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Sempre di più oggi si parla di
autorità e di leadership nella vita consacrata, sapendo che è molto
forte l’esigenza di riscoprire il senso di tale servizio nel contesto
della testimonianza della consacrazione a Dio e ai fratelli.
Il bisogno di leadership autorevole
e amorevole tra i religiosi e le religiose parte dall’assunto che le
persone che vivono all’interno dell’organizzazione comunitaria sono
esseri umani e che per il loro adeguato funzionamento sono necessari
l’amore e la carità che scaturiscono dal rispetto e dalla comprensione
reciproca1.
Le
influenze nell’autorità formale e carismatica della vita consacrata
Guardando al servizio dell’autorità
nella vita consacrata dobbiamo rilevare che la sua funzione più
esplicativa all’interno di una comunità religiosa è quella che si
richiama al criterio di influenza nel gruppo. Da questa prospettiva
possiamo considerare l’esercizio della leadership a due livelli: sia dal
punto di vista di chi ha il compito non solo formale ma anche
carismatico di guidare e animare i membri della comunità, una autorità
che «favorisce e sostiene questa loro consacrazione»2,
e sia dal punto di vista dei tanti leader informali che sorgono nelle
comunità e che possono essere di stimolo per raggiungere gli scopi del
gruppo o, al contrario, possono manipolare la vita comune per degli
interessi individualistici. Questa distinzione tra autorità formale e
autorità informale aiuta a sottolineare l’importanza delle dinamiche
psicosociali degli individui, dei gruppi e delle organizzazioni
comunitarie per la qualità della leadership e per la sua capacità a
favorire un cammino comune autentico verso la testimonianza di fede.
Il modo con cui il superiore, o la
superiora, percepisce i membri della comunità, la sua capacità di
ascoltare i loro bisogni, la chiarezza con cui afferma la propria
autorevolezza, sono tutti elementi che influenzano sia chi esercita
l’autorità, e sia chi partecipa con le proprie risorse alla crescita
comune del gruppo3.
Tipi di
influenza della leadership e rapporti comunitari
L’influenza “legittima” è una delle
fonti di autorità all’interno della comunità religiosa. Il superiore, o
la superiora, esercita il suo influsso, e allo stesso tempo i membri
della comunità ne riconoscono la legittimità perché il suo è un potere
che deriva da valori internalizzati. In questo caso è importante che i
confratelli, o le consorelle, percepiscano che l’autorità ha il diritto
di occupare il proprio ruolo che gli è conferito da un “agente
legittimo”, qual è appunto il superiore, o la superiora, maggiore che lo
l’ha nominato/a.
Quando nelle comunità emergono
delle personalità particolarmente influenti o quando in una comunità le
persone sono altamente specializzate per il lavoro che svolgono, può
succedere che esse abbiano una funzione di leadership, a volte anche più
forte dello stesso superiore o superiora locale. Il loro potere, però,
non sempre è legittimo perché non sempre è conferito da un agente
legittimo. Alcune situazioni comunitarie, però, possono legittimare
l’incremento dell’influenza che tali persone possono avere.
Immaginiamo per un momento che tra
i diversi membri di una comunità ci sia una sorella che è preside di una
scuola gestita dalle suore di quella stessa comunità. Supponiamo che
durante il periodo dei consigli di classe la preside decida di svolgere
le riunioni negli ambienti della comunità fino a tarda sera. Benché ciò
crei disagio all’intera comunità e nonostante l’opposizione della
superiora locale, la preside non solo continua a tenere i suoi incontri
nel refettorio della comunità, ma invita anche le altre sorelle,
soprattutto le più giovani, a unirsi a loro a fine riunione, per bere
insieme qualcosa. Non c’è nulla di male in tutto questo. Inoltre la
preside può giustificare la sua scelta pensando che la comunità deve
essere aperta alle opere educative della propria congregazione. Ma se
tale scelta di lavorare negli ambienti della comunità non è stata
esplicitata in un contesto di progettazione comune, la preside porterà
avanti la sua scelta, forte della sua convinzione personale,
influenzando così il comportamento delle altre che si adegueranno a tale
presenza in comunità.
Un’altra sorgente di influenza
autorevole all’interno del gruppo è la “competenza” che il superiore ha
nel guidare la propria comunità. Anche se oggi non va più tanto di moda
parlare di competenze da parte del superiore, eppure egli deve avere un
minimo di abilità per condurre una comunità religiosa, necessarie e
importanti per sé e per gli altri. Il superiore che riesce a tollerare
le frustrazioni che si possono presentare in comunità, che ascolta i
confratelli che si presentano a lui, che interviene senza essere
invasivo, che sollecita il riconoscimento e l’impiego delle risorse
personali, è certamente una persona che esercita il servizio
dell’autorità con competenza, o perlomeno è una persona che tende ad
affinare le proprie abilità. E’ stato ampiamente confermato dalla
psicologia sociale che il leader competente, o comunque che cresce nelle
sue competenze, è ben accolto all’interno del gruppo e il gruppo stesso
facilita il suo cammino di incremento delle sue abilità4.
Tale influenza può essere
caratteristica anche di chi non detiene l’autorità, ma la esercita
direttamente o indirettamente perché possiede alcune competenze
particolari. Per esempio, è stato constatato che le persone capaci in
alcuni settori (vedi un confratello professionalmente qualificato come
medico o come giornalista), possono esercitare la loro influenza quando
in comunità si tende a generalizzare che il loro potere sia garante di
verità non solo nel loro settore ma anche in altri ambiti comunitari.
In una comunità è capitato che la
superiora, irritata per le continue lamentele di una consorella, le
dicesse seccata: «se non ti senti bene, va dal medico!». E così quella
suora si è rivolta alla consorella medico e psicologa, presente in
comunità, la quale le ha detto: «I tuoi mal di testa, mia cara, sono
sicuramente di origine psicosomatica. La medicina migliore per te è di
stare lontana dalla superiora per qualche tempo». L’influenza di tale
consiglio “competente” non ha guarito i suoi mal di testa, ma ha
ottenuto per qualche tempo un cambiamento nei comportamenti della suora
“malata”, la quale per un po’ non rivolse più la parola alla superiora!
Un’altra sorgente importante
dell’influenza dell’autorità nella comunità è il potere “informativo”,
cioè il contenuto della comunicazione che intercorre tra leader e
gruppo. In questo caso, non è tanto la natura della persona del leader
ad influire quanto piuttosto il contenuto delle sue comunicazioni e
quindi l’incidenza degli stimoli verbali e non verbali trasmessi alle
persone del gruppo. L’influenza informativa mira a cambiamenti profondi
negli atteggiamenti delle persone all’interno della comunità religiosa,
perché mette in evidenza la responsabilità di entrambi (leader e membri
del gruppo) nella percezione, nella comprensione reciproca, come pure
nella riscoperta delle motivazioni a stare insieme. Nella comunità il
potere informativo viene molte volte ritenuto come influente o
ininfluente a seconda delle caratteristiche di ciò che le persone
comunicano tra loro. Per accorgerci di questo, basti pensare al tipo di
comunicazione presente nella propria comunità, oppure al modo con cui a
volte si trasmettono i contenuti linguistici nelle riunioni di comunità.
In questi casi, se si cerca di far
prevalere la propria posizione su quella degli altri e lo stimolo
comunicativo viene percepito come distruttivo, esso coinvolge
negativamente le persone nelle loro relazioni reciproche; diversamente,
se l’informazione è colta bene, le persone si coinvolgeranno
positivamente tra loro.
In altri termini, l’influenza
informativa è indipendente dalle caratteristiche di chi esercita
l’autorità, ma persiste nel gruppo. Per esempio, prendiamo il caso di
una comunità in cui la superiora abbia avuto delle reazioni negative
dinanzi ad alcuni comportamenti dei membri della sua comunità.
Successivamente, essa può dare informazioni valide, ma può ottenere
risultati insignificanti o negativi nel cambiamento degli atteggiamenti
delle persone del gruppo, fintanto che nella comunità ci sarà “memoria”
del precedente stimolo informativo negativo.
Nel contesto dei leader informali
occorre rilevare che l’influenza del potere informativo può portare a
conseguenze positive ma anche negative nella comunità: nel primo caso
sono da annoverare i messaggi congruenti di quanti contribuiscono a fare
crescere la vita comune, rendendosi particolarmente disponibili per il
bene comune; nel secondo, ricordiamo che le reazioni negative o comunque
gli atteggiamenti di manipolazione da parte delle persone che hanno
influenza nel gruppo lasciano il segno nel vissuto comune. In alcune
comunità può succedere che chi alza più la voce sembra essere più
ascoltato dagli altri.
Un’altra caratteristica dell’azione
del leader è quella di influenzare il gruppo grazie ai benefici che
concede. Un atto “remunerativo” in una comunità religiosa può essere
costituito da una ricompensa verbale, da una considerazione rivalutante,
da una raccomandazione per i propri servizi pastorali. In questo caso,
consciamente o inconsciamente, il superiore tende a incentivare i
comportamenti e gli atteggiamenti che lui percepisce in sintonia con il
suo modo di esercitare l’autorità. Se da una parte tale atteggiamento
può promuovere e modellare nuovi comportamenti che vanno nella direzione
delle scelte comuni, dall’altra è anche vero che tale fonte di potere
può essere rischiosa quando emerge un bisogno di affiliazione e di
dipendenza da parte delle persone della comunità.
Nel caso, poi, dei leader informali
all’interno dei gruppi, il loro potere remunerativo può avere un forte
effetto sugli altri e può essere tanto più efficace quanto più la
persona ha prestigio nel gruppo.
«Nella mia comunità non hanno
bisogno di un superiore, perché lì comandano tutti!», si sfogava un
confratello riferendosi ai tanti sottogruppi presenti nella sua
comunità. Dalle persone con cui si va d’accordo, con cui ci si sente in
sintonia, si tende a farsi più facilmente influenzare per la probabile
sensazione di “remunerazione” che si sperimenta, per cui è gratificante
poter condividere con loro le proprie opinioni, perché approvano le cose
e le persone che ci piacciono o non approvano ciò che anche noi
disapproviamo. Il potere di quanti esercitano una influenza carismatica
su di noi appare più chiaro quando essi riducono l’interazione oppure
interagiscono in un modo che non desideriamo, limitando così la nostra
soddisfazione. Del resto non bisogna dimenticare che le persone che
vanno molto d’accordo all’interno di un gruppo hanno molto potere sugli
stessi membri del gruppo5.
Oltre alle caratteristiche fin qui
menzionate, consideriamo anche il fatto che il leader è una persona che
può limitare e ostacolare l’autonomia delle persone. In questo caso la
sua influenza è di tipo “coercitivo”. Questa influenza si distingue per
il fatto che essa suscita delle reazioni più negative nelle persone del
gruppo oppure perché ottiene degli effetti boomerang. Basti pensare alle
situazioni in cui il superiore deve limitare in maniera netta alcuni
comportamenti sbagliati all’interno della comunità, e lo fa obbligando
le persone ad obbedire ad alcune regole che permettono un migliore
funzionamento della struttura del gruppo (esempio: fissare le regole per
come gestire l’orario di rientro a casa dei confratelli). Le persone
possono costringersi ad obbedire, ma possono anche rivivere la
trasgressione ad un altro livello, per esempio adattandosi a
comportamenti di dissenso all’interno della comunità, oppure assumendo
un comportamento di tipo passivo-aggressivo. Sicuramente il potere
coercitivo, soprattutto da parte di chi non è superiore nella comunità,
non porta ad atteggiamenti di comprensione interpersonale e inibisce
l’esercizio dell’autorità fondata sull’attrazione interpersonale.
Sia l’influenza che ricompensa e
sia quella che limita sono entrambe delle sorgenti di controllo molto
importante per il funzionamento di una leadership amorevole, che
“ricompensa” ed accoglie i diversi comportamenti dei membri, ed
autorevole, cioè che pone confini chiari e dà direzione perché il gruppo
possa convergere verso gli obiettivi comuni6.
Egli infatti esercita delle influenze che riguardano sia le ricompense
che può dare, di cui le persone potrebbero averne bisogno, e sia le
“punizioni” da assegnare, che i membri del gruppo devono evitare per
raggiungere i loro obiettivi.
Il controllo esercitato dalla
leadership in questo caso può essere sia attuale e quindi realmente
esercitato, che potenziale, cioè non esercitato realmente ma non per
questo non influente all’interno del gruppo. Prendiamo, per esempio, un
superiore che si astiene dall’intervenire su alcuni comportamenti dei
suoi confratelli, perché è particolarmente irritato da alcune voci sul
suo conto. Benché non si accorga di poter influire sul gruppo con la sua
astensione, non per questo egli non possiede potere. In questo caso,
infatti, egli alimenta le fantasie di disapprovazione nei membri del
gruppo i quali, pur assumendo e rispettando le regole, modificheranno il
loro modo di percepirsi nelle relazioni con l’autorità.
Infine, mentre l’influenza che
ricompensa può portare a sviluppare una maggiore attrazione e una minore
resistenza verso le regole comuni, nel caso del potere coercitivo vi
sarà una diminuzione di attrattiva e un aumento della resistenza nei
confronti del leader.
Relazioni interpersonali e presenza attiva dell’autorità
Le relazioni che esistono tra
superiore di comunità e membri del gruppo hanno una importanza vitale
per lo sviluppo di una sana leadership. Tenendo presente che oggi sono
oramai superate le vecchie teorie della leadership relative ai tratti e
alle qualità del buon leader, l’attenzione viene sempre più centrata sui
comportamenti relazionali che fondano la leadership efficace e
strutturante per le persone e per i loro obiettivi. Inoltre, la
centralità delle relazioni aiuta il gruppo a dirigersi, con la
mediazione del leader, verso i contenuti che sono parte del progetto
comune.
Quando parliamo di dinamiche
all’interno del gruppo vogliamo fare riferimento a ciò che concretamente
fa parte della vita quotidiana della comunità. Le persone si incontrano,
si scontrano, si parlano, programmano insieme, e in tutto questo
l’autorità influisce non tanto per le regole che detta quanto piuttosto
per la sua presenza rassicurante e prospettica che permette al gruppo di
dare senso alle diverse azioni compiute nel quotidiano.
La dinamica di un gruppo comprende
lo sviluppo di transazioni che le persone intessono tra loro, e che
rappresentano il linguaggio relazionale con cui manifestano le loro
intenzioni, le loro attese, le loro gioie, i loro bisogni e i loro
interessi personali. Partecipare a questo laboratorio di relazioni vuol
dire, per il superiore, essere consapevole delle vicende relazionali
della propria comunità, su cui egli si propone come figura di
riferimento costante ed empatica.
Perché si costruisca questa
sintonia tra leader e gruppo, occorre che le persone imparino a
simboleggiare e quindi a portare alla loro consapevolezza le proprie
esperienze relazionali, per potersi introdurre autenticamente nei
rapporti reciproci e per permettere al leader una influenza propositiva
ed efficace.
Dinanzi alla diversità delle
situazioni interpersonali, il leader ha il compito di facilitare una
collaborazione tra le persone che vivono in comunità, attraverso una
presa di coscienza propositiva delle diverse posizioni, con l’intento di
aiutare il gruppo a crescere in modo coordinato verso gli obiettivi
condivisi. Non dimentichiamo che una leadership efficace esige sia delle
specifiche competenze interpersonali e strutturali, sia una chiara
risposta di consapevolezza e di contatto con le diverse situazioni
presenti in comunità. Diversamente, quando manca questo equilibrio tra
struttura e relazioni, si rischia di avere una sorta di scollamento tra
le regole impartite e i vissuti reali del gruppo: il superiore si
aspetta che le persone obbediscano, queste probabilmente lo fanno, ma il
loro cuore e la loro mente stanno altrove. Ecco perché nella fase
dell’organizzazione del gruppo comunitario è fondamentale che la
comunicazione dei contenuti relazionali sia reale e corrisponda a ciò
che davvero succede nei rapporti comunitari, poiché le dinamiche
interpersonali sono direttamente collegate ai processi psicologici che
le persone vivono nella piattaforma comune rappresentata dalla vita
comune.
Dire a un confratello “grazie”, o
chiedere “mi dai una mano?”, oltre ad essere dei suoni fonetici, è
importante che corrisponda ad un rapporto autentico che la persona
vive-con-l’altro. Tutto ciò, però, non lo si ottiene magicamente, ma è
frutto di continua e quotidiana “conversione reciproca”. Ed è di questa
permanente conversione reciproca che il superiore deve essere garante
con la sua presenza attiva, preoccupato non tanto e non soltanto della
struttura da mantenere quanto piuttosto della veridicità degli scambi
contenutistici che ci sono tra i membri del gruppo e tra il gruppo e il
superiore. Se manca questa presenza attentiva di fondo, il rischio che
si corre è di effettuare una comunicazione “tra sordi”, dove si
affiggono cartelli e norme comunitarie sulle diverse bacheche, ma senza
una tangibile interazione ed interiorizzazione di tali norme7.
A questo proposito calza bene
l’esempio di una comunità la cui superiora era iper-impegnata in
un’attività socio-pastorale all’esterno e, quindi, pochissimo presente
in comunità. Fin qui tutto bene, perché il suo impegno fuori
corrispondeva al carisma del suo istituto e coincideva con il super
impegno delle altre consorelle della sua comunità, anche loro sempre
fuori per impegni pastorali. Quando però la superiora tentava di
stabilire il giorno e l’ora per la riunione della comunità, era
frustrante per lei constatare che non c’era verso di far quadrare i
mille impegni delle altre. La soluzione a tale dilemma? Aveva imparato a
fissare ugualmente giorno e ora per la riunione comunitaria, affiggendo
il cartello fuori con questa frase in fondo al foglio: “chi c’è c’é, chi
non c’è non c’è”. Conclusione: dopo un paio di mesi, a quegli
appuntamenti appesi al muro non partecipava quasi mai nessuno,
ultimamente neanche lei stessa, perché se ne dimenticava!
Come a dire che se nella comunità i
contenuti non sono veicolati in modo significativo per il gruppo, perché
le persone possano effettivamente partecipare non solo a livello
cognitivo ma anche a livello emozionale al significato di quanto
proposto dall’autorità per il bene comune, la disaffezione progressiva
può diventare mancanza di motivazione a partecipare alle cose. Dinanzi a
queste situazioni molte volte non è più sufficiente l’incentivo, o
l’interdizione che il superiore può brandire, se egli non si mette in
sintonia con il gruppo e inizia il paziente passaggio dalle molteplici
differenze alla comprensione reciproca, che passa attraverso i vissuti
specifici delle persone che compongono il gruppo.
Una
leadership che sia “presenza trasformante”
Abbiamo sottolineato come non basti
convincere le persone di una comunità a fare determinate cose, perché
tali cose diventino motivanti per il loro comportamento. La sfida della
leadership sta nel saper coinvolgere le persone a lavorare per
l’obiettivo della vita comune, che è la vita nuova in Cristo Gesù.
Il recente documento Ripartire
da Cristo ci ricorda come il servizio dell’autorità è importante per
aiutare i membri della comunità a crescere insieme verso degli obiettivi
comuni, e in questo compito i superiori e le superiore sono chiamati ad
essere sorgente attiva ed efficace. Si tratta di un compito che
«richiede presenza costante, capace di animare, di proporre, di
ricordare la ragion d’essere della vita consacrata, di aiutare le
persone affidate per una fedeltà sempre rinnovata alla chiamata dello
Spirito»8.
Questo richiamo alla presenza della leadership nel contesto comunitario
ci riporta ad un criterio fondamentale a cui si ispira il senso stesso
della vita comune: occorre che chi esercita il servizio dell’autorità
sia servitore tangibile della presenza di Cristo in mezzo ai fratelli e
alle sorelle.
Durante una sessione di formazione
permanente per un gruppo di confratelli animatori di comunità, uno di
loro faceva osservare come fosse difficile accettare l’incomprensione
degli altri, i quali non capivano, non obbedivano, non ascoltavano,
soprattutto quando si trattava di dare alcune norme da seguire. «Quando
devo comunicare certe decisioni misuro ogni parola che devo dire, prima
di aprire bocca. Tanto so che avranno sembra da ridire!»
Nell’esplorare insieme questa sua
preoccupazione emersero con maggiore chiarezza i diversi particolari
delle sue difficoltà ad essere presente con le persone, perché in fondo
le sue comunicazioni verbali erano disconfermate dalla sua sfiducia
interiore.
Rendersi conto di quello che
succede dentro e fuori di noi diventa una occasione per crescere
insieme. «Se il ministero di governo stabilisce un rapporto con la
comunione e la comunità, colui o colei che lo esercita non deve
dimenticare che è chiamato ad accompagnare ciascuno dei fratelli, o
sorelle, che il Signore gli ha affidato, grazie a una relazione fraterna
e personale, caratterizzata dalla simpatia, dalla fiducia e dal senso
del dialogo»9.
Per fare questo occorre che il
leader consideri gli avvenimenti che accadono nella propria comunità
secondo il significato che hanno per il gruppo, e partecipi con le sue
caratteristiche personali, con i suoi pregi e con i suoi difetti, alle
vicende della fraternità.
Per rendere fecondo questo impegno
situazionale occorre che egli sia coinvolto continuamente per rivalutare
le proprie potenzialità e le risorse degli altri, a partire dalle
situazioni concrete che tutti vivono in comunità, per costruire
realmente quel “noi” comunitario che è fonte inesauribile di comunione
fraterna, fondato sulla comunione in Cristo Gesù10.
Perché si arrivi a questo è
indispensabile che il superiore sia in grado di percepire le dinamiche
interpersonali fatte di azioni e di reazioni reciproche, per rilevare le
potenziali risorse presenti, in sé e negli altri, e per valutare quali
comportamenti adottare per arrivare a delle vere ed autentiche modalità
cooperative di leadership. Il suo compito è quello di favorire la
consapevolezza di ciò che si vive in comunità, facilitando lo sviluppo
delle potenzialità personali e interpersonali, perché ognuno sia
attivamente coinvolto a gestire le diverse situazioni che caratterizzano
la vita comune.
Se le persone si attivano in questa
riscoperta, allora troveranno nuove motivazioni per contribuire
maggiormente alle influenze del leader. Per questo è importante che il
superiore sappia condurre pazientemente la comunità a riscoprire le
finalità condivise senza passivizzare gli individui con sistemi di
controllo apparentemente coerenti e approvati, ma che in effetti però
possono alimentare l’insidia della dipendenza o della indifferenza nel
gruppo.
Alcune
annotazioni conclusive
Abbiamo già sottolineato
l’importanza di una sana consapevolezza come premessa per un’attenzione
significativa nei rapporti con gli altri11.
Come conclusione di questa riflessione credo che sia fondamentale per
chi esercita il compito dell’autorità rilevare le dinamiche
interpersonali presenti nella propria comunità, per cogliere i mille
doni presenti in ogni fratello e in ogni sorella, perché le sue risposte
e le sue decisioni possano essere rispettose di sé (cioè della propria
realtà cognitiva ed emozionale) e del vissuto esperienziale degli altri.
In ogni circostanza, però, le
diverse funzioni della leadership (di legittimità, di competenza, di
ricompensa, o di costrizione), lo interpellano a rapportarsi con la
diversità delle persone o delle situazioni che si presentano nel vissuto
quotidiano, per stabilire una intesa empatica, premessa indispensabile
perché l’altro possa avere fiducia nelle sue azioni e nelle sue
decisioni. Con tale atteggiamento di reale servizio per il bene comune,
l’autorità in carica non si spaventerà delle difficoltà, e neppure dei
leader informali presenti nel gruppo; anzi, la sua presenza autorevole
ed amorevole sarà uno stimolo in più per l’ambiente relazionale della
fraternità, perché ognuno canalizzi le proprie energie per i progetti
condivisi da tutta la comunità.
In questo modo, se il superiore si
lascia interpellare dai diversi segnali interpersonali e dalle
situazioni vissute quotidianamente, sarà preoccupato non tanto di
fornire “ricette risolutive” per ogni problema ma piuttosto faciliterà
con il suo atteggiamento di ascolto e di accoglienza la disponibilità
reciproca a riconoscere le rispettive competenze e ad impiegarle per
vivere la comunione come reale testimonianza della presenza di Cristo
nella vita comunitaria.
«Un’autorità operatrice di unità è
quella che si preoccupa di creare il clima favorevole per la
condivisione e la corresponsabilità, che suscita l’apporto di tutti alle
cose di tutti, che incoraggia i fratelli e le sorelle ad assumersi le
responsabilità e le sa rispettare […]. L’autorità del superiore e della
superiora si adopera cioè perché la casa religiosa non sia semplicemente
un luogo di residenza, un agglomerato di soggetti ciascuno dei quali
conduce una storia individuale, ma una comunità fraterna in Cristo»12.
Difficile? Certo, non è un compito
facile, ma solo camminando per questa strada di autentica conversione
all’alterità, chi è chiamato ad esercitare l’autorità potrà riscoprire
questo servizio come dono di Dio.
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