Al
loro ritorno gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto.
Allora egli li prese con sé e si ritirò in una città chiamata Betsàida”.
Così, in una descrizione simpatica nella sua semplicità e sinteticità,
narra l’evangelista Luca al capitolo 9, versetto10.
Nei versetti precedenti lo stesso narratore
racconta che Gesù aveva chiamato a sé i Dodici; con loro aveva camminato per
le strade di quel piccolo Paese in cui egli batteva la grande Storia e aveva
dato loro potere e autorità di scacciare tutti i demoni e di guarire le malattie e li aveva
mandati a predicare il regno di Dio e a guarire i malati; così ripete il
vangelo. Ne aveva dettato le condizioni. Li aveva esortati a non prendere nulla
per il viaggio: né bastone né pane, né denaro e neppure due tuniche. La
grande storia della salvezza, costruita anche con il loro apporto, il loro
camminare, il loro parlare, doveva avere un inizio di libertà e di saggezza, di
speranze e di certezze diverse, quelle
speranze e quelle certezze che vanno oltre i circoscritti e limitanti orizzonti
umani: c’è un Padre che pensa agli uccelli del cielo e ai gigli dei campi.
Gli uccelli non seminano, non mietono né raccolgono in granai, eppure il Padre
li nutre. I gigli non lavorano, non tessono; eppure neanche Salomone veste come
uno di loro.
La stessa cosa faranno i settantadue discepoli,
secondo il racconto dello stesso evangelista al capitolo 10, versetto 17: “I
settantadue discepoli tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i
demoni ci obbediscono, quando invochiamo il tuo nome””. Qui c’è un
dettaglio in più. Luca afferma che i discepoli
gustavano un certo appagamento, erano giubilanti per gli esiti raggiunti, non in
nome proprio, ma di Gesù che li aveva inviati.
Gli spunti per la riflessione sarebbero tanti. La
libertà e la semplicità, la vera simplicitas, degli apostoli prima, dei
discepoli poi; la capacità d’ascolto, d’accoglienza di Gesù. Egli non li interrompe; acconsente, accondiscende. Si compiace
di quanto essi raccontano, gode con loro, e li rassicura spingendoli oltre nella
motivazione della loro gioia: questa non si radica in quanto è stato loro
concesso di fare, ma perché - dice Gesù - “i vostri nomi sono scritti in
cielo”. Gli uni e gli altri - apostoli e discepoli - erano stati inviati da
lui; avevano ricevuto un mandato-dono
specifico: il carisma dell’annuncio e della guarigione.
E qui troviamo l’esposizione familiare che dice la mutua fiducia tra chi manda
e chi è inviato prima e tra chi racconta e
chi ascolta poi.
La traiettoria, l’itinerario, l’orientamento,
la finalità ultima del loro compito erano stati tracciati da Gesù. Egli li
aveva scelti e, come fa esattamente anche oggi, li aveva inviati. Al ritorno
il loro non è il “reddere rationem” dell’amministratore infedele
o dei vignaioli perfidi, egoisti e imbroglioni. E’ la cronaca di quanto erano
riusciti a realizzare. Dell’annuncio fatto, dei miracoli
compiuti, delle guarigioni che avevano suscitato entusiasmo…
Il racconto, normalmente, non ha il carattere
della ufficialità. Ha semplicemente quello
dell’informazione. Ma è, esso pure, una categoria biblica e teologica, tanto
che gli esegeti parlano di teologia narrante:
lo si trova spesso, tanto nel Primo come nel Secondo Testamento. Quando i figli
di Giacobbe rientrano dall’Egitto con i sacchi pieni di viveri e il denaro
restituito - riferisce il libro della Genesi - relazionarono al padre “tutte
le cose che erano loro capitate”.
Dopo che Mosè ebbe ricevuto le tavole della
Legge, egli scende dal monte e racconta quanto il Signore gli ha rivelato; cosa
egli ha fatto…
Nel prologo del Siracide, il traduttore racconta
tutto quanto egli ha fatto “per coloro che
all’estero intendano istruirsi conformando i propri costumi per vivere secondo
la legge”.
Studiando a fondo il terzo vangelo e gli Atti, i
due libri scritti dal narratore Luca, gli esegeti vi trovano l’importanza
della verità di salvezza espressa nel racconto.
Paolo valorizza il racconto per difendersi di
fronte alle accuse rivoltegli dai giudei e di
fronte al re Agrippa narra la propria vicenda. Ricorda a tutti i presenti la sua
storia più lontana, fondata su una rettitudine fondamentale; narra l’avventura
occorsagli sulla strada verso Damasco. Prima aveva
raccontato il tutto di fronte a Felice.
Carico di tenerezza è stato anche il discorso
pronunciato agli anziani di Efeso: “Voi sapete come fin dal primo giorno in
cui io arrivai nella provincia di Asia mi sono sempre comportato con voi …”.
Tipico esempio oggi del racconto spontaneo e
cordiale è Giovanni Paolo II. Nelle udienze del mercoledì o nell’Angelus
della domenica, quando queste giornate sono precedute da viaggi, da incontri
particolari, egli racconta…
Al ritorno dall’Ucraina in piazza san Pietro
racconta: “Il mio pellegrinaggio ha voluto essere un omaggio alla santità in
quella terra intrisa di sangue di martiri”. Più avanti: “Ho incoraggiato
la Chiesa ucraina a crescere nella comunione e nella collaborazione”. Ancora:
“ la solenni celebrazioni eucaristiche è stato come vivere la liturgia a due
polmoni”. L’incontro con i giovani: “Ho simbolicamente affidato all’Ucraina
‘giovane’ la Legge divina del Decalogo”.
Nei giorni della morte e dei funerali di Indro
Montanelli un giornalista parlando di lui e della sua terra diceva: “ciò che
amava di più erano le colline delle Cerbaie e il Padule, che, come raccontava,
da ragazzo lo avevano nutrito e gli avevano impresso nell’anima “il
carattere agreste”. E più giù: “agli amici Indro raccontava che…”.
Dopo oltre un mese dalla sua morte, un quotidiano nelle pagine letterarie, facendo allusione a un suo
libro, titolava l’articolo su di lui: “Per
Montanelli raccontare era una festa”.
Ma per farlo una sola è la legge: l’amore.
Tutto diventa possibile quando la norma della convivenza è l’amore. Perché
esso porta a superare le barriere della sfiducia, del dubbio, dell’ipercriticismo:
“agli amici Indro raccontava…”.
E’ logico che, per un “buon” racconto,
libero, obiettivo, non falsificato né contraffatto, è necessario porne tutti i
presupposti. Tergiversare, adulterare la verità,
simulare fatti non è raccontare. E’ non ammettere l’altro come soggetto. Il
racconto libero e vero significa e comporta ammettere l’esistenza dell’altro
come altro da sé, esistente per sé; non per incettarlo
e renderlo schiavo del proprio pensiero, neppure del proprio racconto.
Interessante la specificazione. “Gli apostoli
raccontarono tutto quello che avevano fatto”. Un racconto senza maschere,
senza maggiorazioni, senza gonfiature né adulterazioni, senza sconti né tagli,
senza fini di strumentalizzazione. Cosicché chi ascolta sa di non dover
scoprire che vi sono esagerazioni esponenziali, e quindi di dover comunque fare
sconti.
Il tutto significa anche essere veri, ma la
verità prima che delle parole deve appartenere alla persona. Essa deve essere
vera: ossia possedere trasparenza, fiducia, povertà, distacco. La trasparenza
porta a rifuggire dalle strategie di quell’apparire che tende a voler
salvaguardare l’immagine errata che uno può essersi fatto.
Il racconto vero è espressione di autenticità,
ma non di ingenuità o semplicismo. E’
manifestazione dell’essere liberi dal complesso facile di non sentirsi amati.
Arturo Paoli in uno dei suoi libri sostiene che
Hegel “riscopriva il senso della vita come
partecipazione alla storia”. Ebbene il raccontare ci rende coscienti, e allo
stesso tempo dà prova a noi stessi, della
nostra partecipazione alla storia della comunità, dell’Istituto, perché
tutto, davvero tutto, ha importanza nella
vita. Tutto può contribuire a costruire la storia.
Perché la storia, quel che si è fatto, costituisce un piccolo tassello alla
propria storia.
In questa linea è il racconto-incontro degli
apostoli con Gesù. Dopo averli ascoltati Gesù li porta con sé fuori dal tumulto della gente. C’è stata comunicazione e
partecipazione. Ora il dialogo deve essere più profondo, deve acquisire una dimensione diversa, su altre coordinate.
Una domanda sorge spontanea: le nostre comunità
sono così vigili e libere per cui il racconto corre in semplicità e verità?
Al “rientro” o al ritorno come quello degli apostoli e dei discepoli è
facile, è possibile un “racconto” libero e vivace, spontaneo e
oggettivamente vero? Oppure...
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