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Braccia di bimbi che si stringono al tuo collo
e ti sussurrano nella loro lingua, a volte appena balbettata,
parole di amore e di richiesta di amore. Bimbi di casa nostra, non
mai abbastanza amati, come essi ci chiedono di essere amati, e non
come noi pensiamo di doverli amare. Bimbi del mondo, di quello
dove la fame, la violenza, l'abbandono, compiono ogni ora del
giorno e della notte una sempre rinnovata strage degli innocenti.
Sono gli abbracci più struggenti che abbiamo ricevuto in certi
momenti di grazia che forse non siamo stati in grado di cogliere
in tutta la loro intensa, infinita bellezza di gesto spontaneo e
gratuito, di comunicazione da cuore a cuore, in quell'unione
fisica che permette alle anime di compenetrarsi e alle emozioni di
trasformarsi in pulsazioni che hanno rintocchi d'infinito.
Braccia di donne e di uomini, di parenti,
amici e conoscenti, che nella maturità di uno slancio che copre le
parole e crea un'intimità fra i corpi più eloquente di ogni
discorso o dichiarazione, attirano nel cerchio della loro fisicità
calda, profondamente umana. Trasmettono nel vigore di una
sensualità, non necessariamente genitale, una percezione di
reciproca appartenenza al comune destino terreno, di donazione e
di comunione che spezza le solitudini individuali, permette di
uscire dai limiti spesso pesanti del proprio corpo e delle sue
fatiche per fondersi nel corpo dell'altro fino ad altezze
misteriose in cui risuona l'atto supremo della donazione divina:
«Prendete e mangiate: questo è il mio corpo». Braccia di chi si
spende ogni giorno sulle frontiere del mondo dove l'eucarestia
inizia la mattina nelle strade delle periferie annegate nei mali
dei nostri tempi, nei miasmi delle bidonvilles e degli slum, fogne
a cielo aperto dove aspettano di morire senza speranza milioni di
persone schiacciate dalle ingiustizie planetarie di un mondo di
poveri sempre più poveri e di ricchi, pochi, sempre più ricchi.
Donne e uomini, consacrati e laici, che nell'abbraccio stretto e
vigoroso, ossa contro ossa, pulsazioni contro pulsazioni, ti fanno
sentire la presenza fisica del Cristo vivente nell'ultimo fra gli
ultimi.
Braccia di coniugi che nell'unione, resa
incandescente dall'amore di una donazione reciproca, fanno
esplodere il miracolo della creazione, portano nel territorio
misterioso della vita che nasce da un atto di bellezza, di
armonia, di accoglienza, da una compenetrazione dei corpi che
diventano una carne sola e un'anima sola per dilatare le
potenzialità individuali, per sommare e completare le infinite
possibiltà di esistere e di conoscere.
Sono «il tempo per abbracciare», per
realizzare, attraverso l'unione fisica quella comunicazione che
passa attraverso i sensi per accedere ai territori del cuore e
dell'anima, della mente, a conferma di quell'unione fra spirito e
corpo che è stata drammaticamente spezzata da una separazione che,
idolatrando l'immagine e dimenticandone il significato divino, ne
ha svuotato l'intimità e gli spessori umani ed eterni. Ma che ha
anche svuotato lo spirito di quel sangue che permette
l'incarnazione nell'altro, diventando filosofia e teologia
astratta, memoriale e non vita vissuta attraverso i fratelli e con
i fratelli, nelle pieghe oscure delle loro emozioni, passioni,
ansie, gioie e stupori.
Abbiamo bisogno oggi di moltiplicare «il tempo
per abbracciare», di estenderlo a tutto il mondo che ci circonda
da vicino e da lontano in un immenso, infinito gesto di unità,
quella di cui Chiara Lubich ha fatto la divisa del suo movimento,
quella che ognuno di noi può ogni mattina, all'inizio del giorno
estendere a tutto il pianeta, ai suoi abitanti, alla natura così
offesa. Questo gesto, compiuto fisicamente e metaforicamente, è la
preghiera che supera le barriere geografiche, le razze, le
provenienze, le categorie sociali ed umane. Riporta a quell'infanzia
che prima di esprimersi, abbraccia in un'attesa che troppo spesso
viene tradita. Se Dio è soprattutto Amore, se Dio ci ha amati e ci
ama fino al sacrificio di suo Figlio, l'incontro con Lui non può
non essere quello di un abbraccio che contiene il mondo e le
nostre piccole esistenze. E' rassicurante e infinitamente
consolante pensare alle braccia dell'Eterno che stringono questo
povero pianeta con tutto quanto lo abita.
Ma allora perché «astenersi dagli abbracci»?
Che cosa significa che c'è un tempo per distaccarsi da questa
unione, per separarsi dal bene realizzato nell'intimità fisica e
spirituale della comunione?
La risposta non può essere che nella saggezza
di un alternarsi di momenti che proprio per raccogliere i frutti
completi del loro avvicendarsi hanno bisogno di separarsi. Valga
per tutti l'esempio dell'unione fra uomo e donna per amarsi e
procreare, il più intimo gesto dell'abbraccio umano. Gettato il
seme, viene la stagione della raccolta, della nascita del figlio
che richiede un distacco necessario perché l'esito stupendo e
miracoloso dell'abbraccio abbia il suo seguito. A testimonianza
che l'amore per diventare sempre più grande e infinito, come Colui
dal quale procede, deve andare oltre le nostre persone fisiche, i
nostri stessi sentimenti, emozioni e desideri.
Vale anche per l'abbraccio che non procrea
fisicamente, ma suscita nuove possibilità di vivere, sperare e
crescere nel mistero che si appaga soltanto nella condivisione e
nell'accoglienza reciproca. Ma per partorire l'Amore dobbiamo
rientrare nella solitudine delle nostre esistenze, trovare gli
spazi e le pause necessarie per rielaborare i frutti della nostra
unione in modo che non si esauriscano in egoismi, appropriazioni,
possessi, domini, sopraffazioni. E' il tempo dell'astenersi, del
distaccarsi non per un commiato definitivo, per un abbandono senza
ritorno. Ma per poter acquisire tutti i significati profondi di
quell'abbraccio che è divenuto il nostro linguaggio universale.
Per offrire alla creatura che nasce (figlio, rapporto, opera,
progetto) di trovare un suo spazio autonomo, mentre ci si prepara
con coscienza e sentimenti rinnovati dal tempo della separazione
al nuovo tempo dell'abbraccio.
Il Dio che ci tiene nelle sua braccia, fra un
abbraccio e l'altro, sa anche trovare i tempi per lasciarci
camminare da soli.
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