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Il Papa, nel documento sulla vita
religiosa, Vita consecrata 93, afferma: “la vita spirituale, intesa
come vita in Cristo, vita secondo lo Spirito, si configura come un
itinerario di crescente fedeltà, in cui la persona consacrata è
guidata dallo Spirito e da lui configurata a Cristo, in piena comunione
di amore e di servizio nella Chiesa”.
La vita di fede, nella visuale del Papa,
per dirla con un’immagine, non è una carta geografica, ma un cammino
sul terreno. La vita cristiana, soprattutto nella persona consacrata, è
un itinerario volto a favorire il passaggio da una fede superficiale e
di consuetudine, a una fede capace di coinvolgere la totalità dell’esistenza
credente. In questo passaggio la vita di consacrazione può esprimere
tutta la sua radicalità e divenire, al tempo stesso, una “risorsa”
beatitudinale e profetica.
1. Aspetti problematici della sequela
di Cristo oggi
Per meglio entrare nel discorso, mi pare
opportuno evidenziare alcuni momenti problematici che oggi assume la
sequela di Cristo e in particolare la sequela di Cristo vissuta nella
consacrazione.
Spiritualità centrata troppo sull’etica
e poco sulla mistica
La sequela, spesso, è fondata su una
spiritualità della pratica che la rende alquanto statica. Per sua
natura, il discepolato cristiano è un incontro personale con il Signore
vivente, un’amicizia con lui che non può mai essere ridotta a una
semplice messa in pratica di leggi e di comandamenti. Certamente quest’ultimo
aspetto è insito nel cammino di fede ma, quando prende il sopravvento,
c’è il pericolo di far ricadere l’avventura cristiana in una
dimensione puramente etica, che rischia di porre in ombra la
peculiarità comunionale della stessa. La sopravvalutazione della
dimensione “etica” rischia di sottovalutare la valenza mistica e, di
conseguenza, mettere in ombra la stessa relazione con Dio, principio
della vita cristiana.
Spiritualità troppo “formale” e
poco “radicale”
Un secondo aspetto problematico è la
formalità con cui, spesso, viene vissuta l’esperienza di
consacrazione. Potrebbe anche apparire curioso per l’ambiente
ecclesiale, eppure lo stesso C.G. Jung, già diversi anni fa, aveva
intravisto, con estrema chiarezza, questa possibile deriva dell’esperienza
cristiana. Egli parlava di due poli nell’esperienza della fede
cristiana: la fede legittima e quella che riposa esclusivamente nell’autorità
della tradizione, senza un’adesione personale. Mi sembrano ancora
attuali le sue osservazioni:
“La fede legittima risale sempre all’esperienza
vissuta. Accanto a questa esiste una fede che riposa esclusivamente sull’autorità
della tradizione. Si può chiamare anche questa fede legittima, in
quanto anche la forza della tradizione rappresenta un’esperienza la
cui importanza per la continuità della cultura è fuori discussione.
Certo in questa forma di fede è inserito il pericolo di divenire una
mera abitudine, un’inerzia spirituale, una comoda osservanza priva di
pensiero che minaccia di determinare un arresto e quindi un regresso
nella cultura. Questa dipendenza divenuta meccanica procede di pari
passo con la regressione psichica verso l’infantilismo, in quanto i
contenuti tradizionali perdono a poco a poco il loro vero significato e
viene loro tributata solo una fede formale, senza che questa fede
possegga un’influenza qualsiasi sulla vita. Dietro di essa non vi è
più potenza vitale”.2
Una fede non personalizzata rischia di
diventare una regressione semplicemente infantile.
Spiritualità incentrata troppo sulla
“perfezione” e poco sulla
“bontà”
Può darsi che nei nostri ambienti e
nella nostra formazione l’attenzione si sia maggiormente portata sul
raggiungimento della perfezione, intesa come nostro sforzo e nostra
conquista. Abbiamo, forse, dimenticato che la perfezione evangelica è
la “bontà”. Afferma p. Tillard:
“Il Cristo è venuto a liberare il
fondo di bontà dell’uomo, che il male non è in grado di distruggere.
La bontà esiste, il male non è affatto destinato ad avere l’ultima
parola. La Chiesa è incaricata dallo Spirito di rivelare, risvegliare e
sprigionare la bontà che dorme nel cuore umano. Qui s’inscrive il
progetto della vita religiosa. Essa mira a liberare il fondo di bontà
della persona e a renderne testimonianza per Dio… Povertà, castità,
obbedienza hanno questo obiettivo. Cercare la “perfezione evangelica”
è cercare la Bontà, che impregna da ogni parte la visita di Dio in
Cristo Gesu”.3
Spiritualità troppo centrata sull’autorealizzazione
e poco sulla “comunione”
Nella vita cristiana il cammino di “autorealizzazione”
si concretizza nella “comunione”. La libertà ci è donata, perché
l’amore si compia “fino alla fine” (cf Gv 13,1). Mi pare che oggi,
tra noi consacrati, il bisogno di autorealizzazione ha preso il posto
della comunione. L’altro rischia di essere considerato più come uno
“strumento” della mia personale realizzazione, che una persona con
cui condividere un cammino di discepolato, di fraternità e di servizio.
2. Il cammino di appropriazione
personale della vita di fede
Per accogliere l’invito di Giovanni
Paolo II che chiama a riscoprire la vita cristiana come un itinerario e
tentare di rispondere in positivo alle quattro “stretture”
problematiche della sequela di Cristo oggi, in cui si dibatte la stessa
donna consacrata, è necessario un passaggio fondamentale che sembra
riguardare maggiormente il mondo dei fedeli laici, ma che coinvolge
direttamente uomini e donne consacrate, che hanno donato la loro
esistenza a Cristo, in una sequela radicale e in un servizio
disinteressato ai fratelli.
Diceva Giovanni Paolo II nel discorso
rivolto ai Vescovi lombardi in visita ad limina nel 1991:
“(Nella situazione in cui vive oggi il
cristiano e il cristiano consacrato), occorre soprattutto il passaggio
da una fede di consuetudine, pur apprezzabile, a una fede che sia scelta
personale, illuminata, convinta, testimoniante. È il tempo della nuova
evangelizzazione”. E ancora: “Solo l’effettiva riscoperta di
Cristo quale solida roccia su cui costruire la vita e l’intera
società permette ai credenti di non temere difficoltà e ostacoli di
ogni tipo”.4
Secondo il Papa, una possibile via, per
tentare di superare le difficoltà odierne del vivere cristiano,
consiste nell’aprire il cuore a Cristo, impegnandoci a passare da una
fede di consuetudine, vissuta per inerzia o per abitudine, a un’esistenza
cristiana fondata su una scelta di fede personale, illuminata, convinta,
testimoniante.
Ma come favorire questo transito esodale
da una fede semplicemente saputa a un’esistenza cristiana interamente
vissuta? Una strada potrebbe consistere nel sollecitare l’appropriazione
personale dell’esistenza cristiana, ossia nel favorire l’appropriazione
personale della sequela di Cristo Signore.
Il cristiano laico, né tanto meno l’uomo
o la donna consacrata, può oggi accontentarsi di vivere l’esistenza
di fede con tiepidezza e formalità, ricercando una perfezione vuota e
astratta, centrata sulla pratica, oppure esprimere un cammino spirituale
come momento parallelo ad altre esperienze di vita.
Oggi più che mai è necessario
sottolineare che la sequela di Gesù, per sua stessa natura, è una
chiamata che tende a prendere forma, nel tempo e nello “spazio”
personale, ecclesiale e storico, attraverso un processo di
appropriazione personale.
Il termine appropriazione deriva da
proprius e significa ciò che mi appartiene, ciò che mi riguarda
personalmente e direttamente. Appropriazione personale, qui, si
riferisce al fare mia un’idea, un ideale, un atteggiamento, uno stile
di vita, un valore, una verità, in modo che tutta la mia esistenza ne
sia coinvolta.
In questo quadro, appropriarsi dell’esistenza
cristiana significa porre concretamente in evidenza l’esistere
personalmente nel mistero di Dio che, in Cristo per lo Spirito, si
impegna per me, per tutti gli uomini, per il mondo intero.
Appropriarsi dell’esistenza cristiana
significa aprirsi all’esperienza che già fu dell’apostolo Paolo:
“Colui che mi ha scelto fin dal seno di mia madre e mi ha chiamato con
la sua grazia si compiacque di rivelare in me suo Figlio perché lo
annunziassi in mezzo ai pagani” (cf Gal 1,15-16). Il Padre si degna di
rivelare, per mezzo dello Spirito, suo Figlio nel cuore del cristiano,
perché lo annunci al mondo. In definitiva, appropriarsi del cammino di
fede, “significa abituarsi a dare una risposta personale alla
questione fondamentale di Cristo: mi ami tu?”.
Afferma Edith Stein: “Grande distanza
corre tra l’essere soddisfatti di sé ritenendosi “buon cattolico”
che “fa il suo dovere”, e l’abbandono totale del Figlio di Dio,
che ha affidato la propria vita al Padre e cammina con lui, mano nella
mano, tutto aspettando da lui, con la semplicità del bambino e l’umiltà
del pubblicano. Una volta che l’anima ha percorso quella distanza, non
può più tornare indietro”5.
L’esperienza cristiana non può farsi
per sentito dire. O come parallela o addirittura marginale alla vita
quotidiana. La sequela cristiana è l’appello del Padre rivolto “a
me” nel Figlio suo che, per lo Spirito, diviene la “mia” perla
preziosa, il tesoro nascosto nel campo del “mio” cuore e che si
esplicita e si invera in esistenza ecclesiale e storica, in esperienza
di comunione e di bontà.
A questo proposito è decisamente
istruttiva l’esperienza di Giobbe, grande amico di Dio. Egli, nello
scorrere della sua vita, intuisce gli attributi divini ed esprime il suo
assenso nozionale verso la giustizia, la verità, la bontà, la
misericordia di Dio. Le vicissitudini della sua esistenza, tuttavia,
contribuiscono a trasformare il suo “assenso nozionale” in assenso
reale, ossia, in autentica e profonda appropriazione personale. Al
termine del suo cammino, rivolto a Dio, esclama: “Io ti conoscevo per
sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono, perciò mi ricredo e ne
provo pentimento sopra polvere e cenere” (Gb 42,5-6).
L’appropriazione personale, secondo l’esperienza
di Giobbe, è il passaggio dal “sentito dire” al “vedere con i
propri occhi”. Nella sequela del suo Signore, la donna consacrata è
chiamata, oggi, a fare il medesimo passaggio: dal “sentito dire” al
“vedere con i propri occhi”; è chiamata a cercare “Gesù per
Gesù”.
Al termine del Giubileo, Giovanni Paolo
II non esita a porre la santità a fondamento della programmazione
pastorale. Compiere questo passo è una scelta gravida di conseguenze:
“Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero
ingresso nella santità di Dio, attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione
del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita
mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una
religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno: “Vuoi ricevere il
Battesimo?” significa al tempo stesso chiedergli: “Vuoi diventare
santo?”. Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso
della Montagna: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro
celeste” (Mt 5,48)” (NMI 31). Se così devono essere i catecumeni,
figuriamoci le donne consacrate...
3. Percorsi per favorire l’appropriazione
della propria consacrazione
Per dare valore e concretezza al cammino
di appropriazione è, quanto mai opportuno, tentare di intravedere
qualche percorso che possa aiutare la donna consacrata a passare dal “sentito
dire” al “vedere con i propri occhi”, a fare “esodo” da un’esistenza
religiosa vissuta per consuetudine o “senza infamia e senza lode”, a
una sequela radicale di Cristo Signore. Per compiere questo passaggio è
necessario che ciascuno accolga con radicalità il dono spirituale che
gli è consegnato nel Battesimo e nella consacrazione.
In questo orizzonte intendo tracciare
quattro itinerari che aiutino a cogliere la forza dirompente che la vita
evangelica trattiene per ciascuno di noi, per la Chiesa e per il mondo
intero.
3.1. Premessa ai percorsi: l’uomo
immagine e somiglianza del Dio Trinità
La Bibbia ci informa, già nella prima
pagina della Genesi, che l’uomo è un essere creato a immagine e
somiglianza di Dio. Essere immagine e somiglianza di Dio, per l’uomo,
significa due cose. Anzitutto, che egli è reso signore del creato, a
immagine di Dio, esclusivo Signore dell’uomo e del cosmo. E poi, che
partecipa della vita stessa del Dio Trinità, attraverso Cristo e lo
Spirito Santo. In quanto creato “a immagine” di Dio, l’uomo non ha
fondamento in sé, ma il suo è un “essere-in-comunione-con-Dio-Trinità”.
Questo significa che tutta la ricchezza
dell’uomo, la sua sensibilità, la sua psiche, la sua ragione, il suo
cuore, in una parola, tutto il suo essere è creato in maniera da essere
affine a Dio. La natura umana, pur creata e corruttibile, essendo affine
a Dio porta in sé il germe dell’eternità, ha in sé una
profondissima nostalgia di Dio.
Perciò, se vogliamo comprendere qualcosa
dell’uomo, dobbiamo partire da Dio. Non è possibile comprendere l’uomo
rimanendo in lui, chiudendosi in lui, perché l’uomo non è fondamento
di se stesso. Per intendere l’uomo è necessario “sostare” in Dio.
La grande tradizione patristica è un invito costante a partire dal Dio
Trinità per balbettare qualcosa dell’uomo. In questo modo, ciò che
diciamo di Dio possiamo dirlo anche dell’uomo, proprio in quanto
creato “a sua immagine”. In questa prospettiva è possibile cogliere
la densità “divina” della nostra consacrazione, che, conducendoci
nel mistero stesso del Dio Trinità, ci permette di cogliere la
radicalità del fondamento e di esplorare alcuni percorsi, che possono
farsi “risorsa” per tutti i consacrati, in particolare per la donna
credente.
Proviamo a sondare alcuni di questi
percorsi.
3.2. Dio Trinità è persona e koinônía, l’uomo è persona e koinônía
La prima realtà, che possiamo affermare
del Dio di Gesù, è che egli è un Dio Trinità. Il Dio Trinità, che
Cristo Gesù ci ha rivelato, è persona e koinônía (comunione) in
maniera perfetta. Solo per il fatto che la Trinità Santa è koinônía
di persone, ciascuno dei tre - Padre, Figlio e Spirito Santo - è, per
eccellenza, persona e, come persone, i tre vivono la koinônía dell’unica
divinità. Padre, Figlio e Spirito Santo sono dei nomi che trattengono
delle relazioni. Non posso dire Padre senza che vi sia un Figlio, non
posso dire Figlio senza che vi sia un Padre, non posso dire Spirito
Santo senza pensare al “vincolo”, al “luogo divino” dove il
Padre e il Figlio si uniscono e si ritrovano.
Detto in altri termini, il Dio Trinità
è “persona in comunione”, è “koinônía di persone”. La
teologia dell’Oriente cristiano presenta la Trinità come una grande
danza. I tre non solo danzano uno accanto all’altro, ma danzano “uno
nell’altro”. In questo senso il Dio Trinità è persona e comunione,
persone “in” comunione.
Il mistero che affermiamo del Dio
Trinità, possiamo dirlo anche dell’uomo. L’uomo, in quanto creato a
immagine della Trinità Santa, koinônía di persone, è anch’egli “persona
e koinônía”, o meglio “persona in koinônía”.
Un uomo considerato esclusivamente nella
sua “solitudine” non sarebbe immagine somigliante del Dio Trinità.
Per questo, è Dio stesso a creare la donna, a donarla al maschio come
“aiuto” o, più esattamente, come un “di-fronte”. “L’uno
verso l’altra”, “l’uno di-fronte all’altra”, maschio e
femmina formano dal principio l’immagine. La venuta di Eva realizza l’ecclesialità
sponsale del maschio e della donna; dice la Genesi: “Questa si
chiamerà Isha donna, perché fu creata da Ish uomo” (cf Gn 2,23).
Commenta san Cirillo d’Alessandria: “Dio, in quell’istante, creò
il co-essere”.
Ora, quando si afferma che la persona è
comunione, si intende sottolineare la dimensione relazionale io-tu o
io-tu-noi. La persona umana è certamente koinônía in questo senso.
Eppure, a ben vedere, perché questa stessa dimensione comunionale si
affermi, è necessario che l’uomo sia koinônía, anzitutto, nel
proprio sé. Il riflesso trinitario, che l’uomo esprime, dice che egli
è “co-essere” fin dal principio, fin nella sua profondità.
Per comprendere l’uomo, allora, è
necessario passare dall’individuo alla persona. L’individuo, su cui
la nostra cultura occidentale pone molto l’accento, si regge sulla sua
soggettività, sul suo io, sul suo sé: è una “monade”, come
direbbe qualcuno.
La persona, al contrario, è sé e
Altro/altro insieme. Per colui che si riconosce persona, l’altro non
è solo accanto a lui, al suo fianco, ma è già in lui. Se io sono un
“co-essere”, l’altro è già in me prima che si sieda al mio
fianco; è già in me a prescindere da come lo tratto, da come lo ami,
da come lo odi o gli sia indifferente.
Nel momento in cui “io” mi considero
persona, immagine della Trinità, io non sono più un semplice “io”,
un “io indiviso”, un “io individuo”. In me c’è una società
di persone che hanno bisogno l’una dell’altra, che si dividono l’una
con l’altra, che fanno la guerra o vivono la pace l’una nei
confronti dell’altra.
Questo modo di concepire la persona, è,
anzitutto, a fondamento della Chiesa intesa come corpo del Signore (cf
1Cor 12-14). L’altro, per l’azione dello Spirito Santo, è già
presente nel mio “co-essere”, già si affaccia nella mia carne,
nella mia psiche, nel mio cuore, prima di incontrarlo “faccia a faccia”.
Anzi, io posso incontrare l’altro “faccia a faccia”, proprio
perché l’altro è già in me.
La “persona in koinônía” ha pure un
risvolto sociale e politico, un risvolto di “politica alta”. In un
dibattito tra il Card. Martini e Massimo Cacciari sulla solidarietà
verso i diversi, in particolare verso gli stranieri, Cacciari fa un’affermazione
che dovrebbe far molto pensare noi cristiani che, a volte, rischiamo di
farci paladini della solidarietà solo a parole:
“Io non posso ignorare l’altro
perché io sono l’altro, perché io mi sono straniero. Io posso
riconoscere lo straniero in quanto tale, perché io lo conosco in me;
non potrei predicarlo fuori di me, riconoscerlo fuori di me. Questo
rapporto di alterità con un altro fuori di me è possibile
trascendentalmente, perché l’altro è il mio socio essenziale, colui
dal quale non posso distaccarmi - me stesso”.6
La donna consacrata è chiamata alla
profezia della “persona in koinônía” nella Chiesa e nel mondo di
oggi. Quanto più essa, come del resto ogni cristiano, si esperimenta
come un co-essere a immagine della Trinità, tanto più si esprime in
koinônía: “piccola sorella universale”; testimone di bontà verso
l’altro, in particolare verso i piccoli, i poveri, gli stranieri;
membra vive della sua piccola comunità. Tutto questo è possibile
perché uomo e donna sono “insieme” immagine e somiglianza del Dio
tre volte santo.
La contemplazione del Dio Trinità è
espressione concreta di comunione in se stessi, nella Chiesa e nel
mondo. Questo significa passare da un assenso nozionale al dogma della
Trinità, a un assenso reale al Dio rivelato da Gesù, Dio trino e uno,
comunità di persone e unità ineffabile. Il nostro rapporto con la
Trinità Santa si fa vita e risorsa.
3.3. Dio Trinità è essenzialmente
libero, l’uomo è creatura libera
Il Dio, che Gesù ci rivela, possiede un’altra
caratteristica fondamentale, a cui noi cristiani poniamo poca
attenzione. Se il Dio Trinità è comunione e Amore, egli è
essenzialmente libero. Non si dà, infatti, amore senza libertà. Un
amore costretto non è più amore. Il Dio Trinità è libero in sommo
grado, perché è niente altro che Amore e comunione. L’uomo, in
quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, partecipa della stessa
libertà del Dio Trinità. L’uomo, afferma Ireneo di Lione, è
costituito “libero e signore della propria vita”.7
Certamente, la libertà, che ciascuno di noi esprime, è una libertà
offuscata e contrastata da molti limiti, in particolare dall’egoismo
del nostro peccato. Eppure, la libertà radicata nell’immagine di Dio,
anche se si oscura, non può essere mai soppressa.
Secondo i Padri della Chiesa, interpreti
profondi della Bibbia, con il peccato Adamo ha perduto la somiglianza,
ma non l’immagine. Il Cristo con la sua incarnazione, morte e
risurrezione è venuto a ridonarci la somiglianza perduta. Questa,
allora, diviene per noi come una possibilità, un’energia da mettere
in opera, per ritrovare la via verso l’autentica libertà che, nel
più profondo di noi, attende di manifestarsi.
Nell’uso corretto della nostra libertà
Dio Padre non ci lascia soli, ma ci offre le sue due mani, ossia il
Figlio e lo Spirito. Se ci aggrappiamo a queste due mani e cooperiamo
con esse, ciascuno assumerà, gradualmente, quella forma che Dio stesso
ha pensato da sempre per la nostra perfetta beatitudine. Afferma
stupendamente Ireneo di Lione:
“Non sei tu che fai Dio, ma Dio che fa
te. Se dunque tu sei l’opera di Dio, attendi la mano dell’Artista,
che fa ogni cosa al momento opportuno nei confronti tuoi, che sei l’oggetto
modellato. Presentagli un cuore flessibile e adattabile e conserva la
forma che l’Artista ti ha dato. Nel mantenere questa conformità,
salirai fino alla perfezione, perfezione perché l’arte di Dio
nasconderà l’argilla in te. La sua Mano, che ha creato la tua
sostanza ti rivestirà d’oro puro e d’argento di dentro e di fuori e
ti adornerà così bene che il Re stesso si lascerà prendere dalla tua
bellezza”.8
L’uomo è l’opera perfetta e luminosa
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Egli, tuttavia, è chiamato
a rendere questa immagine perfettamente rassomigliante inventando, per
il soffio e il fuoco dello Spirito, un modo incomparabilmente personale
di essere in Cristo. Tale “invenzione” l’uomo l’attualizza nella
libertà, affidando alle mani di Dio tutto ciò che è suo. È,
soprattutto, nei momenti difficili, nelle svolte fondamentali della
vita, che siamo chiamati a inventare il cammino di libertà, cooperando
con le “due mani” che Dio Padre ci offre.
Un fatto biblico può aiutarci a
comprendere.
Il profeta Daniele racconta di tre
giovani che furono gettati nel fuoco ardente perché si erano rifiutati
di rinnegare il Dio di Israele per aderire agli dei del re di Babilonia.
I tre giovani, tuttavia, come nota la Bibbia, “passeggiavano in mezzo
alle fiamme, lodavano Dio e benedicevano il Signore” (cf Dn 3,24). Un
angelo del Signore, che era sceso con loro nella fornace, “allontanò
da loro la fiamma del fuoco e rese l’interno della fornace come un
luogo dove soffiava un vento pieno di rugiada. Così il fuoco non li
toccò, non fece loro alcun male, non diede loro alcuna molestia” (cf
Dn 3,49s). E i tre intonarono l’inno che ancora oggi si canta nelle
lodi mattutine della Domenica. Ciò che contraddistingue questi tre
giovani è la loro libera e fiduciosa adesione a Dio. Decidendo di
rimanere saldi in Dio, riescono a non farsi arrecare danno dalla
situazione decisamente sfavorevole. Anziché darsi al lamento, la loro
fede in Dio li apre ad un giusto atteggiamento nei confronti della
patria, del denaro offerto dal re, della loro libertà interiore.
La loro è una lezione anche per noi. Se
io getto liberamente la mia áncora in Dio, nemmeno il fuoco può farmi
del male. Stando con Dio, posso guardare ogni evento con più
profondità, con più pace, con più forza. Aggrappandomi a Dio, posso
accogliere l’attrattiva della mia sensibilità, l’energia della mia
passione, la seduzione del mio intelletto, l’abisso del mio cuore e
ancorarle nella profondità del mio spirito, là dove posso viverle in
amichevole dialogo con il Cristo e con lo Spirito.
Questo cammino è “via” verso la
libertà radicata nell’immagine. Quanto più sono ancorato a Cristo,
tanto più sono libero dal principe di questo mondo, dal potere dei re
della terra, dal potere di tante persone, di tanti “grandi vecchi”
che pensano di poter decidere della mia vita e poter determinare il mio
futuro. La mia piccola, ma libera adesione a Cristo, si muove verso
quella libertà che i tre giovani hanno dimostrato di possedere dinanzi
al re e alle sue lusinghe.
La donna consacrata è chiamata alla
profezia della libertà in un quotidiano sempre più standardizzato e
limitante.
3.4. Il Dio Trinità ama “follemente”
l’uomo
Ponendoci dalla parte di Dio, nella
considerazione dell’uomo possiamo scoprire una terza fondamentale
caratura della vita cristiana: l’uomo è una persona amata da Dio: dal
Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. È certamente vero che, sulla
scia di Adamo, anche noi viviamo con difficoltà l’amore e la
libertà. Ma un tale processo di degrado non è definitivo. Il Verbo di
Dio, immagine del Padre, con la sua Incarnazione, morte, risurrezione e
glorificazione, ri-crea nell’uomo, per l’energia dello Spirito, la
veste luminosa dell’immagine somigliante e gli ridona la pienezza
della libertà agapica, quella libertà che scaturisce dalla carità.
Così, nel dono di Cristo, nel suo amore
per noi infinito e sacrificale “fino alla morte di croce” (cf Fil
2,8), l’uomo è liberato dalla schiavitù di Satana e può tornare,
per lo Spirito e nella libertà, a partecipare alla vita divina, alla
quale Dio Padre da sempre l’aveva destinato. Nell’opera del Cristo,
infatti, l’uomo può vedere “la rivelazione della grande carità di
Dio”.9
La misericordia e la compassione del
Padre superano infinitamente la cattiveria dell’uomo. Per quanto l’uomo
possa essere ingrato, la sua azione avrà sempre una portata limitata;
invece, la misericordia del Padre rimarrà infinitamente superiore e
capace, nella sua onnipotenza, di superare il negativo che esiste nell’uomo.
La tradizione dell’Oriente e dell’Occidente
cristiano ha molto insistito sull’amore “folle” di Dio verso l’uomo.
Ascoltiamo in proposito le parole di Nicola Cabasilas, teologo laico del
sec. XIV:
“Dio, per darci l’esperienza del suo
grande amore e mostrare che ci ama di un amore senza limiti, inventa il
suo annientamento, lo realizza e fa in modo di divenire capace di
soffrire e di patire cose terribili. Così, con tutto quello che
sopporta, Dio convince gli uomini del suo straordinario amore per loro e
li attira nuovamente a sé, essi che fuggivano il Signore buono credendo
di essere odiati. La cosa più straordinaria è tuttavia che non solo
tollerò di patire le cose più terribili e di morire coperto di piaghe,
ma che, anche risorto, dopo aver risollevato il corpo dalla corruzione,
si cinge ancora di queste ferite, ne porta sul corpo le cicatrici e
così appare agli occhi degli angeli, le considera un ornamento e si
compiace di mostrare che ha sofferto orribilmente. Egli ha ora un corpo
spirituale e perciò si è spogliato di tutte quante le altre qualità
del corpo: non gli è rimasta gravità, né spessore, né alcun’altra
passione del corpo: ma non si è privato delle piaghe, non ha eliminato
le cicatrici, al contrario, per amore degli uomini, ha voluto amarle
perché per mezzo loro ha ritrovato colui che si era smarrito, con
quelle piaghe ha conquistato l’oggetto del suo amore”.10
Il Dio Trinità ama l’uomo, ama
ciascuno di noi di un amore folle, che ci svela nella croce del Figlio,
il quale, anche da risorto, si compiace di portare come “ornamento”
le ferite della sua passione d’amore, la sua passio charitatis.
Avvolti da un tale amore, anche le
esperienze più difficili della nostra vita e della vita della Chiesa e
dell’umanità possono diventare occasioni di rinascita. Guardando il
risorto ornato di ferite, anche noi possiamo considerare le nostre
ferite come delle feritoie. Le ferite, accolte come feritoie, lungi dall’essere
una condanna, possono diventare fonte di guarigione, opportunità per un
cambiamento radicale dell’esistenza. Accogliere la ferita come una
feritoia è un po’ come dire che le nostre potenzialità e le nostre
forze si strutturano a protezione di quel nucleo fragile che costituisce
la particolarità di ognuno, ciò che ci rende decisamente unici.
Un giorno Silvano del monte Athos (monaco
russo vissuto tra il 1866-1938) chiese a Gesù: “Signore dimmi che
cosa devo fare, perché i demoni se ne vadano lontano da me”. La
risposta che ricevette fu questa: “Tieni il tuo spirito agli inferi e
non disperare”. E constata Silvano: “Da allora cominciai a fare
così e l’anima mia ha trovato pace in Dio. L’anima mia impara l’umiltà
dal Signore. Cosa incomprensibile: il Signore si è manifestato a me e
mi ha ferito il cuore con il suo amore, ma poi si è nascosto, ed ora l’anima
mia sospira per lui giorno e notte. Egli, pastore buono e
misericordioso, è venuto a cercare me, la sua pecora ferita dai lupi, e
mi ha guarito”.11
Se portiamo, nello Spirito Santo, le
nostre ferite come “ornamento”, diventeremo anche noi medici e
curatori delle nostre anime ferite e di molte persone, anch’esse
avvolte e segnate dalle ferite. Smetteremo di farci del male e troveremo
nella nostra fede, una strada per rendere feconde le nostre stesse
sofferenze. Continueremo a portarle in noi, non come “scarogne”, ma
come un tesoro prezioso che ci pone in contatto con il nostro vero
essere, con la nostra autentica natura divina. Afferma, in maniera
stupefacente, Isacco il Siro, un monaco del sec. VII:
“Beato l’uomo che conosce la propria
debolezza (e la propria ferita), poiché questa conoscenza diviene per
lui fondamento, radice e principio di ogni bontà. Quando infatti uno
impara a conoscere la propria debolezza e la percepisce in verità,
allora concentra la propria anima lontano dalla vanità che oscura la
conoscenza e tiene in se stesso, come un tesoro, la vigilanza... L’uomo
che è giunto a conoscere la misura della propria debolezza, è giunto
alla perfezione dell’umiltà”.12
La donna consacrata è chiamata a
testimoniare l’amore folle del Crocifisso, nelle sue ferite personali
e nelle ferite dell’umanità. Le sue personali ferite, difatti, sono
una risorsa nella testimonianza radicale del vangelo.
3.5. Dio Trinità si rivela all’uomo
come luminosa bellezza
La profondità della vita del Dio
Trinità trattiene un’ultima realtà: la bellezza. Bellezza che è
tratto specifico della donna, in particolare della donna consacrata.
Nel Cristo, Verbo eterno ed incarnato,
rifulge la luminosità abissale del Dio tre volte santo. La sua stessa
vita terrena è manifestazione della bellezza divina, che ha
profondamente attratto e sedotto i discepoli, come direbbe il profeta
Geremia (cf 20,7ss). Ripercorriamo brevemente la “via pulchritudinis”
del Cristo, Verbo incarnato:
• la bellezza di una stella rivela ai
Magi il luogo della sua nascita. Il Cristo è “Stella luminosa del
mattino”, come lo chiama l’Apocalisse (22,16);
• la bellezza e l’autorevolezza delle
sue parole attirano le folle, a differenza degli insegnamenti monotoni e
ripetitivi degli scribi e dei farisei;
• la bellezza del suo volto, nell’evento
della trasfigurazione, quasi tramortisce i tre discepoli, non abituati a
contemplare una così stupefacente luminosità;
• la sua bellezza di pastore buono, o
meglio di pastore “bello”, che attrae per il suo amore verso il
Padre e per la sua compassione verso i poveri e di piccoli;
• la sua esaltazione sulla croce, che
ha il potere di attirare tutti e tutto a sé. Quella sua “bellezza
crocifissa” che si dà a vedere, come uno spettacolo, allo sguardo
trafitto delle donne che lo avevano seguito da lontano (cf Lc 23,49). La
bellezza travolgente della trasfigurazione, quando diventa, sul
Calvario, “bellezza crocifissa” può essere paradossalmente
avvicinata dallo sguardo umano delle folle e delle donne;13
• infine, la sua paradossale bellezza
di risorto, che, con la sua presenza/assenza, fa percepire la bellezza
del Dio tre volte santo: il Padre, il Figlio e lo Spirito.
La bellezza del Cristo, pastore “buono”
e “bello”, è una forza potente che attrae e atterra; è un evento
carico di silenzio che nasconde, nelle sue pieghe fragili e luminose, lo
stesso evento salvifico: la bellezza del Dio Trinità all’opera nella
opacità e spesso nella bruttezza della vita degli uomini e nella forza,
anche distruttiva, del cosmo intero.
Il mistero salvifico, trattenuto nella
bellezza della vita e dell’opera di Cristo Signore, ci permette di
sondare l’esperienza che ciascuno fa di fronte alla bellezza. Quando
la realtà si manifesta avvolta di bellezza, sembra che svaniscano tutte
le mediazioni: ciascuno è semplicemente e irresistibilmente attratto
dall’evento luminoso. La nostra sensibilità, la nostra vista, il
nostro udito, il nostro odorato, il nostro gusto, il nostro tatto, quasi
si perdono nella bellezza. E così accade della nostra capacità
razionale, della nostra volontà, delle nostre emozioni superficiali o
profonde.
Il quel “frangente”, la realtà e gli
eventi quotidiani sono percepiti quasi come “divini”. La bellezza
delle “cose” e delle “persone” ci fa esclamare: “meraviglioso,
splendido, celestiale, forte, bellissimo”. Parole tutte che attestano
lo splendore di una cosa ordinaria, sia questa la soavità o la forza di
un canto, i lineamenti di un corpo, l’armonia di un ambiente, il gusto
di un vino d’annata, la bontà di un sigaro toscano o di una bistecca
alla fiorentina.
Può apparire strano questo discorso. Ma
proviamo a riflettere, nel silenzio del cuore, sull’esperienza che
provoca la bellezza. Di fronte a un uomo o a una donna
"bella", di fronte a un paesaggio splendido e incontaminato,
ciascuno, per un attimo, è immediatamente come traslocato nell'altro
(uomo, donna, paesaggio). Quell'istante è un istante di profonda
comunione; un istante che soprattutto oggi, per la nostra volontà di
possesso, dura solo un momento. E' sempre più frequente, sopraffatti
dal desiderio di possesso dell'altro, non riuscire più a cogliere,
nell'evento, la bellezza.
La sequela di Gesù, pastore
"bello", ci permette di dilatare questo attimo di comunione.
Di fatti, se la bellezza dell'altro ci avvolge e la bellezza del mondo
ci seduce, la bellezza di Dio ci trasfigura. La bellezza dell'immagine
di Cristo, che tocca la persona in Koinônia, ossia ciascuno di noi, ci
sospinge nell'esperienza sensibile, psichica e spirituale, avvertita
come dono e non come possesso; ci apre alla solidarietà con l'altro,
che nella sua bellezza ci avvolge; ci fa sporgere sul mondo e sul cosmo
per cogliere in esso la presenza di Cristo, Verbo del Padre; ci
dischiude alla vita luminosa e trasfigurante del Padre, del Figlio e
dello Spirito.
La bellezza, in particolare la bellezza
che il Cristo ci dona, racchiude davvero un mistero salvifico. Ci offre
di passare dal possesso al dono, dalla chiusura alla comunione, da
individuo a persona in Koinônia. La donna consacrata è chiamata a
trattenere e annunciare con forza quanto diceva, con stupefacente
verità, un personaggio di Dostoevsky: "il mondo darà salvato
dalla bellezza"14.
5. Conclusione
La bellezza di Dio Trinità, che
risplende in Cristo, ci rende sui amanti e ci getta nel quotidiano con
occhi e mani nuove, con mente e cuore puri, con anima e spirito
rinnovati, per portare a tutti l'invito e l'esperienza del salmista:
"Gustate e vedete come è bello il Signore" (cf. Sal 34,9).
L'unica e autentica risorsa della donna
consacrata è il Dio tre volte santo; quel Dio che, nella bellezza
crocifissa del Verbo eterno e incarnato e nel fuoco bruciante dello
Spirito Santo, si dona agli uomini come Padre. In questo orizzonte
possiamo allora davvero concludere con una piccola storia, avvenuta nel
deserto una quindicina di secoli fà, una storia che ha er protagonisti
due monaci, uno anziano e l'altro giovane: "il padre Lot si recò
dal padre Giuseppe a dirgli: Padre, io faccio come posso la mia piccola
liturgia, il mio piccolo digiuno, la preghiera, la meditazione, vivo nel
raccogliemento, cerco di essere puro nei pensieri. Che cosa devo fare
ancora? Il vecchio alzatosi aprì le braccia, e le sue dita divennero
come dieci fiaccole. Se vuoi, gli disse, diventa tutto fuoco"
(Giuseppe di Panefisi 7).15
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