n. 7/8
luglio/agosto 2005

 

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Rendere visibile la speranza in Europa:
Quali percorsi? I parte
di Bartolomeo Sorge, sj *

 

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Mi è stato chiesto di mettere in luce quali percorsi di discernimento e di riconciliazione dovrà seguire la vita consacrata per “rendere visibile la speranza” cristiana in una Europa multietnica. Con mia sorpresa ho visto che nelle relazioni e nelle conclusioni dell’Assemblea Generale dell’anno scorso e poi nello Strumento di lavoro preparato per questa 52a Assemblea, praticamente c’è già tutto. In un certo senso, la tela è completa. Perciò, a me non resta che tentare di dare una degna cornice al dipinto. Non lo ritengo inutile. Di fatto la cornice mette meglio in evidenza la tela, e la tela dà risalto alla cornice.

La nostra riflessione, perciò, avrà due parti: 1) nella prima daremo uno sguardo d’insieme al presente, facendo una lettura sapienziale della situazione del mondo e dell’Europa di oggi (la cornice nel suo insieme); 2) nella seconda parte daremo uno sguardo al futuro: dopo un breve cenno al contesto ecclesiale europeo, vedremo quali percorsi specifici la vita consacrata dovrà seguire per contribuire a rendere visibile la speranza cristiana in Europa (i quattro lati della cornice).

Uno sguardo al presente

1. Il nuovo contesto mondiale

La caduta del muro di Berlino (1989) ha posto fine a un equilibrio del mondo durato 50 anni. Certo, era un equilibrio precario, fondato sul confronto tra due ideologie (liberismo e comunismo) e sui missili schierati da una parte contro l’altra; era una pace fondata sulla paura della guerra atomica. Il mondo era spaccato in due, ma era in “equilibrio”; due superpotenze facevano da perno al mondo diviso: gli USA e l’URSS.

Ci siamo illusi che la fine del comunismo potesse avvenire senza traumi particolari, senza quei drammi che tutti ci attendevamo. Se si escludono le difficoltà dei Paesi balcanici, tuttavia non si è scatenata nessuna guerra mondiale. Eppure, la rottura dell’equilibrio planetario non poteva non causare un terremoto: dalle guerre locali (si pensi a che cosa è avvenuto nella ex Jugoslavia) al terrorismo internazionale (11 settembre 2001: le Torri gemelle; 11 marzo 2004: Madrid), alla guerra in Afghanistan e in Iraq… il Pianeta non ha più avuto pace.

Il mondo, globalizzato economicamente, non ha ancora trovato il nuovo equilibrio. Una cosa è certa: il nuovo equilibrio non sarà quello monopolare che gli USA vorrebbero imporre, per il fatto di essere l’unica superpotenza rimasta. Oggi i problemi che nascono sono tutti planetari (equilibrio ecologico, difesa della salute, lotta alla criminalità organizzata, alla droga, alla fame e alla povertà del Sud del mondo, la pace): nessuna nazione da sola può affrontarli e risolverli, come appare chiaro dalla guerra in Iraq, dove gli USA, dopo aver preteso di fare tutto da soli, ora invocano l’aiuto dell’ONU e della NATO per uscire dal pantano. O ci impegniamo tutti insieme o moriamo tutti insieme.

Intanto si profila un nuovo equilibrio planetario, dopo quello bipolare del XX secolo. Non sappiamo ancora se sarà tripolare o quadripolare: USA, Ue, Cina, India, Brasile…

Questo, dunque, è lo scenario quale appare alla superficie. In realtà, lo tsunami, seguito al movimento sismico provocato dalla fine dell’equilibrio bipolare del mondo, è ben più grave: esso, nel fondo, è un confronto-scontro tra culture e civiltà diverse.

In modo particolare in Europa, l’equilibrio precedente si fondava su tre principali culture: la cultura giudaico-cristiana (cristianità), la cultura illuministica liberale (laicismo), la cultura marxista (comunismo). Era inevitabile che, venuta meno la cultura marxista, si acuisse il confronto-scontro tra cultura cristiana e cultura laica. Le due culture sono entrambe in crisi, a causa dei processi di mondializzazione e dei progressi delle scienze umane. Eppure, nonostante tutto, esse sono destinate a incontrarsi per costruire insieme la nuova Europa, il nuovo equilibrio planetario e la pace nel mondo.

La crisi della cultura laica è sotto gli occhi di tutti. Se, da un lato, essa ha prodotto la democrazia e ha difeso la libertà e i diritti umani, dall’altro è fallito il progetto illuministico di realizzare storicamente un’etica universale, fondata sulla sola ragione. L’illuminismo è sfociato nel “pensiero debole” e nel relativismo etico, nell’individualismo egoistico e nel razzismo. E’ apparso chiaro che la cultura liberale non ha in sé la forza di riequilibrare il mondo: non è riuscita nel suo intento, neppure quando la cultura cristiana era in crisi a motivo della secolarizzazione e della caduta dei valori (cfr. on. G. Amato, «Dove nasce la società egoista», in Repubblica, 09.12.05).

Tuttavia, anche la crisi della cultura cristiana è patente, a causa soprattutto del processo di secolarizzazione. Questa di per sé è un fenomeno positivo: il chiarimento della diversità del piano religioso da quello politico consente, tra l’altro, rapporti più chiari tra Stato e Chiesa e garantisce la autonomia delle due parti. Il guaio è che la secolarizzazione tende a degenerare nel secolarismo, cioè nella pretesa di eliminare Dio dalla storia umana e di ridurre il fenomeno religioso a pura dimensione personale e privata, senza incidenza sociale. Così, dopo aver dato un’anima all’umanesimo e al diritto, la cultura cristiana ha dovuto confrontarsi, in Europa, con la perdita del senso di Dio, perdendo di fatto la funzione, che aveva sempre esercitato, di collante sociale e subendo il contraccolpo della crisi dei valori e del relativismo etico.

Eppure, dopo aver toccato il fondo della crisi, oggi si scorgono alcuni sintomi di ripresa e si parla sempre più di “ritorno” o di “rivincita” di Dio. C’è il pericolo di nuovi rischi, come quello di una più sottile strumentalizzazione della religione a fini politici (la cosiddetta “religione civile”). Quindi, il superamento della crisi va guidato e orientato, non lasciato a se stesso.

2. L’Europa: un continente deluso

Venendo in particolare all’Europa, dobbiamo dire che, nonostante gli straordinari traguardi raggiunti, oggi essa si presenta come un continente deluso. Grava soprattutto sulle nuove generazioni l’eredità negativa di tante promesse non mantenute, di tante speranze fallite. Gli “idoli”, che nei secoli passati avevano fatto crescere l’Europa, sono andati tutti in frantumi, uno dopo l’altro: il mito illuministico della “dea ragione”, che da sola avrebbe potuto ogni cosa, si è dissolto nel nichilismo contemporaneo, che nega perfino la possibilità di conoscere la verità; il mito del “progresso indefinito”, nato con la rivoluzione industriale, si è infranto contro le contraddizioni del capitalismo selvaggio; l’autosufficienza dei “nazionalismi” della prima metà del Novecento e dei regimi nati dalla rivoluzione d’Ottobre ha condotto a forme disumane di totalitarismo e di dittatura, aprendo la via a guerre mondiali e a genocidi spaventosi; il mito del primato dello “sviluppo economico” ha finito col creare nuove forme di colonialismo e ci ha condotti sull’orlo della catastrofe ecologica; infine, anche il miraggio ideologico della “liberazione”, secondo cui l’uomo si sarebbe sciolto da tutte le catene con le sue sole forze, è rimasto sepolto sotto le macerie del muro di Berlino.

Il fallimento di tutte queste speranze ha contribuito al disorientamento, che caratterizza questo inizio del terzo millennio. Il clima di incertezza e di precarietà che lo caratterizza è un implicito riconoscimento che la ragione, la scienza, la tecnica, la crescita economica – nonostante risultati eccezionali – da sole non bastano a liberare l’uomo; non sono sufficienti a compierne le speranze, a renderlo libero e felice. E l’uomo moderno, che aveva creduto di potercela fare da solo, con le sue forze, oggi è deluso. Riuscirà ancora a sperare?

E’ questo il problema di fondo, con il quale la 52a Assemblea Nazionale dell’USMI ha scelto di misurarsi: quali percorsi seguire per rendere visibile in Europa la speranza che non delude? La nostra ricerca è facilitata dal fatto che con questo stesso problema si è confrontata l’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei vescovi (1-23 ottobre 1999), alla vigilia del terzo millennio: «Sì, fratelli e sorelle: l’uomo non può vivere senza speranza. Ma sarà essa possibile e chi gliela potrà donare, quando molte speranze, anche negli ultimi tempi sono andate miseramente deluse?» (Messaggio finale, n.1). E Giovanni Paolo II, raccogliendo le istanze del Sinodo nella bella esortazione apostolica Ecclesia in Europa (28 giugno 2003), commenta: «Alla radice dello Smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l’uomo come il centro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo» (n. 9).

Paradossalmente però – come spesso accade – l’uomo, proprio quando tocca il fondo, ricomincia a sperare. «La nostra speranza è certa» – rileva infatti il Messaggio dei vescovi europei –; «concreti, sperimentabili e in qualche modo tangibili sono i segni di questa speranza» (n. 3). E ciò vale non solo per i “segni di speranza” all’interno della vita della Chiesa, ma anche per quelli che si manifestano nella società europea: «Constatiamo con gioia» – si legge nel Messaggio finale dell’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei vescovi – «la crescente apertura dei popoli, gli uni verso gli altri, la riconciliazione tra nazioni per lungo tempo ostili e nemiche […]. Riconoscimenti, collaborazioni e scambi di ogni ordine sono in sviluppo, così che, a poco a poco, si crea una cultura, anzi una coscienza europea, che speriamo possa far crescere, specialmente presso i giovani, il sentimento della fraternità e la volontà della condivisione. Registriamo come positivo il fatto che tutto questo processo si svolga secondo metodi democratici, in modo pacifico e in uno spirito di libertà, che rispetta e valorizza le legittime diversità […]. Salutiamo con soddisfazione ciò che è stato fatto per precisare le condizioni e le modalità del rispetto dei diritti umani […]. Mentre registriamo i segni della speranza offerti dalla considerazione data al diritto e alla qualità della vita, ci auguriamo vivamente che […] sia garantito il primato dei valori etici e spirituali» (n. 6). Sono tutti “segni di speranza”, indicati dal Sinodo dei vescovi, e che il Papa riprende alla lettera (cfr. Ecclesia in Europa, n. 12); a essi le nuove generazioni si mostrano particolarmente sensibili. Non possiamo permetterci di fallire ancora. Una ulteriore delusione avrebbe effetti morali e sociali imprevedibili.

Il XXI secolo, dunque, offre ai cristiani un’occasione propizia di contribuire a far rinascere nell’Unione la «speranza che non delude» (Rm 5,5). Gli ideali di dignità umana, di libertà, di solidarietà, di giustizia e di pace, contenuti nell’art. I-2 del Trattato costituzionale europeo, e ai quali aspirano le nuove generazioni, rendono possibile – come mai prima d’ora – l’incontro della speranza cristiana con le altre speranze dell’uomo.

Perciò, per determinare i percorsi propri della vita consacrata, per rendere visibile la speranza in Europa, occorre prima chiarire: 1) in che cosa consiste la speranza cristiana; 2) come testimoniarla oggi in Europa; 3) attraverso quali strade la speranza cristiana incontrerà le altre speranze presenti nel Continente.

3. La speranza cristiana

Anche la speranza cristiana è una speranza umana. Gesù è venuto a salvarci e a divinizzarci: cioè, ci ha svelato il senso vero della vita umana, la sua vera speranza. Rendere visibile la speranza cristiana significa dunque confrontarla con tutte le speranze umane. La speranza cristiana le assume e le trascende. La speranza di liberazione comincia già qui e ora. Tuttavia la sua pienezza è nell’incontro con il Risorto. Quindi, la speranza cristiana si distingue dalle altre speranze soprattutto quanto all’origine e quanto all’oggetto. Essa non si fonda su una filosofia o su una ideologia, né sulle sole forze dell’uomo, ma poggia su Dio – «il Dio della speranza» (Rm 15,13) – e sulla sua Parola; nasce cioè dalla fede nella rivelazione e nella promessa della salvezza, che si realizza storicamente in «Cristo nostra speranza» (1Tm 1,1). E’ emblematico quanto è accaduto ai due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Erano due uomini delusi, «col volto triste» (v. 17): «Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele» (v. 21). La speranza ritorna quando Cristo, nella sua umanità nascondendo la sua divinità, spiega (exeghèsato, racconta, direbbe Gv 1,18) il senso delle Scritture, svela il mistero del Padre e nello stesso tempo svela l’uomo all’uomo.

La speranza cristiana non si esaurisce nella tensione verso una liberazione meramente temporale e immanente, raggiungibile con le forze umane, ma – come spiega Paolo VI – ha come oggetto la «salvezza, dono grande di Dio, che non solo è liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, ma è soprattutto liberazione dal peccato e dal Maligno, nella gioia di conoscere Dio e di essere conosciuti da lui, di vederlo, di abbandonarsi a lui» (Evangelii nuntiandi [EN ], n. 9).

In altre parole, quella cristiana è una speranza trascendente, in quanto propone all’uomo il destino soprannaturale al quale è chiamato per dono gratuito di Dio: comincia a realizzarsi quaggiù, ma non rimane chiusa come le altre speranze nell’orizzonte temporale, è «annuncio profetico di un al di là, vocazione profonda e definitiva dell’uomo, in continuità e insieme in discontinuità con la situazione presente» (ivi, n. 28). Non è anzitutto una dottrina, ma una esperienza: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto […], quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).

Perciò, tacere o mettere in ombra la dimensione trascendente della speranza cristiana, per presentarla esclusivamente o prevalentemente come promessa di liberazione sociale e politica, equivale – per usare una espressione incisiva di san Paolo – ad annacquare la Parola di Dio (kapeleùontes, fare come fanno gli osti che adulterano il vino con l’acqua (2Cor 2,17). In realtà, noi non siamo cristiani perché speriamo nella giustizia, nella pace, nella liberazione dei poveri e degli oppressi; ma speriamo, lottiamo e fermamente crediamo di poter vincere ogni forma di ingiustizia, perché siamo cristiani.

In altre parole, affermare che la speranza cristiana è di natura religiosa e trascendente non significa affatto che essa sia disincarnata o storicamente inefficace (come si può dire invece di altre “speranze religiose”, che inducono piuttosto all’apatia e alla passività). Infatti, la salvezza promessa da Dio in Cristo, se è una speranza che trascende le forze dell’uomo, comincia però a realizzarsi all’interno delle vicende umane: il dono di Dio «deve essere pazientemente condotto nel corso della storia, per essere pienamente realizzato nel giorno della venuta definitiva del Cristo» (EN, n. 9). Insomma, la speranza cristiana non solo non induce a rifuggire dall’impegno storico, ma anzi spinge positivamente all’azione: «Noi ci affatichiamo e lottiamo, perché abbiamo messo la nostra speranza nel Dio vivente» (1Tm 4,10); non è un oppio che addormenta, ma è uno stimolo incontenibile che impone «il dovere di annunziare la liberazione di milioni di esseri umani […]; il dovere di aiutare questa liberazione a nascere, di testimoniare per essa, di fare sì che sia totale» (EN, n. 30).

4. Testimoniare la speranza

Perché allora l’annuncio e la testimonianza della speranza cristiana oggi non risultano credibili agli uomini del nostro Continente? Certo, ciò dipende dalla delusione di cui soffre oggi l’Europa e dal pluralismo culturale e religioso che oggi caratterizza il vecchio Continente: la delusione porta all’indifferenza religiosa (non mi interessa!), il pluralismo porta al relativismo (il cristianesimo è una delle tante religioni).

Nello stesso tempo, però, a rendere meno credibile l’annunzio cristiano contribuiscono gli errori dei credenti, che con il loro comportamento accreditano la convinzione che la speranza cristiana sia una delle tante speranze umane che oggi si confrontano nel mondo. Ecco perché – esortano i vescovi europei – : «E’ necessario fare tutti insieme un umile e coraggioso esame di coscienza per riconoscere le nostre paure e i nostri errori, per confessare con sincerità le nostre lentezze, omissioni, infedeltà, colpe» (Messaggio, n. 4).

Una prima causa della poca credibilità di cui gode oggi l’annuncio della speranza cristiana è la dicotomia che molti credenti stabiliscono tra fede e storia. Si tratta di una indebita frattura tra vita terrena e vita celeste, che spinge a fuggire dal mondo, a rifugiarsi in una visione disincarnata e intimistica della fede, confinando ogni speranza di giustizia, di pace e di fraternità esclusivamente nel mondo futuro, nell’aldilà, alla fine dei tempi. Non si rendono conto questi cristiani che, così facendo, paradossalmente contribuiscono ad alimentare il secolarismo e le speranze atee, aiutano – senza volerlo – a estromettere Dio dalla storia. «Dall’inizio dell’epoca moderna» – nota acutamente J. Moltmann, in uno scritto del 1972, – «credenti e non credenti si sono volentieri divisi il mondo, riservando agli uni di sperare in un avvenire celeste, agli altri di sperare in un avvenire terreno; gli uni coltivano la speranza dell’anima, o del cuore, gli altri la speranza di una società giusta. Operando una tale divisione, i cristiani e gli atei hanno in realtà contratto un’alleanza: un’alleanza con la morte di Dio nel mondo» (cit. in Civiltà Cattolica 1974/ I .530). Dunque, il primo modo di rendere credibili l’annuncio e la testimonianza della speranza cristiana agli uomini del terzo millennio è quello di realizzare prima di tutto in noi stessi la sintesi coerente tra fede e vita, consapevoli che non vi sono due storie diverse, una profana e l’altra sacra, ma che la storia è una sola, insieme umana e divina, come uno (umano e divino) è il destino dell’uomo chiamato a viverla. E’ il contrario di un annuncio aggressivo, imposto o arrogante.

Un secondo errore da evitare è quello di chi, insistendo doverosamente sul fatto che la speranza cristiana riguarda pure la costruzione di un mondo più umano e fraterno, finisce però col ridurla a mera speranza di liberazione sociale e politica, lasciandone in ombra la dimensione religiosa e trascendente. San Paolo stesso ci ammonisce severamente: «Se abbiamo avuto speranza in Cristo solamente in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (1Cor 15,19). Infatti, la speranza cristiana suppone innanzi tutto la liberazione dal peccato, che è il male radicale dell’uomo separato da Dio. Solo di conseguenza, e come momento integrante della conversione interiore, la speranza cristiana si traduce in contributo determinante alla liberazione anche dalle manifestazioni sociali e strutturali del peccato: dalle discriminazioni d’ogni genere, dai sistemi economici disumani, dai regimi politici oppressivi.

Una terza difficoltà, che oggi toglie credibilità all’annuncio della speranza che non delude, è lo scoraggiamento e la tristezza, da cui spesso si fanno prendere gli stessi cristiani di fronte alle prove e alle avversità. Questa mancanza di testimonianza gioiosa, bella e affascinante, che non si spaventa degli insuccessi e dei ritardi – sottolineano i vescovi europei nel loro Messaggio, n. 3 – è agli antipodi del “Vangelo della speranza”, il quale invece insegna che la speranza vera passa necessariamente attraverso il mysterium crucis, abbracciato con gioia e fiducia: la sofferenza produce perseveranza, la perseveranza ci rende forti nella fede, e questa forza ci apre alla speranza (cfr. Rm 5,4). Perciò, portare al mondo la speranza cristiana vuol dire portare, insieme con la croce del Signore, la fiducia nella sua potenza redentrice, che sola dà senso al dolore e alla morte dell’uomo e non consente di continuare a essere tristi «come gli altri che non hanno speranza» (1Ts 4,13). A questo invitano con il loro esempio i numerosi martiri di tutte le confessioni cristiane, la cui testimonianza «ci ricorda che senza la Croce non c’è salvezza». Durante il Grande Giubileo, il Papa ha voluto che il 7 maggio 2000 si tenesse al Colosseo una solenne commemorazione dei testimoni della fede. La commissione incaricata di farne il censimento ha accertato che il secolo XX è stato quello che ha avuto in assoluto il numero più alto di martiri: 12.962, di cui 126 vescovi, 4.872 religiosi e religiose, 5.343 sacerdoti e 2.351 laici. Essi hanno dato la vita in tutte le parti del mondo: in occasione di rivoluzioni sociali o di guerre civili dalla Cina al Messico, alla Spagna; a causa della ferocia ideologica, come quella dei nazisti in Europa o quella dei comunisti soprattutto nei Paesi dell’Est; per la opposizione dei fondamentalismi religiosi, soprattutto in Africa e in Asia.

Dunque, recare all’Europa delusa il Vangelo della speranza non è un invito a rimanere inattivi, in attesa che i problemi vengano risolti dall’alto, ma è fonte di coraggio e di novità di vita, è impegno indefesso a costruire con tutti gli uomini un mondo diverso, ovviamente senza mai dimenticare che «se il Signore non edifica la casa, invano faticano i costruttori». Quante contestazioni, quante rotture, quante crisi si sarebbero evitate – sia nella vita della Chiesa, sia nell’impegno sociale, – se i cristiani per primi avessero saputo scorgere nelle prove, nelle incomprensioni, nel fallimento apparente la misteriosa logica della “speranza che non delude”.

5. La speranza e le speranze

Proprio qui si innesta il problema più delicato e difficile che i cristiani dovranno affrontare nella nuova Europa: quale rapporto stabilire tra la speranza cristiana e le speranze dell’uomo? Confronto o contrapposizione? Rottura o dialogo?

Se si tiene presente la natura religiosa della speranza cristiana, è possibile comprendere perché l’incontro con le altre speranze non solo è utile in sé, ma è anche necessario. Infatti, la speranza cristiana, essendo nello stesso tempo “storica” e “trascendente”, non è alternativa ma complementare nei confronti delle altre speranze.

Ciò significa, in primo luogo, che la speranza cristiana non spegne nessun’altra speranza umana – per quanto piccola o parziale essa sia – dovunque e da chiunque sia proposta; ma funge da stimolo efficace al suo dischiudersi verso gli orizzonti di un umanesimo plenario. Dal canto loro, le speranze terrestri, nella misura che sono vere, buone e riconducibili al bene, non escono dall’orizzonte della speranza cristiana, ma contribuiscono a rafforzarla. Come il Vangelo e la storia si illuminano a vicenda, così la speranza cristiana e le altre speranze umane si aiutano a comprendere e a crescere insieme. La «difficoltà di giungere a un vero dialogo a livello di fede» – dice il p. Peter-Hans Kolvenbach, generale della Compagnia di Gesù – «non esclude il dialogo della vita, in cui tutti gli uomini di buona volontà si incontrano e si aiutano vicendevolmente per costruire un mondo più giusto, più pacifico e più umano per tutti, secondo il desiderio di Dio per l’umanità» (Intervista, in Il Consulente RE, n.1, febbraio 2005, p. 75).

Tuttavia, non ogni speranza terrestre coincide sempre con il bene dell’uomo e con la speranza cristiana: «non ogni nozione di liberazione» – ricorda la Evangelii nuntiandi – «è necessariamente coerente e compatibile con una visione evangelica dell’uomo, delle cose e degli avvenimenti» (n. 35). Pertanto, l’incontro con le altre speranze avrà sempre pure un aspetto “critico”, nel senso che la natura profetica della speranza cristiana, mentre da un lato incoraggia e sostiene ogni altra speranza di una società migliore e ne è a sua volta confortata, dall’altro però non può non contrastare tutto ciò che va contro l’uomo e contro Dio. Al tempo stesso, non possono bastare l’annuncio e la testimonianza della speranza che non delude, senza un confronto leale e aperto con le diverse culture. Nella Europa di oggi – pluralistica, secolarizzata e per molti aspetti postcristiana – il dialogo costituisce lo strumento indispensabile all’annuncio del “Vangelo della speranza”. Si tratta – come ha fatto Gesù – di “raccontare” Dio agli uomini con la testimonianza di una vita umana integrale, giustificata dalle ragioni della speranza. Ecco perché, il dialogo interculturale e interreligioso è il passaggio obbligato per aiutare gli europei a incontrare la speranza che non delude. Questa speranza è una persona viva: è Cristo risorto. Rendere visibile la speranza ai cittadini della nuova Europa significa, dunque, aiutarli a incontrarsi direttamente con il Vivente. Anelando alla speranza che non delude, essi – anche senza saperlo – anelano a incontrarsi con Lui, dopo la delusione profonda per tante speranze belle fallite.

Questo, dunque, è il contesto storico europeo, fatto di chiusure e di aperture, in cui siamo chiamati a recare il “Vangelo della speranza”.

(Il testo intero in Consacrazione e Servizio n.7-8/2005)

 

* Docente di Dottrina Sociale presso il Centro Studi Sociali di Palermo e Direttore di Aggiornamenti Sociali.

   

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