dalla teologia liberale che esauriva la vita consacrata in una
dimensione antropologica comune a tutte le religioni, quanto alle
radicali affermazioni di Lutero. Per lui i voti pretendono di aggiungere
qualcosa alla salvezza operata dal solo Cristo. Sono dunque contro il
Vangelo ed è necessario escluderli. «Questo attacco acquisisce tutta
la sua forza quando la si misura a partire dalla sua collocazione
propria e cioè l’ecclesiologia: cosa potrà fare l’uomo che il Cristo,
uomo-Dio, non abbia già portato a compimento? Se non – è necessario
rispondere – riprendere nella Chiesa la parte che le compete di dialogo
da sposa verso lo Sposo. Se l’amore rende uguali gli amanti, è la
visibilità stessa dell’incarnazione del Verbo che è in gioco nella
capacità negata (da parte protestante) o affermata (da parte cattolica)
per la libertà umana di rendere a Dio grazia per grazia. E uno dei
luoghi ove si attesta ancora oggi la manifestazione del Cristo nella
carne, sembra davvero essere, oltre al contesto sacramentale prima
evocato, il rapporto della vita consacrata con i consigli evangelici»;
«essa appare sistematicamente come una sorta di istituzione della
vita evangelica (non per il modo del ministero, ma per quello del
carisma e del dono)» (N. Hausman).
2. Disperazione e
speranza.
«La denuncia è franca, allarmata, addirittura allarmistica, come lo
sono spesso tutte le diagnosi a proposito della nostra epoca e del suo
destino. La filosofia segreta del nostro tempo sarebbe la paura; nel
futuro è vista soltanto una minaccia; la vita appare soprattutto a
rischio; nell’anima non rimane posto per altra cura che questa, sventare
la minaccia. Non sorprende che una filosofia come questa alimenti il
cinismo» (G. Angelini). La speranza è un bene fragile. Il suo fuoco
è sovente tenue anche nella vita cristiana e nella vita religiosa. Lo
aveva intuito Charles Peguy: «La piccola speranza avanza tra le due
sorelle grandi (la fede e la carità) e non si nota neanche… E non si fa
attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle
grandi». Quasi invisibile, la piccola sorella sembra condotta per
mano dalle due più grandi, ma col suo cuore di bimba vede ciò che le
altre non vedono. E trascina con la sua gioia fresca e innocente la fede
e l’amore nel mattino di Pasqua. Se la speranza è presente nel cuore di
ogni uomo e donna, il Crocifisso risorto è il nome della speranza
cristiana.
È una stagione che
mette alla prova, ma proprio per questo si configura come promettente.
Ripensando ai miei molti confratelli morti nel Congo, ricordo la vicenda
di un gruppo di suore che all’inizio del ‘900 arrivarono sulle sue
sponde e cominciarono a marciare per raggiungere la loro destinazione
all’interno. Dopo qualche tempo due o tre morirono e le altre
continuarono. Poi ne morirono altre, fra cui la superiora, ma le altre
continuarono. Così di seguito. Nessuna di esse arrivò mai alla missione
a cui era destinata. E tuttavia, se oggi quella terra fiorisce di vita
cristiana (con tutte le incertezze del caso), questo è dovuto anche
all’insensata ostinazione di quelle suore. Nella debolezza del nostro
tempo la riaffermazione della speranza dentro la vita religiosa è forse
la prova più discreta dell’esistenza di Dio.
Alla domanda clamorosa
e inespressa di speranza della nostra generazione, la vita consacrata
può rispondere mostrando l’attesa del tempo che viene, la dimensione
escatologica della vita, l’inappagato non-ancora, la risurrezione della
carne e, contestualmente, facendo memoria della vita umile, casta e
consegnata, scelta dal Cristo per se stesso e abbracciata da Maria sua
madre. «La vita consacrata non rappresenta solamente una sorta di
lettura spirituale della Scrittura, ma anche una delle interpretazioni
più autentiche, poiché vi si attesta come, così come afferma Ignazio di
Loyola alla fine degli Esercizi spirituali, l’amore debba collocarsi più
nelle opere che nelle parole. Ciò significa che questa tradizione
ecclesiale è capace di ispirare non solo quelli e quelle che vi
partecipano, ma ancora gli altri stati di vita che essa continua a
confermare» (N. Hausman). Forma impegnativa che avverte lo specifico
dell’Amore nel processo chenotico dell’abbassarsi, fino al niente, e –
come dice Teresa di Lisieux – «trasformare in fuoco questo niente».
La vita consacrata sa
di non avere altro futuro che quello della Chiesa stessa, della Chiesa
nella sua forma universale come in quella locale. Il trattato sulla
Chiesa è parte della dogmatica, ma anche della teologia spirituale e,
conseguentemente, la teologia della vita consacrata è ultimamente una
teologia spirituale. Come non si può parlare della Chiesa senza evocare
l’amore che l’unisce all’unico Signore, come non si può argomentare
sulle note ecclesiali, sulla sua costituzione, sulle sue forme storiche
o sui suoi sacramenti senza parlare dei santi e dei martiri, così non si
può parlare della vita consacrata senza la dimensione della teologia
spirituale. La speranza della vita consacrata, come per la Chiesa, è
nella trafittura del cuore di Gesù (Gv 19,31-37).
Segni di speranza e
tracce di futuro possono giungere dalla galassia delle nuove e spesso
piccole comunità in cui si praticano i consigli evangelici e si adotta
la vita comune. Sorgono con molta effervescenza nell’Occidente
scristianizzato: sono circa 700 negli Stati Uniti e numerose anche in
Francia. Si configurano talora come monasteri, talora come comunità di
servizio o come forme espressive di un movimento ecclesiale. Le loro
caratteristiche più comuni (G. Rocca) sono da un lato il loro fiorire in
Occidente, dall’altro la dimensione contemplativa (ma senza le norme
canoniche relative alla clausura). Sono spesso comunità miste (uomini e
donne) con temporaneità dei voti e la presenza di sposati. Molte di esse
sono legate alla diocesi e agiscono con un forte interesse ecumenico. Le
loro opere e servizi coinvolgono tutte le componenti. Fanno spesso
riferimento al Pontificio Consiglio dei laici piuttosto che alla
Congregazione per la vita Consacrata. Il loro rapporto con l’insieme
della vita religiosa è ancora in fieri.
Utili a indicare i
segnali di speranza sono anche i religiosi e le religiose giovani.
Dovremo forse interrogarci di più non perché i giovani e le giovani non
vengono a noi, ma perché vengono e quali sono le loro caratteristiche.
Entrano con una immagine abbastanza confusa della vita consacrata e
partecipano con la loro generazione un crescente distacco che non è solo
generazionale. Una inchiesta fra i giovani del Triveneto mostra per 8
giovani su 10 una resistenza (fatta di stupore, disagio e imbarazzo)
davanti all’idea che un amico possa farsi religioso o religiosa. Entrano
in ogni caso in età più adulta, come del resto affrontano altre scelte
come il matrimonio verso i 30 anni, con alle spalle una lunga esperienza
di inserimento nella realtà scolastica, lavorativa e sociale. Sembrano
singolarmente disponibili a un percorso mistagogico che dal contesto
profano affronti la soglia del sacro e del santo. «In chi oggi si
avvicina alla vita religiosa vi sono aspettative “alte” proprio perché
lo fa dopo un’esperienza più o meno lunga di attività lavorativa e più o
meno positiva di relazioni umane. Ci si aspetta un ambiente
qualitativamente “diverso” da quello conosciuto nella quotidianità della
vita laicale. In particolare ci si attende una autentica vita fraterna
intessuta di relazioni interpersonali sincere, amicali, improntate a
vicendevole rispetto e fiducia e si domanda una coerente adesione ai
valori evangelici. Con entusiasmo e generosità ci si accosta ad una
esperienza dalla quale ci si attende un robusto sostegno a quelle
istanze di radicalità evangelica delle quali si ha nostalgia in ragione
della consapevolezza della propria debolezza e fragilità. “Se la vita
religiosa non è memoria e testimonianza di vita evangelica, da chi altri
si potrà andare?”. Non basta lamentarsi del fatto che i giovani si
orientino verso altre forme di radicalità evangelica, bisognerebbe farlo
anche sulla nostra capacità di comprendere le nuove generazioni, di
realizzare con loro un autentico dialogo, di essere per loro adulti che
non temono il confronto» (G. Dal Piaz).
La vita religiosa
partecipa con tutta la Chiesa la necessità di rendere più visibile la
dimensione della speranza cristiana. Ma cosa significa essere testimoni
di speranza? Credo anzitutto ritornare alle radici battesimali come dono
e promessa. All’origine c’è il dono del battesimo, accolto nella fede e
radicato nel mistero pasquale. «Non sapete che quanti siamo stati
battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per
mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella
morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della
gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova»
(Rm 6,3-4). La radice battesimale è promessa di conformazione alla
storia di Gesù. In secondo luogo, si diventa testimoni di speranza nel
cammino adulto della fede, quando si esercita fedeltà e libertà nella
sequela: «Anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm
6,4). Significa affidarsi al carattere drammatico e agonico della vita.
La testimonianza adulta del credente è così collegata al martirio perché
sa di doversi rendere totalmente disponibile al dono del Risorto, alla
sua presenza che guarisce e consola, alla sua vita spesa per noi. I
luoghi dell’alimentazione della nostra testimonianza sono quelli
classici: la Parola, il sacramento, il servizio ai poveri, la vita
comune.
Commentando il passo
della Samaritana al pozzo (Gv 4,1-42), al recente Congresso mondiale
sulla vita consacrata (cfr. Regno-att. N. 22/2004, p. 752), sr
Dolores Aleixandre ammoniva a liberarsi dai falsi mariti:
- il marito della
stupidità disinformata e conformista che ci fa credere che la situazione
del mondo non ha rimedio;
- il marito
neoliberista e consumista che ci trascina verso un modo ingannevole di
essere come il resto del mondo;
- il marito
individualista che ci offusca le fonti dell’alterità, ci seduce con la
facilità di una vita volgare e distratta;
- il marito
pseudo-terapeuta che impone lo psicologismo come spiegazione ultima di
ogni cosa, sospetta sempre dei nostri desideri e riduce tutto alla
nostra psiche;
- il marito secolarista
che ci allontana dall’incontro con il Signore e dall’esperienza mistica;
- il marito
spiritualista che ci spinge a nuove sacralizzazioni e spiritualismi
senza relazioni con le cose quotidiane;
- il marito idolatra
che ci fa rendere culto ai mezzi e agli strumenti, ma non al Padre che
ci ama;
- il marito delle mille
occupazioni che ci fa esaurire nell’«opera» e nel puro lavoro.
Sempre in quell’occasione,
p. J.B. Libanio ha prospettato per il futuro della vita consacrata una
interpretazione di tipo sacramentale. «L’espressione dev’essere
spiegata. Alle sue spalle c’è l’esperienza della Chiesa nel concilio
Vaticano II. Essa si trovava davanti a doloroso dilemma: da una parte la
tradizione ecclesiologica tridentina e del Vaticano I che sottolineavano
fortemente gli elementi esteriori dell’appartenenza alla Chiesa,
dall’altro c’era la tradizione della riforma che insisteva sul polo
opposto. Il concilio ha trovato nella categoria “sacramentum” un ponte
tra le due tradizioni, superando l’impasse […] Il problema fondamentale
di questo modello è farsi delle domande sul senso, il significato, la
realtà interiore che le regole, le norme, i segni, i simboli, le
pratiche della vita consacrata possiedono. Se non favoriscono nessuna
esperienza personale, interiore e spirituale, non hanno ragione di
essere. A sua volta se l’interiorità non si esteriorizza in segni e
pratiche, nasce il timore che la vita consacrata diventi pura
soggettività arbitraria. La struttura sacramentale si converte in
criterio di discernimento. La vita consacrata si distanzia dalla pura
interiorità, affermando l’incarnazione della grazia e rifuggendo dal
legalismo e dall’esteriorità dei riti religiosi senza una corrispondente
esperienza interiore».
3. Conservazione o
rifondazione.
Nei
dialoghi con alcuni responsabili della vita religiosa ritorna la
constatazione che l’impegno di rifondazione è ormai assai presente e
relativamente accettato. Torna spesso nei capitoli provinciali e
generali, è ampiamente presente nei documenti, è considerato recepito
negli organismi continentali. D’altro lato persistono due domande di
fondo: che cos’è esattamente rifondazione? Come si può procedere per
ottenerla?
L’una e l’altra
questione (che cos’è e come farla) rimandano a come si declinano le
ragioni della crisi, alle priorità che vengono riconosciute, al modo con
cui le une e le altre vengono organizzate. Semplificando il quadro,
posso indicare i
quattro
motivi
a cui si rimanda per comprendere la crisi attuale.
Il primo
è quello
dell’identità o, più esattamente, della definizione teologica. Si
ritiene che la difficoltà di dire con immediatezza e rigorosità
l’identità religiosa costituisca il suo limite maggiore. I termini
abitualmente usati in merito sono quelli di “stato di perfezione”,
“professione dei consigli”, “vita religiosa”, “vita consacrata”,
“sequela Christi”. Ciascuna di esse dice una diversa sfumatura
ecclesiologica e cristologica.
Il secondo motivo
è invece indicato nell’ambito dell’ascesi. La crisi della vita religiosa
sarebbe imputabile alla scarsa tenuta delle comunità,
all’interpretazione disinvolta e meschina dei voti, alla svalutazione
della preghiera comune, al venire meno del rigore di vita. E
naturalmente anche alla scarsa percezione di istanza critica di quanto i
voti indicano rispetto alla vita normale: il distacco dalle ricchezze,
la gestione degli istinti, la disponibilità alla volontà della comunità
e dei superiori.
Il terzo motivo
è invece
di tipo storico. Ci sono dei modelli, e quello congregazionalista è fra
essi, destinati inevitabilmente allo scacco storico. Esso è fiorito
quando alcuni servizi erano assolutamente centrali per il riscatto dei
poveri (scuole, ospedali, lavoro, ecc.). Oggi che tutto ciò è
relativamente garantito dallo Stato, la forma religiosa nata per questi
compiti e con le strutture finalizzate a questi risultati è
inevitabilmente destinata a finire.
Il quarto motivo
è invece sull’orizzonte teologale o del senso di Dio oggi. È una crisi
di fede e di senso. Manca la sufficiente esperienza di Dio che sostenga
un progetto di vita e ne garantisca il frutto. È una crisi di
radicamento e di radicalità. Senza l’esperienza del sacro assoluto,
senza l’immersione nelle fonti prime dell’essere, della vita e della
verità, senza la dimensione mistica della realtà, la vita religiosa si
svuota.
In altri termini, ciò
che manca è la presenza dello Spirito, soffocata dalle consuetudini, dai
perbenismi ecclesiastici, dai piccoli interessi personali,
dall’insufficienza della stessa teologia. Davanti all’individualismo
della cultura occidentale degli ultimi quattro secoli mancano alla
teologia, e alla vita religiosa, coloro che sono in grado di denunciarne
l’insufficienza senza dover ricadere nell’antimodernità ottocentesca. In
positivo potrei indicare il giudizio contenuto nell’ultimo libro di
Giovanni Paolo II sui grandi regimi dittatoriali del secolo trascorso,
là dove si indica nel marxismo un “male necessario”. Non si tratta di
giudizio storico, né di un giudizio filosofico, né di un giudizio
ecclesiastico: è un giudizio teologale e spirituale capace di una
denuncia radicale e di una inclusione sorprendente nel mistero salvifico
di Dio.
A queste profondità,
rifondare significa la ripresa di un percorso genetico e della sua
evoluzione. L’atto spirituale di fondazione rimette in una sorta di
statu nascenti, nell’indeterminazione in cui la comunità identifica
le proprie possibilità. Più che una formula è un travaglio esistenziale
il cui protagonista maggiore è lo Spirito. Non si tratta quindi di
adattamento esteriore, quanto di un processo pneumatologico e
cristologico legato alle provocazioni che la storia e la realtà sociale
fanno emergere. Esige intuizione, sforzo, realizzazione, valutazione. Si
tratta di riprendere in mano il movimento creativo dell’inizio e
lasciarsi condurre dalle attuali condizioni del mondo e della Chiesa,
verso un modello che possa tenere per un certo tempo. La radicalità di
questa temperie spirituale potrebbe portare a cambiamenti anche profondi
nella vita comune, nella pratica dei voti, nella collocazione sulle
faglie più esposte della società.
Per dirla con p. José
Maria Arnaiz: «La rifondazione riguarda l’attuale orizzonte della
vita consacrata e il metodo per rileggerne, rigenerarne e reincarnarne
il carisma, sia nella sua dimensione di spiritualità come in quella di
missione. Essa riguarda, inoltre, la chiamata alla radicalità, alle cose
fondamentali, primordiali, alle radici, alla dimensione teologale, al
silenzio contemplativo e al deserto più che alle novità. La fedeltà
creativa ci ricorda che il problema che la vita consacrata sta vivendo,
nel momento attuale, ha a che vedere con la significatività o visibilità
della sua identità e, pertanto, con la reale efficacia della sua
missione evangelizzatrice. Riguarda infine la chiamata dello Spirito. La
rivitalizzazione è spirito nuovo. È lo Spirito che rifonda un carisma».
Il futuro di un istituto non è nella mimica del fondatore, ma in un atto
di lettura originale dove l’interprete diventa in qualche maniera
fondatore a sua volta. Tutto comincia dalla chiamata (evento,
testimone o altro sollecitati dallo Spirito) che sviluppa un
desiderio con tutte le illusioni e tentazioni connesse. Dopo scatta
la decisione per entrare in una forma di vivere che
interessa e intriga. Essa diventa maniera di vivere assieme che
trova nella Chiesa un riconoscimento o una verifica. Tutto questo
patrimonio si traduce o si riconosce nella regola, in base alla
quale si attendono o si sollecitano nuove vocazioni. Il circolo si
riapre di nuovo e così in permanenza. Dopo aver frequentato per lungo
tempo le frontiere dei bisogni (dei poveri, delle comunità cristiane,
ecc.) è essenziale imparare a comunicare ciò che ci fa vivere, le
ragioni della nostra speranza.
Tutto ciò ha poco a che
vedere con la semplice ripetizione della tradizione più recente, del
modello di vita religiosa ottocentesco, anche se esso può richiamare
oggi un certo numero di vocazioni in attesa di securizzazione. È
piuttosto sollecitato da altri fenomeni ecclesiali come le nuove
esperienze monastiche, le comunità legate alla pratica dei movimenti
ecclesiali e le cosiddette nuove comunità che vanno popolando lo spazio
delle Chiese europee più attaccate dalla secolarizzazione. Così come dai
nuovi fenomeni sociali: dall’uso di Internet alla pratica sociale di
tipo lobbystico, dalle nuove pratiche pubbliche alla presenza nei centri
dei nuovi poteri (da Bruxelles a Pechino).
La percezione diffusa è
che un buon tratto della rifondazione sia già percorso. È possibile
riconoscere alcuni segnali. Fra questi si possono ricordare il ritorno
alle fonti, la riformulazione del carisma e della spiritualità, l’inculturazione,
l’accettazione delle diversità. E, come faceva notare p. Kolvenbach,
chiunque oggi visiti una comunità religiosa e abbia memoria di quello
che erano le comunità negli anni cinquanta non può che sorprendersi dei
mutamenti riscontrabili: modi, forme, riferimenti, abitudini sono
davvero diverse.
La nuova
rilevanza della
Parola è
fra i segnali maggiori della rifondazione. Come la catechesi quando
vuole andare alle sue radici incrocia la liturgia (non casualmente i
vescovi francesi hanno riformulato il percorso catechetico a partire
dalla veglia pasquale, cfr. Regno-doc. n.7/2003, p. 222), così la
vita religiosa quando torna al desiderio della sua forma di vita
incrocia la Scrittura. L’ampia pratica della lectio divina
personale, comunitaria, offerta al popolo di Dio è un elemento decisivo.
Così come la crescente abitudine a saper raccontarci reciprocamente tra
fratelli, o tra sorelle, la propria fede o la tonalità fortemente
biblica dell’omiletica o della predicazione.
Un secondo elemento
è la
centralità della vita fraterna.
Corresponsabilità, servizio reciproco, austerità dei comportamenti,
ospitalità: sono tutti segnali di un buon lavoro spirituale. Non si
tratta solo di vivere la propria professione o il proprio servizio
ecclesiale come un mandato della comunità, ma di avvertire e far
avvertire la comune ricerca spirituale nella missione. Quando ci
sentiamo dire nei servizi domenicali che le nostre omelie hanno il
sapore del nostro vivere comunitario, o quando gli ospiti riconoscono
che nelle nostre case c’è un’aria di famiglia, allora possiamo
concludere che la strada intrapresa non è senza risultati. Sensibilità
comunitaria vuol dire anche curare i momenti di preghiera comuni, le
attività di riflessione e di formazione permanente, la libertà di
espressione, i processi decisionali, i momenti di svago, ecc.
Consapevoli sempre che l’intesa spirituale non coincide necessariamente
con l’intesa psichica.
Un terzo elemento
è la cura delle vocazioni.
Di tutte
le vocazioni ecclesiali, ma certo anche di quelle religiose. La
direzione spirituale, l’accoglienza dei gruppi giovanili, la resistenza
alla critica sistematica al nuovo, l’intelligenza spirituale delle forme
di vita coltivate dai giovani, un progetto condiviso a livello
provinciale, ecc.: rappresentano alcuni dei segnali positivi da
apprezzare. Più in radice vi è la disponibilità delle comunità ad
accompagnare in parte il processo formativo e a farsene carico,
all’interno dell’insieme strutturato che fa capo ai superiori maggiori.
Ma soprattutto a coinvolgere i giovani, anche postulanti, in quel
processo di rinnovamento del carisma in cui essi si avvertono da subito
dei rifondatori, pur rispettando la loro età e il limite del loro
impegno.
Un quarto elemento
è la collaborazione coi laici.
Sul piano
professionale (scuola, media, attività sociali ecc.) questo è un dato di
evidenza. Non potremmo continuare le nostre iniziative senza il loro
contributo. Ma il segnale della rifondazione scatta quando vi è in essi
una qualche partecipazione al carisma. E soprattutto quando noi
avvertiamo la necessità di raccontarlo e di farne parte ai laici che
incrociamo nelle nostre giornate. In questo ambito una consapevole
attenzione al ruolo femminile e ai suoi servizi ecclesiali costituisce
un ulteriore segno positivo. Tutto ciò diventa possibile quando
l’inserimento nel territorio e nella Chiesa locale è perseguito e
adeguatamente curato.
Un quinto segnale
riguarda il
sistema di governo
sia comunitario che provinciale. Si deve puntare sulle persone, sulle
comunità, sui servizi, sulla presenza nel territorio. Non si tratta di
definire il processo dall’alto, ma di un discernimento in cui il governo
mette a frutto tutte le possibilità del corpo del proprio istituto.
Questo sia come valorizzazione dei singoli e delle comunità che
accettano di impegnarsi nella rifondazione, sia nel contenimento delle
spinte distruttive. La presenza dei progetti apostolici provinciali e
comunitari diventa una cartina di tornasole importante.
Vi sono molti altri
segni della rifondazione in atto fra cui, in primo luogo, la missio
ad gentes e il servizio ai poveri. La conferma della scelta
della missione, nonostante la fragilità delle forze e il coraggio di
resistere alla colpevolizzazione del povero e all’erosione della
solidarietà, sono elementi di valore per indicare il futuro della vita
consacrata. Vi sono anche molti altri indicatori che possono risultare
efficaci nell’indicazione di una rifondazione in atto: dai processi di
inculturazione alle presenze comunitarie interprovinciali e
internazionali, dai nuovi servizi ministeriali alla specifica
sensibilità delle generazioni nel compito di rifondazione.
La rifondazione non è
un gesto di volontarismo. È un processo già in atto. La fedeltà allo
Spirito saprà condurre ciascun carisma al proprio frutto.
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