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l tema che mi è stato affidato è esigente e vorrei trattarlo non tanto e
non solo in riferimento alla o alle diversità culturali, ma andare,
almeno un poco, alle radici di ogni relazione con l’altro, dentro il
contesto della globalizzazione e della compresenza di differenziate
culture. Sono convinto, infatti, che la fatica, la difficoltà,
l’aggressività, che spesso si nota nella comunicazione con il diverso, o
con i diversi per età, sesso, condizione, salute, pelle, cultura e
quant’altro, nascano da una difficile e faticosa accoglienza che
ciascuno ha di se stesso, spinti, come siamo, dalla cultura
post-moderna, nell’orizzonte talvolta anonimo della globalizzazione
selvaggia e del policentrismo culturale ed esistenziale, nella pluralità
delle appartenenze (e, dunque, delle appartenenze vissute tutte con
riserva), a misurarci su modelli, spesso violentemente impostici da una
eccessiva esposizione mediatica: “chi sono io” mi è come detto, sempre e
solo da altri.
Dunque, una riflessione che vedrà qualche premessa e cinque momenti di
analisi.
Il primo momento vuole fare, sinteticamente, chiarezza sul tema
della globalizzazione, per identificarlo, descriverlo e problematizzarlo
(forse più che per definirlo).
Il secondo momento vuol fare qualche rapido e sintetico cenno,
più suggestivo che non argomentativo, allo scenario del post-moderno,
quale luogo propizio per una fenomenologia e un’ermeneutica della
globalizzazione.
Il terzo momento allude a ciò che costituisce, come vuole appunto
il titolo del nostro tema (arricchimento o contrasto), l’identità: che
cosa mi costituisce? che cosa mi fa essere me stesso, oggi? Che cosa mi
consegna al mio destino? Che cosa posso condividere, dell’umano, con
l’altro, radicalmente diverso dalla mia cultura, dalla mia storia e
dalle mie tradizioni?
Il quarto profilo della riflessione riguarda le ragioni della
diversità (culturale ed esistenziale) per capire, successivamente, le
ragioni delle varie diversità; quasi a dire che la rimozione di quella
prima, originaria relazione con l’altro/diverso, sta all’origine di
tutte le ulteriori incomprensioni e derive delle relazioni con la
diversità.
L’ultimo profilo vuole ricercare qualche percorso e qualche
itinerario atto a propiziare condizioni virtuose, affinché questa
relazione con l’altro possa essere una preziosa opportunità di crescita,
come allude il titolo della presente relazione: lasciando, poi, lo
spazio alle risonanze, alle domande, alle comunicazioni, che ogni
comunità potrà assumere.
Premesse
La prima riflessione vuole ricordarci che un tema come questo evoca uno
spazio riflessivo, introspettivo, narrativo, biografico: quasi di
silenzio e di meditazione. Evoca l’opportunità di partire da se stessi
e, insieme, di uscire un po’ dalla propria terra: «Esci dalla tua terra
e vai nella terra che io ti indicherò!». Dove l’immagine della terra da
abbandonare è, un poco, il proprio io, il proprio egoismo, il proprio
narcisismo infantile, il proprio egocentrismo. Credo anche che sia
importante verificare il rischio del subdolo ritorno di molti
ideologismi, cadute le grandi narrazioni, di cui le grandi ideologie
sono state forse l’epilogo ultimo. Io sono un sostenitore della fine
dell’epoca del moderno: dobbiamo coraggiosamente e positivamente entrare
in quella stagione che non sappiamo che chiamare “post-moderna” - Quando
diciamo “post” è perché non sappiamo bene che cosa sia -. Sappiamo bene,
però, che cos’è il “moderno”, il cui capitolo non può che essere chiuso
e abbandonato; mentre, mi pare, vi siano tentazioni, o tentativi di
resistenza, con forme regressive di “pre” moderno: «Ah, una volta sì
che... », ovvero forme apparentemente aperte di “iper” moderno, dove il
rapporto con l’altro, anche se ha il colore della pelle diverso, è
misurato solo con la logica del mercato, della forza lavoro e dei
diritti sempre meno riconosciuti, salvo rifugiarsi dentro la
teorizzazione della cittadinanza differenziata e plurima. Il
post-moderno segna la fine di questo discorso, riconsegnando l’uomo e la
donna completamente a se stessi: noi siamo padroni del nostro destino;
tocca a noi decidere del futuro. È finito, ad esempio, il tradizionale
rapporto tra natura umana e cultura: l’uomo, oggi, può decidere se
essere maschio o femmina, come nascere, come non morire (può anche farsi
il proprio doppio quale riserva clonata dei propri organi - e non è solo
una fantasia -). Dunque il mio destino è nelle mie mani; questo è vero
anche per il credente, il quale usa ed osa dire che il proprio destino è
nelle mani di Dio... In tema di libertà, ha questa esigenza: la
riconsegna della dimensione della fiducia e della fede e, dunque, della
libertà nell’affidarsi a chi, se uno è credente, si ritiene abbia nelle
mani il proprio destino, ovverosia a Dio. Se fossimo meccanicisticamente
nelle mani di Dio non saremmo neppure liberi. Il post-moderno riconsegna
all’umanità se stessa, il proprio futuro e, dunque, la propria libertà;
è ora di chiudere la stagione del moderno, quindi, anche per cogliere le
sfide e le provocazioni della globalizzazione, fenomeno che appare ormai
nella sua ambivalenza e insieme nella sua irreversibilità.
Alla radice dell’esistenza, noi sappiamo, v’è l’altro; senza l’altro si
muore. Il cucciolo d’uomo senza la relazione con la propria madre, che
accoglie, che valorizza, che offre e garantisce fiducia, che accarezza,
che, quindi, rende piacevole ed accettabile questo mondo, non
resisterebbe alle intemperie dell’esistenza e perirebbe; sarebbe esposto
al rischio di diventare psicotico. I genitori rendono ragione della
promessa con la quale e per la quale hanno messo al mondo un figlio:
senza questo non v’è speranza, non v’è fiducia, non v’è ragione per
vivere; altrimenti, come l’inizio della storia umana ci insegna, nasce
il sospetto. Allora, alla radice dell’esistenza vi è l’altro. Quando il
bimbo cessa la stagione del “vivere dentro”, nell’utero, nelle braccia,
negli affetti della propria madre, quando comincia a uscire da questo
utero più grande, che è la sua casa, che è lo spazio familiare,
rovescia, se adulto è, se adulto diventa, questa originaria e fondativa
relazione. L’adulto è colui il quale non più e non solo vive dentro
l’altro, ma incomincia a “far vivere l’altro, o l’altra, dentro di sé”;
fa spazio all’altro dentro di sé. L’innamorato fa spazio dentro di sé
all’altra e l’innamorata fa spazio dentro di sé all’altro: nei pensieri,
negli affetti, nel tempo, nella cultura, nel destino, nel futuro.
L’innamoramento e l’amore dicono: “sempre”, come speranza e come
promessa, almeno. E, ancora, occorre evocare la coscienza della mia
unicità, della mia irripetibilità, della mia indicibilità - non riesco
mai a dirmi tutto; ho bisogno di esistenza per dirmi, - della mia
irriducibilità - io sono sempre di più rispetto a quello che riesco a
capire e a esprimere di me -, questo si chiama libertà. Bene, questa
coscienza dell’essere sempre oltre, dell’essere sempre altro, mi apre,
appunto, alla promessa che l’altro è sempre un dono. L’altro è, appunto,
amico, amore, oggetto del mio amore. Il nemico, il non amico, ci pone un
profondo interrogativo: chi è il nemico? lo sono nemico di te, o tu sei
nemico di me? Talvolta l’affermazione è vera per ambedue. Ebbene, chi si
accoglie, chi raccoglie la sua identità, chi ha fiducia in sé; chi si
riconosce non ha alcuno che è nemico, perché il nemico, in quanto mi
aggredisce verbalmente, mi offende, al limite anche mi fa del male, non
tocca la mia identità. Cos’è l’identità? Lo vedremo tra un momento: io
uguale a io, ovverosia io mi accolgo tutto: la mia corporeità, la mia
affettività, la mia storia, la mia famiglia; non lascio fuori qualche
pezzo di me. I pezzi di me lasciati fuori sono quelli poi che vado a
cercare aggressivamente, spesso nell’altro. Allora, la non identità,
ovvero sia la non accoglienza di me è spesso all’origine della violenza
sull’altro, o della violenza su di me e della dipendenza che io posso
vivere nei rapporti con un altro. Voci diverse di questo atteggiamento
sono, appunto, la non accoglienza, il razzismo, l’esclusione, la
supremazia, i fondamentalismi a sfondo razziale. Quando il problema
degli immigrati extracomunitari è ridotto a un problema di ordine
pubblico, significa che si è consumata la relazione con l’altro, con il
diverso, e si celebra un’identità immatura, prorogata, infantile. Siamo
vergognosamente e sbrigativamente capaci di sgomberare le aree dismesse,
ma spesso non sappiamo offrire un letto, un tetto, una parola a chi è,
oppure si pone, ai margini: senza per questo porre alcun alibi contro le
forme o di violenza, o di non controllo, o d’irregolarità. lo credo che
la coscienza di un cittadino debba interrogarsi sul fatto di che cosa
significa in concreto, oggi e qui, per una persona, non astrattamente
assunta, ma concretamente guardata in volto, con il proprio nome,
riuscire a congiungere la fame del mattino con quella della sera e con
quella del giorno dopo1.
1. Globalizzazione e globalizzazioni
Appare ormai fin eccedente e al limite della retorica la letteratura
sulla globalizzazione. Sembra peraltro utile precisarne confini e
contenuti: giova, forse e preliminarmente, distinguere tra
globalizzazione, internazionalizzazione e mondializzazione.
L’internazionalizzazione fa riferimento al carattere dei rapporti
economici, politici, giuridici e culturali che una comunità o uno Stato
stabiliscono con altri: mercantili (di merci), produttivi (investimenti
all’estero), finanziari (movimenti di capitali), tecnologici
(trasferimento di tecnologie), culturale (rapporti culturali), movimenti
di persone (migrazioni).
La mondializzazione fa riferimento al complesso di problemi i cui
effetti si manifestano a livello mondiale e le cui soluzioni sono
possibili solo a livello mondiale attraverso la creazione di organismi
internazionali e la cooperazione tra Stati nazionali (attiene il
problema, ad esempio, dell’acqua, del clima, dell’ambiente, dell’energia
delle migrazioni, delle malattie endemiche ed epidemiche ecc.).
La globalizzazione si riferisce alle nuove forme assunte nel
mondo dal processo di accumulazione di capitale, per controllare mercato
e risorse a disposizione e per ottenere profitti su scala mondiale.
Resta dunque aperto il problema del rapporto con le differenziate
culture; sotto questo profilo le tre dimensioni citate sono interpellate
in eguale misura. Sinteticamente si possono evocare, da una parte, gli
elementi costitutivi e i problemi sottesi al fenomeno della
globalizzazione. Contribuiscono - sono gli elementi costitutivi - a
definire la globalizzazione (a) la formazione di un mercato finanziario
globale; (b) il potere della conoscenza e dell’uso dell’innovazione
tecnologica; (c) la competitività dell’iperconcorrenza (definita in
termini di liberalizzazione, privatizzazione e deregulation); (d)
la perdita di rilevanza degli Stati nazionali; (e) la formazione di una
cultura puramente globale. I problemi sottesi sono riferibili a: l)
iperconsumismo delle società occidentali; 2) incontrollato potere delle
multinazionali nelle fulminee transazioni finanziarie per via
telematica; 3) perduta protezione dell’agricoltura delle maggiori
economie, attraverso alti dazi che ostacolano le importazioni dalle
società preindustriali; 4) le incognite o i segreti delle biotecnologie
indirizzate al massimo profitto; 5) il mancato accordo internazionale
sull’effettiva riduzione dell’inquinamento da gas serra; 6) la cattiva
gestione delle risorse idriche.
Sono molte le domande, indotte dalla costitutività e dalla
problematicità della globalizzazione. Che fare?
Si articolano e si strutturano atteggiamenti differenziati:
rassegnazione sconsolata, esaltazione incondizionata; paura e angoscia
deprimente e/o depressiva, attendismo escatologista o utopico.
Per non attardarci in un’analisi che porterebbe il discorso troppo
lontano dall’economia del presente contributo, vorrei sintetizzare
(rinviando ciò a studi più specifici) qualche possibilità, per opporsi
alla cosiddetta società globalizzata del “2080” e suggerire qualche
indicazione progettuale per stare dentro la globalizzazione nel rispetto
delle differenziate culture.
Le possibilità sembrano riferirsi a: un’Unione europea democratica e
capace di agire; un rafforzamento e una europeizzazione della società
civile; un’unione monetaria europea allargata e consolidata; leggi
europee anche sulla tassazione; introduzione di una tassa sui redditi
provenienti dal commercio di valute (Tobin-tax?) e sui mutui in valuta
europea concessi a banche extraeuropee; standard minimi ecologici e
sociali per il commercio mondiale; una riforma fiscale ecologica su
scala europea; l’introduzione di una tassa europea sui beni di lusso; la
costituzione di sindacati europei, la fine della deregolamentazione
senza garanzie sociali.
Le indicazioni progettuali: non separare due diritti indivisibili
e interdipendenti: pace e sviluppo integrale e solidale; far maturare
un’autentica cultura della solidarietà (globalizzare la solidarietà);
ruolo fondamentale dell’educazione (cfr. banche etiche e commercio
equosolidale); necessità del rinnovamento del diritto internazionale e
delle istituzioni internazionali; ripensare all’idea di nazione;
superamento della sovranità assoluta degli Stati; creare “la famiglia
delle nazioni”; disarmare gli animi, armare la ragione (la forza della
ragione e non le ragioni della forza); assumere e gestire le sfide
dell’unificazione, della multiculturalità e della globalizzazione della
solidarietà; riconsiderare i valori della cultura religiosa per lo
sviluppo2.
Il profilo della riflessione culturale si allarga alle differenziate
componenti delle transizioni, nell’orizzonte del fenomeno
dell’immigrazione: dalla multicultura e dell’intercultura
alla pluricultura.
Il fenomeno dell’immigrazione non può essere riassunto in poche battute.
Esso esige la multidimensionalità dell’approccio, in quanto sono
molteplici le problematiche sottese. Si evocano qui solo le
caratterizzazioni più evidenti, anche per istruire, almeno nei termini
essenziali, l’approccio antropologico e istituzionale al problema, che
appare complesso e sottoposto (forse più di ogni altro problema del
postmoderno) alle identificazioni e alle proiezioni dell’immaginario
collettivo e al conflitto ideologico della parti: mantenimento della
propria identità culturale, apertura al confronto con altri, rispetto
delle regole e promozione dei valori, ecc. Si accenna, dunque, al
profilo essenziale del problema, che appare segnato, nel terzo
millennio, da un’ineludibile espansione dovuta a molteplici ragioni, che
non è facile qui riassumere, seppur sinteticamente: la globalizzazione
delle conoscenze e del mercato; la disparità dei livelli di benessere;
il divario tra Paesi e la conseguente forbice allargata delle povertà;
il policentrismo culturale e la relativizzazione delle prospettive
etiche; la frammentazione e la frammentarietà degli stili di vita e le
molteplici appartenenze.
Un primo gruppo di questioni afferisce alla prospettiva culturale:
l’ingresso di extracomunitari, in Italia e negli altri Paesi
dell’Europa, pone la questione multiculturale. Ed è certamente la prima
modalità di assumere il problema: le molte culture devono essere
conosciute, e riconosciute, nella loro peculiarità e nelle rispettive
diffèrenze. Ma porre accanto le molteplici culture può favorire
la conoscenza e insieme, nel togliere le differenze, aprire al
confronto. La sottolineatura delle differenze e delle alterità propizia
le chiusure e le distanze. Occorre, dunque, fare il passaggio dalla
prospettiva multiculturale alla prospettiva interculturale: dal
confronto al riconoscimento, dalla conoscenza alla mediazione. Ma non
appare sufficiente; potrà favorire la convivialità delle differenze solo
l’incontro, l’ascolto, il confronto; e, dunque, il passaggio dalla
prospettiva interculturale alla prospettiva pluriculturale. Si vuole,
dunque, sottolineare come la relazionalità dell’ascolto, della
comprensione può favorire un’autentica convivialità. Essendo l’umano, in
qualche modo indicibile, esso viene “raccontato” attraverso il
costituirsi delle culture, degli stili di vita: nulla può essere perso
di ciò che fa la storia dell’umano: ma non solo e non tanto per uno
scambio “culturale” (o testuale), quanto per un “incontro”, che si fa
relazione: la relazionalità della e nella reciprocità
costituisce e costruisce pluricultura. Appaiono qui i molti volti degli
itinerari della comunità locale, regionale e nazionale: in termini non
solo di prima o seconda accoglienza, quanto in termini educativi, di
composizione e ricomposizione dei contesti familiari, di valorizzazione
delle rispettive prospettive religiose; condizioni propizie per
l’accoglienza sono il riconoscimento delle leggi e delle norme del Paese
che accoglie: indubitabilmente le regole della convivenza debbono essere
rigorosamente esigite: per tutti, senza demonizzazioni, senza
esorcizzazioni; ma anche senza precomprensioni, pregiudizi e
preconcetti: è la difficile storia anche delle legislazioni che hanno
accompagnato le vicende italiane di questi anni.
Un secondo gruppo di questioni attiene la politica dei diritti di
cittadinanza e l’accoglienza dell’immigrato extracomunitario.
Approfondire la questione, indubbiamente complessa e dalle molte facce,
giova a cogliere le differenziate scansioni dell’acquisizione dei
diritti di cittadinanza tra i cittadini italiani e gli immigrati
extracomunitari. Il processo, evocando la classificazione di Marshall,
appare di segno opposto: dai diritti civili e politici ai diritti
sociali, per gli italiani. Dai diritti sociali ai diritti civili e
politici, per gli immigrati extracomunitari, per i quali si tratta,
dunque, di una cittadinanza debole (lungo, temporalmente, è l’itinerario
della cittadinanza per l’immigrato), con il rischio di uno status debole
e, dunque, esposto alla fragilità delle responsabilità, sia civili sia
politiche.
Un terzo gruppo di problemi è legato alle differenze religiose e
alla difficile composizione di fedi molto diverse, con acquisizioni
molto eterogenee, in ordine, ad esempio, all’accettazione della
modernità, alla laicità dello Stato, al superamento dei differenti
fondamentalismi, che possono rendere difficoltosa e problematica la
convivenza civile. Si tratta di un cammino lento e paziente, che mette
conto di accogliere molte differenze, coniugando rispetto e promozione
della propria identità e rispetto e promozione delle fedi altrui,
soprattutto in assenza di un ethos condiviso, anche a livello dei
principi minimi e fondamentali della convivenza civile: si pensi, ad
esempio, alla diversa accezione e alla pluriforme concezione della
famiglia. Il rischio di un sincretismo più o meno tollerante,
all’insegna di un’indifferenza e di una neutralità delle differenziate
comprensioni esistenziali, non appare certo troppo lontano e non mai
sufficientemente esorcizzato. Una pluralità di appartenenze, che se non
è sufficientemente interiorizzata, a partire dalla propria identità,
rischia di corrodere i legami deboli dell’attuale contesto civile.
Sarebbe interessante approfondire il problema delle provenienze
territoriali degli immigrati; come occorrerebbe, altresì, valutare le
ragioni delle migrazioni anche contemporanee: le povertà umane e le
povertà da reddito sono certamente le cause più plausibili di
un’esasperata ricerca di guadagno, per uno sperato e migliore benessere
per sé e per la propria famiglia. Si rinvia, per tutto questo aspetto,
ai Dossier della Caritas di Roma, puntualmente predisposti ogni anno.
Un ultimo problema, ormai sin troppo evidenziato, è quello della
devianza e della criminalità degli immigrati. I dati sono ormai molto
noti. Si conoscono le etnie dove la criminalità si inserisce in un
perverso gioco di criminalità organizzata. Credo non si debba
enfatizzare il rischio, anche se esistono problemi oggettivi,
soprattutto per la condizione degli immigrati clandestini.
Un discorso a parte deve essere fatto per i rifugiati. Anche solo
per offrire un’immagine del fenomeno basterà ricordare come l’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati si è occupato, al 1
gennaio 2000, di 22.257.340 persone: di questi, il 52,4% sono rifugiati;
il 5,3% sono persone richiedenti asilo; 1’11,2% sono rifugiati assistiti
nel rientro nei Paesi d’origine, essendo venute meno le condizioni di
pericolo; il 17,8% sono sfollati all’interno del proprio Paese (la cifra
rappresenta solo una piccola parte degli sfollati); il 6,4% sono
sfollati che hanno ricevuto assistenza per rientrare nelle proprio
abitazioni, il 6,6% sono altre persone, assistite a vario titolo.
All’inizio del 2001 il numero complessivo delle persone di competenza
dell’ INHCR era di 21,l milioni di persone. Nel mondo una persona su 284
è stata costretta a lasciare la propria abitazione a causa di guerre e
di persecuzioni. La cifra del 2001 diminuisce di l,l milione (-5,5%)
rispetto al 2000.
Ma forse l’analisi delle differenziate ragioni culturali esige di
tornare a pensare alle ragioni dello scenario socioculturale
postmoderno, che è insieme causa ed esito di tale processo.
2. Lo scenario socioculturale postmoderno:
la presenza di diverse culture
Ogni comunità, soprattutto la comunità locale, segna caratteristiche
strutturali, funzionali e istituzionali nell’orizzonte del tempo che la
significa e indica sempre luoghi di appartenenza (e di conflittualità,
quando non di estraneità), di vivibilità (e talvolta di abbandono e di
degrado): sono quelli che appartengono alla “cultura organica” delle
cosiddette società stanziali. Non luoghi, assenza di relazioni, mobilità
di linguaggi, smemoramento degli stili di vita, atrofia dei fini nella
ipertrofia dei mezzi: sono quelli della cultura della globalizzazione
postmoderna. Si potrebbe forse dire: luoghi di società invivibili a
fronte di spazi di comunità invivibili. Li ha evocati con lucida
anticipazione uno degli eminenti esponenti del pensiero contemporaneo,
nella prospettiva di una ripresa ermeneutica del sapere, H.G. Gadamer:
«K. Jasper, il mio predecessore nella cattedra che tenevo ad Heidelberg,
ha chiamato, già nel 1930, il nostro secolo il secolo della
responsabilità anonima... In verità la questione che ci
dobbiamo porre con tutta serietà è come quelli che sono i beni portanti
della felicità umana possono essere conservati e sviluppati nelle nuove
forme di vita della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze»3.
La responsabilità anonima è parola grave e greve a un tempo, per una
cultura che (non) voglia farsi carico del proprio futuro. Ma lo scenario
postmoderno, pur con le sue molteplici speranze e annunci di futuro,
segna e contrassegna le comunità (locali) del suo pervasivo e
trasversale pensiero. Evocherò, solo per cenni, qualche parola chiave,
tra quelle, a mio parere, più incidenti sul costituirsi (e decostruirsi)
dell’identità personale, alla cui cura, seppure con la coscienza della
sua dimensione parziale e talvolta settoriale, provvedono le
differenziate istituzioni o agenzie educative4.
Parole chiave che segnano altrettante transizioni, sulle quali occorre
che la comunità locale si interroghi, soprattutto laddove pensi di
progettare azioni riferibili al dialogo fra culture.
Il postmoderno si annuncia e si conferma come tempo dell’incredulità nei
confronti delle metanarrazioni. Orfani, dunque, di luoghi condivisi e da
condividere in ordine ai significati del vivere.
Le caratterizzazioni del pensiero e le sue conseguenti transizioni
segnano l’irreversibile(?) passaggio dal pensiero forte (della cultura
premoderna), al pensiero debole (della cultura tardo moderna) al
pensiero unico (del postmoderno), che allude al primato dell’economico e
del finanziario, dove la demodernizzazione separa, ormai
irreversibilmente, il mondo economico dalle relazioni. Così, e
successivamente, si articola il possibile pensiero freddo (Galimberti) o
il pensiero abdicato (DarI-Iendorf) o il pensiero vuoto, ove si consuma
la solitudine del cittadino globale (Bauman)4. Altri hanno tematizzato
il pensiero scomposto, deposto, esposto, frammentato. Ci si domanda,
sempre più frequentemente, se sia possibile riferirsi al pensiero senza
aggettivi, come allude, nel suo ultimo scritto, Gadamer, evocando e
invocando la responsabilità del pensare. Anche la figura della cultura
appare depotenziata, quasi separata e allontanata dal desiderare umano,
che l’ha istituita come luogo alto del suo progetto di futuro e della
sua speranza. La cultura come custodia e annuncio di una vita immaginata
come promessa e come sorpresa: degna e apprezzabile, dunque vivibile. Ma
essa, nel suo differenziato articolarsi (cultura, come fatto umano che
non può essere risolto nella natura; come complesso di forme che assume
il consenso civile; come designazione sintetica delle differenziate
forme della coscienza; come forma del sapere, sotteso al confronto
pubblico e all’immaginario collettivo) è esposta a una possibile
contraddizione: ciò che resta, quando tutto è stato dimenticato
(proverbio giapponese); ciò che si custodisce nell’umano, quando nulla è
stato dimenticato dell’umano (E. Wiesel). La cultura, nel postmoderno,
si articola in differenziate connotazioni problematiche: cultura
minima (Hor Wich), complessa (De Angelis), nomade (Deleuze-Guattari),
plurale (Brena), mitologica (Ipperciel), verificabile
(Ayer), fallibile (Marsonnet), e così via. La comunità locale
rischia la deriva di una cultura dell’effimero; senza pensarsi nel suo
futuro, espone soprattutto il mondo giovanile alla ricerca compulsiva
del proprio piacere o alle forme della pluridimensionale dipendenza per
il suo affermarsi, quasi alla disperata ricerca, di una impossibile
identità.
Altri indicatori potrebbero ricercarsi nelle forme sempre nuove con cui
si decostruiscono le utopie e si consolidano le differenziate
metamorfosi delle atopie (l’essere radicati nell’assenza di luoghi, che
consente di afferrare lo spazio in tutte le sue estensioni; dove il
luogo si fa, appunto, sito). La dialettica del desiderio, quale logica
differenziata dalle forme desuete del bisogno (categoria ancora cara
all’ultima stagione delle ideologie) annuncia interrogativi
significativi in ordine ai percorsi preventivi: dal bisogno come
appagamento al desiderio come riconoscimento; dal bisogno come pretesa
al desiderio come attesa; dal bisogno come richiesta esigente di
prestazione al desiderio come offerta incondizionata di relazione, dal
bisogno come sguardo del passato al desiderio come volto del futuro, dal
bisogno come confine al desiderio come orizzonte. Ma anche il desiderio,
nel suo apparire postmoderno, si espone alle derive del suo possibile
declino: come desiderio mortificato (nella forma del sospetto,
anche quando parla il linguaggio dell’amore), diviso (quando
l’incontro con la diversità si espone al rischio dell’esproprio di sé e
alla minaccia mortale dell’annientamento), irresponsabile (quando
il bene ricercato si scompone nella deriva autoreferenziale
dell’appagamento, mai sazio, dei beni); delirante (nella fonna
onnipotente dell’immortalità clonata dell’anima e del suo doppio, nella
costruzione delle moderne torri di babele, esposte al rischio
distruttivo, non solo dell’11 settembre, e dove, pur parlando la stessa
lingua, non ci si capisce più): ma alla fine ritrovato nelle forme del
riconoscimento e nella convivialità delle differenze, che segnano un
nuovo rapporto (o forse un rapporto nuovo) tra il maschile e il
femminile, nella logica in cui l’aggregazione scopra e avvii a
compimento la relazionalità dell’essere con (rapporto di
genere) e dell’essere per (rapporto di generazione).
Anche la sicurezza conosce stagioni esigenti, perché evoca
l’inquietudine che l’uomo postmodemo vuol mettere e mette nel volto
dell’altro, quasi maschera della propria paura e della propria
incertezza del futuro, quasi dimentico del significato originario della
sicurezza (dal latino securare, prendersi cura di sé). L’altro è
misura e non causa della crisi; un rovesciamento mediatico, alquanto
pericoloso, che fa diventare l’effetto causa, anche quando stigmatizza
le stesse forme di globalizzazione delle povertà.
Molte altre parole potrebbero essere evocate per dire il postmoderno. Ad
esse occorrerà riferirsi per non esporre, come spesso è avvenuto e
ancora avviene, gli interventi preventivi delle comunità locali alla
deriva della retorica e dell’insignificanza educativa. Mi riferisco, e
lo faccio solo in via enumerativa, descrittiva e non ascrittiva alla
complessità, alla frammentazione, alla frammentarietà, alla dilatazione
dei possibili, all’eccedenza delle opportunità, al policentrismo,
soprattutto esistenziale, alla pluralità di appartenenze propiziate
dall’eccedenza policentrica che consolida le “appartenenze con riserva”,
particolarmente incidenti, ad esempio, sulla costruzione e/o
decostruzione dell’identità giovanile. Si dovrebbe altresì fare
riferimento al presentismo, come sorta di calamita che attira a sé il
passato, per neutralizzare la sua forza evocativa, ma che ingloba in sé
anche il futuro, per esorcizzarne la potenzialità incerta e minacciosa;
agli idoli dell’onnipotenza tecnologica, all’enfasi della soggettività,
con il rischio sempre più presente di una sorta di schizofrenia latente
di un duplice vissuto: un sempre più alto grado di autonomia e
responsabilità individuale a fronte di una pericolosa individuale
progressiva solitudine (quella prodotta dall’emarginazione e quella
invocata dalla marginalità, quella conseguente alla povertà dei
sentimenti e dei linguaggi, quella istituita dall’anonimato urbano e,
infine, quella propiziata dal moltiplicarsi dell’insignificanza);
all’eclissi del sacro e del mistero (dove la forza evocativa del simbolo
è sostituita dal ripetersi del mito e dal ricercarsi del rito, quasi
sempre propiziatorio) alle tipologie dell’io minimo, del quarto uomo
(l’uomo che consuma e si consuma), del pensiero debole, corto, unico;
all’ipertrofia dei mezzi e all’atrofia dei fini (non solo ultimi, ma
anche penultimi); alla spettacolarizzazione della vita e alla
conseguente banalizzazione di ogni linguaggio; al riflusso privatistico
e intimistico della coscienza, con la deriva, spesso temibile e
terribile, del deserto emozionale delle situazioni estreme (si pensi al
fenomeno non indifferente dei clochard, che tocca la condizione
giovanile e in essa quella femminile); alla cultura (onnipotente) del
come (si nasce, si vive, si muore), alla cultura depotenziata del
dove e, soprattutto, alla cultura (impotente) del perché;
alla crescita dei “non luoghi”, alla figura condominiale della
convivenza (ove è regolata l’estraneità e non la prossimità; ove l’altro
è alius e non alter; al deperimento delle evidenze etiche;
alla censura, alla rimozione (e alla conseguente messa in clandestinità)
dei vissuti più profondi: la malattia (evento da cui liberarsi, più che
evento da liberare), la sofferenza (scomoda compagna di cui l’uomo
diventa sempre più spettatore silenzioso, inerte e impotente), la
decadenza, non accettata, del diventare vecchi (tempo, questo,
considerato dopo la vita e non tempo della vita), la morte come evento
indicibile, inaudito che porta alle rappresentazioni sempre più
frequenti della morte nella mente dell’altro, perché chi presidia
questa scena già ragiona con le logiche del dopo; l’handicap,
vissuto più come ostacolo, che non come provocazione, più come bisogno
che non come domanda, più come vincolo che non come risorsa. Crescono
dunque i rischi nella società postmoderna: il rischio di un inconscio
passaggio dal mercato dei mezzi di produzione a un mercato dei mezzi di
riproduzione; il rischio dell’esclusione sempre più conclamata del
soggetto dalla carica di senso implicita nei diversi eventi
esistenziali; il rischio di identità sempre più prorogate, quando non
negate o rinnegate; la pretesa di dedurre l’ultimo dal penultimo; la
cultura del “nomadismo intellettuale”; la transizione dall’antropologia
dell’eterno all’antropologia del quotidiano; dall’afasia
dell’immortalità dell’anima all’enfasi dell’immortalità del corpo.
Crescono altresì domande inedite, talvolta inespresse, sconosciute al
lessico dello scenario moderno, che la comunità locale potrà propiziare,
dando ad esse volto, voce e parola, in termini di cittadinanza, nel suo
costituirsi quale community care: il bisogno di identità non più
e non solo relazionali; il desiderio di rivalorizzazione del passato,
come ricerca non archeologica della propria storia; bensì della propria
memoria; il desiderio di valorizzare le proprie radici e di abitare il
proprio nome; la speranza di vivere in profondità il proprio tempo
biografico dentro le scansioni di quello storico, anche se dissonante
dal rigido scadenziario sociale; il bisogno di transizione: dalla parola
alla parabola, quale parola raccontata (di un futuro buono e
sorprendente); la ricerca di parole che tengano compagnia nella vita:
dal benessere al bene, dalla qualità della vita alla vita di qualità; la
coscienza che il passato non accettato non può essere né rifatto né
disfatto; la coscienza che il futuro, non accolto come tempo qualitativo
(il fine) degenera in un tempo meramente quantitativo (la fine).
Ci siamo un poco attardati sullo scenario socioculturale postmoderno,
perché esso segna e disegna le sequenze di un tempo faticoso ed insieme
promettente.
Appare necessario, almeno per chi
scrive, accelerare le transizioni annunciate. Una nuova stagione per una
convivenza civile esige un radicale cambiamento; ricorrendo a
un’immagine, si potrebbe dire: non si può pensare di accelerare
ulteriormente la corsa; occorre cambiare marcia, anche nel pensare le
nostre comunità e il futuro della società; l’alternativa si consuma
nell’insignificanza, nella retorica o, peggio, nel funzionalismo e nel
prestazionismo, sia pure assunti dentro le categorie di un
neoliberalismo culturale. Continua…
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