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Anfora, brocca,
calice, coppa, sono assimilabili all’accezione comune di vaso, applicata
a una serie di utensili di varia fattura, accomunati dall’identica
funzione di contenere qualcosa. Ne esistono di argilla, di legno, di
vetro, di metallo, di pietra, oggi anche di materiale sintetico. I vasi
di creta sono i primi e più diffusi testimoni dell’industriosità e della
creatività umana: la loro produzione non è ordinata semplicemente a fini
pratici e alimentari, ma occasione e mezzo per esprimere il genio
artistico dell’uomo attraverso forme diverse e decorazioni originali.
Il vaso è un oggetto che rimanda ad altro da sé:
innanzitutto all’artigiano che lo ha pensato, plasmato, decorato; e poi
allo scopo per cui è stato fatto, giacché anche i vasi pregiati, in cui
predomina l’aspetto estetico, evocano nella forma una precisa
destinazione. Materiale, modellatura, scopo, provenienza, epoca,
preziosità, contenuto… sono tutti aspetti che in qualche modo non
parlano solo del vaso in sé, ma portano a coglierne la valenza
simbolica. Circoscrivendo lo spazio, in cui viene delimitato il dentro e
il fuori, il vaso nasconde e offre ciò che contiene. E’ il contenuto,
infatti, a realizzare il significato del recipiente. Un vaso chiuso può
celare un mistero. Un vaso vuoto è segno di capacità recettiva o di
totale oblazione; ma anche… di inservibilità.
La sua forma dice malleabilità verso chi l’ha
plasmato. La sua apertura verso l’alto invoca l’effusione di una
presenza che riempia. Il suo ritaglio di forme nello spazio implica
solidità. La sua integrità impedisce la dispersione di quanto contiene.
La sua fragilità è proverbiale: basta poco per ridurlo in cocci. Tutti
questi significati contribuiscono a qualificare il vaso come simbolo di
recettività, interiorità e oblatività. Esso allude al mistero
dell’esistere in un corpo, luogo in cui è racchiusa e circola la vita
ricevuta affinché, a sua volta, venga donata.
Un opera che ispira
Nessun vaso si fabbrica da sé. La sua esistenza
suppone un vasaio che lo ha ideato e, in una parola, dato alla luce. Il
passaggio dall’informe argilla alla forma scolpita del vaso richiede una
mente ispiratrice, delle mani esperte, l’azione di elementi come l’acqua
e il calore del sole o del fuoco: il vaso racconta pertanto un gesto
creativo, offrendo uno spiraglio interpretativo sull’origine dell’uomo.
Chi è il “fattore” della natura umana? E’ rintracciabile in essa la
firma di Colui che l’ha posta in essere? Non è facile rispondere a tali
domande, perché la firma non si trova per esteso, ma è riconoscibile
tramite indizi da decifrare.
Ecco perché gli antichi Egizi veneravano nel dio
Khnum colui che, su una ruota di vasaio, modellava il germe della vita
umana prima di affidarlo alla normale generazione nel grembo materno.
Secondo una tradizione mesopotamica, i primi uomini furono plasmati col
fango mescolato al sangue del sacrificio di un dio. La mitologia greca
faceva risalire l’origine del genere umano all’impasto di terra e acqua
modellato da Prometeo. Mitico è il vaso di Pandora.
Il vaso ha un suo posto di rilievo in ambito
cultuale, specie nei sacrifici e nell’offerta di doni alla divinità. In
Mesopotamia, era attribuita funzione di altare a supporti a forma di
vaso in cui erano posti dei rami di palma, innaffiati da sacerdoti.
Similmente, i rilievi sulle pareti dei templi egizi mostrano il re
nell’atto di offrire agli dei coppe colme di latte e vino. In ogni
espressione religiosa il rapporto con Dio trova visibilità simbolica nel
presentare alla divinità bevande e cibi, ovviamente in vasi. Sono
soprattutto i liquidi (acqua, olio, vino, profumo, latte, sangue) ad
aver bisogno di recipienti adatti, sia per attingerli che per
conservarli e farne dono.
Anche i pasti rituali, in cui si stringono patti
di comunione con la divinità o vincoli di amicizia tra popoli e persone,
prevedono l’uso di vasi “sacri”, distinti da quelli di uso comune, ossia
“profani”. La stessa descrizione del culto dell’Antico Testamento
menziona espressamente recipienti di vario tipo, usati per riti
sacrificali e di espiazione (cf 2Cr 24,14). In un vaso di terracotta
viene immolato un uccello con acqua viva per la purificazione del
lebbroso (cf Lv 14, 5). Nella dedicazione dell’altare, già al tempo
dell’Esodo, sono impiegati per l’oblazione piatti e vassoi d’argento
contenenti farina impastata con olio e coppe d’oro colme di profumi (cf
Nm 7). Né c’è da dimenticare la conca di rame contenente l’acqua per le
abluzioni dei sacerdoti (cf Es 30,17). Il bacino di metallo con
abbondante acqua lustrale, che troneggiava nel tempio di Salomone, ha il
significato del bacino cosmico, luogo originario di vitalità (cf 1Re
7,23-26).
Nelle mani del vasaio
In tali coordinate culturali e religiose si muove
anche la tradizione biblica delle Scritture, innervata dalla “novità”
dell’amore di Dio creatore e redentore. Così scrive l’autore delle
origini: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò
nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen
2,7). In Adamo (tratto dalla ’adamah = terra) è rinvenibile
l’immagine e la somiglianza del vasaio che lo ha dato alla luce, con
supremo e libero volere: «Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio,
così voi siete nelle mie mani» dice il Signore (Ger 18,6). A tale
affermazione di Dio, corrisponde la professione di dipendenza dell’uomo
dal suo Creatore: «Noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti
noi siamo opera delle tue mani» (Is 64,7).
Non è nella logica delle cose, dunque, che la
creatura si stimi uguale al suo Creatore: «Forse che il vasaio è stimato
pari alla creta? Un oggetto può dire del suo autore: “Non mi ha fatto
lui”? E un vaso può dire del vasaio: “Non capisce”?» (Is 29,16). Dio è
il “signore” dei vasi siglati con la sua impronta. Come il vaso dipende
dalle mani del vasaio che lo plasma secondo un intento preciso, così
anche l’uomo, ugualmente tratto dalla polvere del suolo: «Come l’argilla
nelle mani del vasaio che la forma a suo piacimento, così gli uomini
nelle mani di colui che li ha creati, per retribuirli secondo la sua
giustizia» (Sir 33,13).
Se l’opera non sortisce secondo le attese, chi la
modella è pronto a rimaneggiane l’argilla in vista di una nuova
creazione. Lo rileva Geremia, osservando il vasaio al lavoro: «Se si
guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in
mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi
pareva giusto» (Ger 18, 4). Certo, un vaso che non si presta al servizio
per cui è stato voluto non ha motivo di esistere e perciò viene
frantumato.
Come il vasaio può spezzare i propri vasi, così il
Creatore ridurrà in cocci la superbia dell’opera delle sue mani. Il re
Ioiakim, infatti, per l’infedeltà di cui si è macchiato viene paragonato
a un vaso spregevole e rotto, che non piace più a nessuno (cf Ger
22,28). Guai all’uomo che si ribella contro Dio, discutendo in modo
arrogante «con chi lo ha plasmato»; egli è semplicemente «un vaso tra
altri vasi di argilla. Dirà forse la creta al vasaio: “Che fai”? oppure:
“La tua opera non ha manichi”?» (Is 45,9). Al Messia, inviato per
ristabilire il dominio fino ai confini della terra, sarà dato il potere
di frantumare interi popoli «come vasi di argilla» (Sal 2,9).
Sarà rimasta impressa nelle menti degli anziani e
dei sacerdoti di Gerusalemme, la lezione impartita ad essi da Geremia,
il quale, comprata una brocca di terracotta, presso la Porta dei cocci
la spezzò sotto i loro occhi, accompagnando il gesto con queste parole:
«Così dice il Signore degli eserciti: Spezzerò questo popolo e questa
città, così come si spezza un vaso di terracotta, che non si può più
accomodare» (Ger 19,1-11).
La fragilità del vaso illustra bene la fragilità
dell’uomo, sia fisica che spirituale: entrambi sono fatti di terra. Sono
consistenti eppure precari. Il loro valore sta soprattutto in quanto
contengono: alla grazia di Dio deve corrispondere la vigilanza umana,
che implica sapienza e prudenza affinché il vaso non si crepi,
compromettendone la capacità di custodire il dono ricevuto.
L’insipienza, infatti, manda in rovina, giacché «l’interno dello stolto
è come un vaso rotto, non potrà contenere alcuna scienza» (Sir 21,14).
Perdere il favore di Dio è sentirsi ridurre a un vaso vuoto (cf Ger
51,34).
Vaso di elezione
Un vaso è fatto anzitutto per contenere…
Similmente, l’uomo per essere ricettivo del progetto di Dio. Per questo
la Scrittura ricorre volentieri all’immagine del vaso per esortare il
credente a valutare e riscoprire la sua vocazione di custode dei doni
del Signore, divenendo luogo di accoglienza e di oblazione del mistero
della grazia divina riversata nei cuori dallo Spirito.
Saulo è indicato dal Signore stesso ad Anania come
“un vaso di elezione”, ossia colui nel quale egli intende depositare la
missione di annunciare il suo nome davanti ai popoli, ai re, ai figli di
Israele (cf At 9,15). San Paolo non dimenticherà mai di essere al
servizio di Colui che lo ha “invasato” della sua santa unzione, per
renderlo docile portatore della sapienza del Vangelo. Mai lo abbandonerà
la coscienza della propria fragilità: anzi, la sua debolezza rende più
chiara la straordinaria potenza effusa in lui per grazia del cielo. La
chiamata a far conoscere la gloria divina che risplende sul volto di
Cristo è affidata, in effetti, a vasi di “coccio”: «noi abbiamo questo
tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria
viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7).
Il simbolismo del vaso è caro a san Paolo per
illustrare il mistero del vivere in Cristo. Se ne serve, sull’esempio
dei profeti d’Israele, per mostrare la sovranità del volere divino che
guida le sorti degli umani, con paziente misericordia: «O uomo, tu chi
sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che
lo plasmò: “Perché mi hai fatto così”? Forse il vasaio non è padrone
dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e
uno per uso volgare? Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e
far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di
collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la
ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui
predisposti alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamati non
solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?» (Rm
9,20-24).
Dipende da Dio la nostra santificazione, ma a noi
tocca rispondere al disegno per cui ci ha creati e chiamati alla
santità: «In una casa grande non vi sono soltanto vasi d’oro e
d’argento, ma anche vasi di legno e di coccio; alcuni sono destinati ad
usi nobili, altri per usi più spregevoli. Chi si manterrà puro
astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al
padrone, pronto per ogni opera buona» (2Tm 2,20-21). Ed è ancora facendo
leva sull’allusione tra vaso e corpo, che l’Apostolo ammonisce ad
evitare la dissolutezza della vita sessuale: «Perché questa è la volontà
di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impudicizia, che
ciascuno sappia mantenere il proprio corpo (in greco vaso) con santità e
rispetto, non come oggetto di passioni e libidine» (1Ts 4,4-5).
Un ammirabile “vaso”
L’antico uso di raffigurare un’anfora sulle lapidi
catacombali è da ricondurre alla simbologia che vede nel cristiano il
vas Christi. Prendendo dimora nel battezzato, Cristo abita nel
nostro corpo, trasformandolo in sacrificio spirituale, vivente e gradito
a Dio (cf Rm 12,1). Non sono più i vassoi d’argento pieni di fior di
farina né le coppe d’oro colme di profumo che Dio desidera ricevere nel
culto inaugurato dalla nuova alleanza sigillata nel sangue del suo
Figlio, ma quel culto spirituale che sale a lui da un’esistenza
conformata a quel sacrificio. Siamo noi i vasi colmi di preghiera che
Dio gradisce, ossia la nostra vita obbediente a ciò che esce dalla sua
bocca. Non a caso, infatti, davanti all’Agnello celeste san Giovanni
descrive l’offertorio «di coppe piene di profumi, che sono le preghiere
dei santi» (Ap 5,8).
Non è sfuggita alla pietà medievale l’applicazione
del simbolo del vaso alla Vergine Maria: docile alla mano dell’Eterno,
lo Spirito ha ri-plasmato in lei l’originale natura umana compromessa
dal peccato; nella sua integrità è maturato il frutto della vita; dalla
sua oblatività sono offerti il pane e il vino che nutre le nostre anime.
I titoli con cui è onorata nelle litanie lauretane:
vas spirituale, vas honorabile, vas insignae devotionis
(tempio dello Spirito Santo, tabernacolo dell’eterna gloria, dimora
consacrata di Dio), trovano la loro migliore spiegazione nei testi dei
Padri antichi e medioevali, d’Oriente e d’Occidente. Così sant’Efrem
acclama Maria: «Vaso di tutta la grazia dello Spirito Santo». L’inno
Akathistos: «Esulta, o vaso che hai ricevuto l’inesauribile balsamo,
in te versato perché non manchi mai». San Germano di Costantinopoli:
«Sacrosanto vaso d’oro purissimo, che contiene la vera Manna del cielo,
che è Gesù Cristo, dolcezza delle anime nostre». Adamo di S. Vittore:
«Salve, o Madre del Salvatore, vaso scelto, vaso onorabile, vaso della
grazia celeste, vaso da sempre eletto, vaso fuori del comune, vaso
plasmato dalle mani della Sapienza». E sant’Anselmo: «La carne della
Vergine è chiamata vaso spirituale perché nella sua carne non regnò il
peccato, né la carne si ribellò allo Spirito, né la carne ritardò lo
Spirito, perciò non fu solo pura, ma purissima». Per questo, il vaso del
suo corpo non è stato frantumato dalla corruzione del sepolcro!
L’umiltà di servire con sapienza
La diversità non deve far scordare la
“originalità” di ciascun vaso, superando inutili confronti sulla
maggiore capienza: a che serve l’ampiezza se poi resta soltanto un vuoto
immenso, incapace di adempiere al disegno che ha ispirato il vaso? Non
conta “quanto” un vaso può contenere: è decisivo che svolga al massimo
la propria capacità di servizio.
Vale anche per la vita religiosa! La coscienza
della propria “originalità” e la certezza che nessuno potrà colmare il
vuoto del proprio dono incompleto a Dio e ai fratelli, deve portare la
persona consacrata a corrispondere docilmente alla vocazione ricevuta.
Ecco l’augurio a chi si dispone a consacrarsi al servizio del regno dei
cieli con la professione perpetua: «Dio che ha iniziato in voi quest’opera
buona, la porti a compimento» (Rituale, p. 47).
Non c’è da illudersi, poiché siamo fatti di
“coccio”: la superba confidenza nella propria forza anziché in quella
del Vangelo è causa di incrinature nel nostro vaso, non facilmente
riparabili se non dalla misericordia divina e dalla comprensione del
prossimo. La virtù dell’umiltà e della prudenza (talvolta scaltrezza)
deve far parte del bagaglio con cui i religiosi sono chiamati ad
affrontare il cammino della vita con altri vasi, di argilla e di ferro…
Così si prega per i neo-professi: «Ti piacciano per l’umiltà, o Padre,
ti servano docilmente» (Preghiera di benedizione I);
Per tutelare l’integrità del proprio vaso,
affinché non si disperda la santa unzione riversata in esso dallo
Spirito di Dio, è necessario conoscere i propri punti di fragilità e di
forza, valorizzando le potenzialità impresse in noi da Colui che ci ha
plasmati così. Nell’accogliere il proposito delle neo-professe, così la
Chiesa prega: «Manda, o Signore, il dono dello Spirito su queste tue
figlie… Negli eventi umani sappiano vedere la divina provvidenza che li
guida» (Preghiera di benedizione II).
Dal simbolismo del vaso ai tre voti: la castità
come trasparente circolazione di quell’Amore che basta a colmare di
gioia il nostro cuore; la povertà come scelta di acquisire ricchezze che
non sono di questo mondo; l’obbedienza come tensione continua di
conformarci alle attese del Vasaio che ci ha creato.
Si può finire frantumati dall’egoismo, ma anche
dall’amore. Quando sorella morte ridurrà in cocci il nostro vaso di
argilla, sia il tesoro in esso contenuto a riversarsi nelle coppe d’oro
presso il trono dell’Agnello. Avvenga di noi come del vasetto di olio
assai prezioso che Maria di Betania spezzò per onorare il Signore e
riempire di profumo tutta la casa (cf Gv 12,3).
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