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Mi
è stato chiesto di mettere in luce quali percorsi di discernimento e di
riconciliazione dovrà seguire la vita consacrata per “rendere visibile
la speranza” cristiana in una Europa multietnica. Con mia sorpresa ho
visto che nelle relazioni e nelle conclusioni dell’Assemblea Generale
dell’anno scorso e poi nello Strumento di lavoro preparato per
questa 52a Assemblea, praticamente c’è già tutto. In un certo
senso, la tela è completa. Perciò, a me non resta che tentare di dare
una degna cornice al dipinto. Non lo ritengo inutile. Di fatto la
cornice mette meglio in evidenza la tela, e la tela dà risalto alla
cornice.
La nostra riflessione,
perciò, avrà due parti: 1) nella prima daremo uno sguardo d’insieme al
presente, facendo una lettura sapienziale della situazione del mondo e
dell’Europa di oggi (la cornice nel suo insieme); 2) nella seconda parte
daremo uno sguardo al futuro: dopo un breve cenno al contesto ecclesiale
europeo, vedremo quali percorsi specifici la vita consacrata dovrà
seguire per contribuire a rendere visibile la speranza cristiana in
Europa (i quattro lati della cornice).
Uno sguardo al
presente
1. Il nuovo contesto
mondiale
La caduta del muro di
Berlino (1989) ha posto fine a un equilibrio del mondo durato 50 anni.
Certo, era un equilibrio precario, fondato sul confronto tra due
ideologie (liberismo e comunismo) e sui missili schierati da una parte
contro l’altra; era una pace fondata sulla paura della guerra atomica.
Il mondo era spaccato in due, ma era in “equilibrio”; due superpotenze
facevano da perno al mondo diviso: gli USA e l’URSS.
Ci siamo illusi che la
fine del comunismo potesse avvenire senza traumi particolari, senza quei
drammi che tutti ci attendevamo. Se si escludono le difficoltà dei Paesi
balcanici, tuttavia non si è scatenata nessuna guerra mondiale. Eppure,
la rottura dell’equilibrio planetario non poteva non causare un
terremoto: dalle guerre locali (si pensi a che cosa è avvenuto nella ex
Jugoslavia) al terrorismo internazionale (11 settembre 2001: le Torri
gemelle; 11 marzo 2004: Madrid), alla guerra in Afghanistan e in Iraq…
il Pianeta non ha più avuto pace.
Il mondo, globalizzato
economicamente, non ha ancora trovato il nuovo equilibrio. Una cosa è
certa: il nuovo equilibrio non sarà quello monopolare che gli USA
vorrebbero imporre, per il fatto di essere l’unica superpotenza rimasta.
Oggi i problemi che nascono sono tutti planetari (equilibrio ecologico,
difesa della salute, lotta alla criminalità organizzata, alla droga,
alla fame e alla povertà del Sud del mondo, la pace): nessuna nazione da
sola può affrontarli e risolverli, come appare chiaro dalla guerra in
Iraq, dove gli USA, dopo aver preteso di fare tutto da soli, ora
invocano l’aiuto dell’ONU e della NATO per uscire dal pantano. O ci
impegniamo tutti insieme o moriamo tutti insieme.
Intanto si profila un
nuovo equilibrio planetario, dopo quello bipolare del XX secolo. Non
sappiamo ancora se sarà tripolare o quadripolare: USA, Ue,
Cina, India, Brasile…
Questo, dunque, è lo
scenario quale appare alla superficie. In realtà, lo tsunami,
seguito al movimento sismico provocato dalla fine dell’equilibrio
bipolare del mondo, è ben più grave: esso, nel fondo, è un
confronto-scontro tra culture e civiltà diverse.
In modo particolare in
Europa, l’equilibrio precedente si fondava su tre principali culture: la
cultura giudaico-cristiana (cristianità), la cultura illuministica
liberale (laicismo), la cultura marxista (comunismo). Era inevitabile
che, venuta meno la cultura marxista, si acuisse il confronto-scontro
tra cultura cristiana e cultura laica. Le due culture sono entrambe in
crisi, a causa dei processi di mondializzazione e dei progressi delle
scienze umane. Eppure, nonostante tutto, esse sono destinate a
incontrarsi per costruire insieme la nuova Europa, il nuovo equilibrio
planetario e la pace nel mondo.
La crisi della cultura
laica è sotto gli occhi di tutti. Se, da un lato, essa ha prodotto la
democrazia e ha difeso la libertà e i diritti umani, dall’altro è
fallito il progetto illuministico di realizzare storicamente un’etica
universale, fondata sulla sola ragione. L’illuminismo è sfociato nel
“pensiero debole” e nel relativismo etico, nell’individualismo egoistico
e nel razzismo. E’ apparso chiaro che la cultura liberale non ha in sé
la forza di riequilibrare il mondo: non è riuscita nel suo intento,
neppure quando la cultura cristiana era in crisi a motivo della
secolarizzazione e della caduta dei valori (cfr. on. G. Amato, «Dove
nasce la società egoista», in Repubblica, 09.12.05).
Tuttavia, anche la
crisi della cultura cristiana è patente, a causa soprattutto del
processo di secolarizzazione. Questa di per sé è un fenomeno positivo:
il chiarimento della diversità del piano religioso da quello politico
consente, tra l’altro, rapporti più chiari tra Stato e Chiesa e
garantisce la autonomia delle due parti. Il guaio è che la
secolarizzazione tende a degenerare nel secolarismo, cioè nella pretesa
di eliminare Dio dalla storia umana e di ridurre il fenomeno religioso a
pura dimensione personale e privata, senza incidenza sociale. Così, dopo
aver dato un’anima all’umanesimo e al diritto, la cultura cristiana ha
dovuto confrontarsi, in Europa, con la perdita del senso di Dio,
perdendo di fatto la funzione, che aveva sempre esercitato, di collante
sociale e subendo il contraccolpo della crisi dei valori e del
relativismo etico.
Eppure, dopo aver
toccato il fondo della crisi, oggi si scorgono alcuni sintomi di ripresa
e si parla sempre più di “ritorno” o di “rivincita” di Dio. C’è il
pericolo di nuovi rischi, come quello di una più sottile
strumentalizzazione della religione a fini politici (la cosiddetta
“religione civile”). Quindi, il superamento della crisi va guidato e
orientato, non lasciato a se stesso.
2. L’Europa: un
continente deluso
Venendo in particolare
all’Europa, dobbiamo dire che, nonostante gli straordinari traguardi
raggiunti, oggi essa si presenta come un continente deluso. Grava
soprattutto sulle nuove generazioni l’eredità negativa di tante promesse
non mantenute, di tante speranze fallite. Gli “idoli”, che nei secoli
passati avevano fatto crescere l’Europa, sono andati tutti in frantumi,
uno dopo l’altro: il mito illuministico della “dea ragione”, che da sola
avrebbe potuto ogni cosa, si è dissolto nel nichilismo contemporaneo,
che nega perfino la possibilità di conoscere la verità; il mito del
“progresso indefinito”, nato con la rivoluzione industriale, si è
infranto contro le contraddizioni del capitalismo selvaggio;
l’autosufficienza dei “nazionalismi” della prima metà del Novecento e
dei regimi nati dalla rivoluzione d’Ottobre ha condotto a forme disumane
di totalitarismo e di dittatura, aprendo la via a guerre mondiali e a
genocidi spaventosi; il mito del primato dello “sviluppo economico” ha
finito col creare nuove forme di colonialismo e ci ha condotti sull’orlo
della catastrofe ecologica; infine, anche il miraggio ideologico della
“liberazione”, secondo cui l’uomo si sarebbe sciolto da tutte le catene
con le sue sole forze, è rimasto sepolto sotto le macerie del muro di
Berlino.
Il fallimento di tutte
queste speranze ha contribuito al disorientamento, che caratterizza
questo inizio del terzo millennio. Il clima di incertezza e di
precarietà che lo caratterizza è un implicito riconoscimento che la
ragione, la scienza, la tecnica, la crescita economica – nonostante
risultati eccezionali – da sole non bastano a liberare l’uomo; non sono
sufficienti a compierne le speranze, a renderlo libero e felice. E
l’uomo moderno, che aveva creduto di potercela fare da solo, con le sue
forze, oggi è deluso. Riuscirà ancora a sperare?
E’ questo il problema
di fondo, con il quale la 52a Assemblea Nazionale dell’USMI
ha scelto di misurarsi: quali percorsi seguire per rendere visibile in
Europa la speranza che non delude? La nostra ricerca è facilitata dal
fatto che con questo stesso problema si è confrontata l’Assemblea
speciale per l’Europa del Sinodo dei vescovi (1-23 ottobre 1999), alla
vigilia del terzo millennio: «Sì, fratelli e sorelle: l’uomo non può
vivere senza speranza. Ma sarà essa possibile e chi gliela potrà
donare, quando molte speranze, anche negli ultimi tempi sono andate
miseramente deluse?» (Messaggio finale, n.1). E Giovanni Paolo II,
raccogliendo le istanze del Sinodo nella bella esortazione apostolica
Ecclesia in Europa (28 giugno 2003), commenta: «Alla radice dello
Smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere
un’antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha
portato a considerare l’uomo come il centro assoluto della realtà,
facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando
che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo» (n. 9).
Paradossalmente però –
come spesso accade – l’uomo, proprio quando tocca il fondo, ricomincia a
sperare. «La nostra speranza è certa» – rileva infatti il Messaggio
dei vescovi europei –; «concreti, sperimentabili e in qualche modo
tangibili sono i segni di questa speranza» (n. 3). E ciò vale non solo
per i “segni di speranza” all’interno della vita della Chiesa, ma anche
per quelli che si manifestano nella società europea: «Constatiamo con
gioia» – si legge nel Messaggio finale dell’Assemblea speciale
per l’Europa del Sinodo dei vescovi – «la crescente apertura dei
popoli, gli uni verso gli altri, la riconciliazione tra nazioni per
lungo tempo ostili e nemiche […]. Riconoscimenti, collaborazioni e
scambi di ogni ordine sono in sviluppo, così che, a poco a poco, si
crea una cultura, anzi una coscienza europea, che speriamo possa
far crescere, specialmente presso i giovani, il sentimento della
fraternità e la volontà della condivisione. Registriamo come positivo il
fatto che tutto questo processo si svolga secondo metodi democratici,
in modo pacifico e in uno spirito di libertà, che rispetta e
valorizza le legittime diversità […]. Salutiamo con soddisfazione ciò
che è stato fatto per precisare le condizioni e le modalità del rispetto
dei diritti umani […]. Mentre registriamo i segni della speranza
offerti dalla considerazione data al diritto e alla qualità
della vita, ci auguriamo vivamente che […] sia garantito il primato
dei valori etici e spirituali» (n. 6). Sono tutti “segni di
speranza”, indicati dal Sinodo dei vescovi, e che il Papa riprende alla
lettera (cfr. Ecclesia in Europa, n. 12); a essi le nuove
generazioni si mostrano particolarmente sensibili. Non possiamo
permetterci di fallire ancora. Una ulteriore delusione avrebbe effetti
morali e sociali imprevedibili.
Il XXI secolo, dunque,
offre ai cristiani un’occasione propizia di contribuire a far rinascere
nell’Unione la «speranza che non delude» (Rm 5,5). Gli ideali di dignità
umana, di libertà, di solidarietà, di giustizia e di pace, contenuti
nell’art. I-2 del Trattato costituzionale europeo, e ai quali aspirano
le nuove generazioni, rendono possibile – come mai prima d’ora –
l’incontro della speranza cristiana con le altre speranze dell’uomo.
Perciò, per determinare
i percorsi propri della vita consacrata, per rendere visibile la
speranza in Europa, occorre prima chiarire: 1) in che cosa consiste la
speranza cristiana; 2) come testimoniarla oggi in Europa; 3) attraverso
quali strade la speranza cristiana incontrerà le altre speranze presenti
nel Continente.
3. La speranza
cristiana
Anche la speranza
cristiana è una speranza umana. Gesù è venuto a salvarci e a
divinizzarci: cioè, ci ha svelato il senso vero della vita umana, la sua
vera speranza. Rendere visibile la speranza cristiana significa dunque
confrontarla con tutte le speranze umane. La speranza cristiana le
assume e le trascende. La speranza di liberazione comincia già qui e
ora. Tuttavia la sua pienezza è nell’incontro con il Risorto. Quindi, la
speranza cristiana si distingue dalle altre speranze soprattutto quanto
all’origine e quanto all’oggetto. Essa non si fonda su una filosofia o
su una ideologia, né sulle sole forze dell’uomo, ma poggia su Dio – «il
Dio della speranza» (Rm 15,13) – e sulla sua Parola; nasce cioè dalla
fede nella rivelazione e nella promessa della salvezza, che si realizza
storicamente in «Cristo nostra speranza» (1Tm 1,1). E’ emblematico
quanto è accaduto ai due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Erano due
uomini delusi, «col volto triste» (v. 17): «Noi speravamo che fosse lui
a liberare Israele» (v. 21). La speranza ritorna quando Cristo, nella
sua umanità nascondendo la sua divinità, spiega (exeghèsato,
racconta, direbbe Gv 1,18) il senso delle Scritture, svela il
mistero del Padre e nello stesso tempo svela l’uomo all’uomo.
La speranza cristiana
non si esaurisce nella tensione verso una liberazione meramente
temporale e immanente, raggiungibile con le forze umane, ma – come
spiega Paolo VI – ha come oggetto la «salvezza, dono grande di Dio, che
non solo è liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, ma è soprattutto
liberazione dal peccato e dal Maligno, nella gioia di conoscere Dio e di
essere conosciuti da lui, di vederlo, di abbandonarsi a lui» (Evangelii
nuntiandi [EN ], n. 9).
In altre parole, quella
cristiana è una speranza trascendente, in quanto propone all’uomo
il destino soprannaturale al quale è chiamato per dono gratuito di Dio:
comincia a realizzarsi quaggiù, ma non rimane chiusa come le altre
speranze nell’orizzonte temporale, è «annuncio profetico di un al di là,
vocazione profonda e definitiva dell’uomo, in continuità e insieme in
discontinuità con la situazione presente» (ivi, n. 28). Non è
anzitutto una dottrina, ma una esperienza: «Non ci ardeva forse il cuore
nel petto […], quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).
Perciò, tacere o
mettere in ombra la dimensione trascendente della speranza cristiana,
per presentarla esclusivamente o prevalentemente come promessa di
liberazione sociale e politica, equivale – per usare una espressione
incisiva di san Paolo – ad annacquare la Parola di Dio (kapeleùontes,
fare come fanno gli osti che adulterano il vino con l’acqua (2Cor 2,17).
In realtà, noi non siamo cristiani perché speriamo nella giustizia,
nella pace, nella liberazione dei poveri e degli oppressi; ma speriamo,
lottiamo e fermamente crediamo di poter vincere ogni forma di
ingiustizia, perché siamo cristiani.
In altre parole,
affermare che la speranza cristiana è di natura religiosa e trascendente
non significa affatto che essa sia disincarnata o storicamente
inefficace (come si può dire invece di altre “speranze religiose”, che
inducono piuttosto all’apatia e alla passività). Infatti, la salvezza
promessa da Dio in Cristo, se è una speranza che trascende le forze
dell’uomo, comincia però a realizzarsi all’interno delle vicende umane:
il dono di Dio «deve essere pazientemente condotto nel corso della
storia, per essere pienamente realizzato nel giorno della venuta
definitiva del Cristo» (EN, n. 9). Insomma, la speranza cristiana
non solo non induce a rifuggire dall’impegno storico, ma anzi spinge
positivamente all’azione: «Noi ci affatichiamo e lottiamo, perché
abbiamo messo la nostra speranza nel Dio vivente» (1Tm 4,10); non è un
oppio che addormenta, ma è uno stimolo incontenibile che impone «il
dovere di annunziare la liberazione di milioni di esseri umani […]; il
dovere di aiutare questa liberazione a nascere, di testimoniare per
essa, di fare sì che sia totale» (EN, n. 30).
4. Testimoniare la
speranza
Perché allora
l’annuncio e la testimonianza della speranza cristiana oggi non
risultano credibili agli uomini del nostro Continente? Certo, ciò
dipende dalla delusione di cui soffre oggi l’Europa e dal pluralismo
culturale e religioso che oggi caratterizza il vecchio Continente: la
delusione porta all’indifferenza religiosa (non mi interessa!), il
pluralismo porta al relativismo (il cristianesimo è una delle tante
religioni).
Nello stesso tempo,
però, a rendere meno credibile l’annunzio cristiano contribuiscono gli
errori dei credenti, che con il loro comportamento accreditano la
convinzione che la speranza cristiana sia una delle tante speranze umane
che oggi si confrontano nel mondo. Ecco perché – esortano i vescovi
europei – : «E’ necessario fare tutti insieme un umile e coraggioso
esame di coscienza per riconoscere le nostre paure e i nostri
errori, per confessare con sincerità le nostre lentezze, omissioni,
infedeltà, colpe» (Messaggio, n. 4).
Una prima causa
della poca credibilità di cui gode oggi l’annuncio della speranza
cristiana è la dicotomia che molti credenti stabiliscono tra fede e
storia. Si tratta di una indebita frattura tra vita terrena e vita
celeste, che spinge a fuggire dal mondo, a rifugiarsi in una visione
disincarnata e intimistica della fede, confinando ogni speranza di
giustizia, di pace e di fraternità esclusivamente nel mondo futuro,
nell’aldilà, alla fine dei tempi. Non si rendono conto questi cristiani
che, così facendo, paradossalmente contribuiscono ad alimentare il
secolarismo e le speranze atee, aiutano – senza volerlo – a estromettere
Dio dalla storia. «Dall’inizio dell’epoca moderna» – nota acutamente J.
Moltmann, in uno scritto del 1972, – «credenti e non credenti si sono
volentieri divisi il mondo, riservando agli uni di sperare in un
avvenire celeste, agli altri di sperare in un avvenire terreno; gli uni
coltivano la speranza dell’anima, o del cuore, gli altri la speranza di
una società giusta. Operando una tale divisione, i cristiani e gli atei
hanno in realtà contratto un’alleanza: un’alleanza con la morte di Dio
nel mondo» (cit. in Civiltà Cattolica 1974/ I .530). Dunque, il
primo modo di rendere credibili l’annuncio e la testimonianza della
speranza cristiana agli uomini del terzo millennio è quello di
realizzare prima di tutto in noi stessi la sintesi coerente tra fede e
vita, consapevoli che non vi sono due storie diverse, una profana e
l’altra sacra, ma che la storia è una sola, insieme umana e divina, come
uno (umano e divino) è il destino dell’uomo chiamato a viverla. E’ il
contrario di un annuncio aggressivo, imposto o arrogante.
Un secondo errore
da evitare è quello di chi, insistendo doverosamente sul fatto che la
speranza cristiana riguarda pure la costruzione di un mondo più umano e
fraterno, finisce però col ridurla a mera speranza di liberazione
sociale e politica, lasciandone in ombra la dimensione religiosa e
trascendente. San Paolo stesso ci ammonisce severamente: «Se abbiamo
avuto speranza in Cristo solamente in questa vita, siamo da compiangere
più di tutti gli uomini» (1Cor 15,19). Infatti, la speranza cristiana
suppone innanzi tutto la liberazione dal peccato, che è il male radicale
dell’uomo separato da Dio. Solo di conseguenza, e come momento
integrante della conversione interiore, la speranza cristiana si traduce
in contributo determinante alla liberazione anche dalle manifestazioni
sociali e strutturali del peccato: dalle discriminazioni d’ogni genere,
dai sistemi economici disumani, dai regimi politici oppressivi.
Una terza difficoltà,
che oggi toglie credibilità all’annuncio della speranza che non delude,
è lo scoraggiamento e la tristezza, da cui spesso si fanno prendere gli
stessi cristiani di fronte alle prove e alle avversità. Questa mancanza
di testimonianza gioiosa, bella e affascinante, che non si spaventa
degli insuccessi e dei ritardi – sottolineano i vescovi europei nel loro
Messaggio, n. 3 – è agli antipodi del “Vangelo della speranza”,
il quale invece insegna che la speranza vera passa necessariamente
attraverso il mysterium crucis, abbracciato con gioia e fiducia:
la sofferenza produce perseveranza, la perseveranza ci rende forti nella
fede, e questa forza ci apre alla speranza (cfr. Rm 5,4). Perciò,
portare al mondo la speranza cristiana vuol dire portare, insieme con la
croce del Signore, la fiducia nella sua potenza redentrice, che sola dà
senso al dolore e alla morte dell’uomo e non consente di continuare a
essere tristi «come gli altri che non hanno speranza» (1Ts 4,13). A
questo invitano con il loro esempio i numerosi martiri di tutte le
confessioni cristiane, la cui testimonianza «ci ricorda che senza la
Croce non c’è salvezza». Durante il Grande Giubileo, il Papa ha voluto
che il 7 maggio 2000 si tenesse al Colosseo una solenne commemorazione
dei testimoni della fede. La commissione incaricata di farne il
censimento ha accertato che il secolo XX è stato quello che ha avuto in
assoluto il numero più alto di martiri: 12.962, di cui 126 vescovi,
4.872 religiosi e religiose, 5.343 sacerdoti e 2.351 laici. Essi hanno
dato la vita in tutte le parti del mondo: in occasione di rivoluzioni
sociali o di guerre civili dalla Cina al Messico, alla Spagna; a causa
della ferocia ideologica, come quella dei nazisti in Europa o quella dei
comunisti soprattutto nei Paesi dell’Est; per la opposizione dei
fondamentalismi religiosi, soprattutto in Africa e in Asia.
Dunque, recare
all’Europa delusa il Vangelo della speranza non è un invito a rimanere
inattivi, in attesa che i problemi vengano risolti dall’alto, ma è fonte
di coraggio e di novità di vita, è impegno indefesso a costruire con
tutti gli uomini un mondo diverso, ovviamente senza mai dimenticare che
«se il Signore non edifica la casa, invano faticano i costruttori».
Quante contestazioni, quante rotture, quante crisi si sarebbero evitate
– sia nella vita della Chiesa, sia nell’impegno sociale, – se i
cristiani per primi avessero saputo scorgere nelle prove, nelle
incomprensioni, nel fallimento apparente la misteriosa logica della
“speranza che non delude”.
5. La speranza e le
speranze
Proprio qui si innesta
il problema più delicato e difficile che i cristiani dovranno affrontare
nella nuova Europa: quale rapporto stabilire tra la speranza cristiana e
le speranze dell’uomo? Confronto o contrapposizione? Rottura o dialogo?
Se si tiene presente la
natura religiosa della speranza cristiana, è possibile comprendere
perché l’incontro con le altre speranze non solo è utile in sé, ma è
anche necessario. Infatti, la speranza cristiana, essendo nello stesso
tempo “storica” e “trascendente”, non è alternativa ma complementare nei
confronti delle altre speranze.
Ciò significa, in primo
luogo, che la speranza cristiana non spegne nessun’altra speranza umana
– per quanto piccola o parziale essa sia – dovunque e da chiunque sia
proposta; ma funge da stimolo efficace al suo dischiudersi verso gli
orizzonti di un umanesimo plenario. Dal canto loro, le speranze
terrestri, nella misura che sono vere, buone e riconducibili al bene,
non escono dall’orizzonte della speranza cristiana, ma contribuiscono a
rafforzarla. Come il Vangelo e la storia si illuminano a vicenda, così
la speranza cristiana e le altre speranze umane si aiutano a comprendere
e a crescere insieme. La «difficoltà di giungere a un vero dialogo a
livello di fede» – dice il p. Peter-Hans Kolvenbach, generale della
Compagnia di Gesù – «non esclude il dialogo della vita, in cui tutti gli
uomini di buona volontà si incontrano e si aiutano vicendevolmente per
costruire un mondo più giusto, più pacifico e più umano per tutti,
secondo il desiderio di Dio per l’umanità» (Intervista, in Il
Consulente RE, n.1, febbraio 2005, p. 75).
Tuttavia, non ogni
speranza terrestre coincide sempre con il bene dell’uomo e con la
speranza cristiana: «non ogni nozione di liberazione» – ricorda la
Evangelii nuntiandi – «è necessariamente coerente e compatibile con
una visione evangelica dell’uomo, delle cose e degli avvenimenti» (n.
35). Pertanto, l’incontro con le altre speranze avrà sempre pure un
aspetto “critico”, nel senso che la natura profetica della speranza
cristiana, mentre da un lato incoraggia e sostiene ogni altra speranza
di una società migliore e ne è a sua volta confortata, dall’altro però
non può non contrastare tutto ciò che va contro l’uomo e contro Dio. Al
tempo stesso, non possono bastare l’annuncio e la testimonianza della
speranza che non delude, senza un confronto leale e aperto con le
diverse culture. Nella Europa di oggi – pluralistica, secolarizzata e
per molti aspetti postcristiana – il dialogo costituisce lo strumento
indispensabile all’annuncio del “Vangelo della speranza”. Si tratta –
come ha fatto Gesù – di “raccontare” Dio agli uomini con la
testimonianza di una vita umana integrale, giustificata dalle ragioni
della speranza. Ecco perché, il dialogo interculturale e interreligioso
è il passaggio obbligato per aiutare gli europei a incontrare la
speranza che non delude. Questa speranza è una persona viva: è Cristo
risorto. Rendere visibile la speranza ai cittadini della nuova Europa
significa, dunque, aiutarli a incontrarsi direttamente con il Vivente.
Anelando alla speranza che non delude, essi – anche senza saperlo –
anelano a incontrarsi con Lui, dopo la delusione profonda per tante
speranze belle fallite.
Questo, dunque, è il
contesto storico europeo, fatto di chiusure e di aperture, in cui siamo
chiamati a recare il “Vangelo della speranza”.
(Il testo intero in
Consacrazione e Servizio n.7-8/2005)
* Docente di Dottrina Sociale
presso il Centro Studi Sociali di Palermo e Direttore di
Aggiornamenti Sociali.
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