n. 10
ottobre 2003

 

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Globalizzazione e presenza di diverse culture: arricchimento o contrasto?
di Carlo Maria Mazzanica *

 

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l tema che mi è stato affidato è esigente e vorrei trattarlo non tanto e non solo in riferimento alla o alle diversità culturali, ma andare, almeno un poco, alle radici di ogni relazione con l’altro, dentro il contesto della globalizzazione e della compresenza di differenziate culture. Sono convinto, infatti, che la fatica, la difficoltà, l’aggressività, che spesso si nota nella comunicazione con il diverso, o con i diversi per età, sesso, condizione, salute, pelle, cultura e quant’altro, nascano da una difficile e faticosa accoglienza che ciascuno ha di se stesso, spinti, come siamo, dalla cultura post-moderna, nell’orizzonte talvolta anonimo della globalizzazione selvaggia e del policentrismo culturale ed esistenziale, nella pluralità delle appartenenze (e, dunque, delle appartenenze vissute tutte con riserva), a misurarci su modelli, spesso violentemente impostici da una eccessiva esposizione mediatica: “chi sono io” mi è come detto, sempre e solo da altri.

Dunque, una riflessione che vedrà qualche premessa e cinque momenti di analisi.

Il primo momento vuole fare, sinteticamente, chiarezza sul tema della globalizzazione, per identificarlo, descriverlo e problematizzarlo (forse più che per definirlo).

Il secondo momento vuol fare qualche rapido e sintetico cenno, più suggestivo che non argomentativo, allo scenario del post-moderno, quale luogo propizio per una fenomenologia e un’ermeneutica della globalizzazione.

Il terzo momento allude a ciò che costituisce, come vuole appunto il titolo del nostro tema (arricchimento o contrasto), l’identità: che cosa mi costituisce? che cosa mi fa essere me stesso, oggi? Che cosa mi consegna al mio destino? Che cosa posso condividere, dell’umano, con l’altro, radicalmente diverso dalla mia cultura, dalla mia storia e dalle mie tradizioni?

Il quarto profilo della riflessione riguarda le ragioni della diversità (culturale ed esistenziale) per capire, successivamente, le ragioni delle varie diversità; quasi a dire che la rimozione di quella prima, originaria relazione con l’altro/diverso, sta all’origine di tutte le ulteriori incomprensioni e derive delle relazioni con la diversità.

L’ultimo profilo vuole ricercare qualche percorso e qualche itinerario atto a propiziare condizioni virtuose, affinché questa relazione con l’altro possa essere una preziosa opportunità di crescita, come allude il titolo della presente relazione: lasciando, poi, lo spazio alle risonanze, alle domande, alle comunicazioni, che ogni comunità potrà assumere.

 

Premesse

La prima riflessione vuole ricordarci che un tema come questo evoca uno spazio riflessivo, introspettivo, narrativo, biografico: quasi di silenzio e di meditazione. Evoca l’opportunità di partire da se stessi e, insieme, di uscire un po’ dalla propria terra: «Esci dalla tua terra e vai nella terra che io ti indicherò!». Dove l’immagine della terra da abbandonare è, un poco, il proprio io, il proprio egoismo, il proprio narcisismo infantile, il proprio egocentrismo. Credo anche che sia importante verificare il rischio del subdolo ritorno di molti ideologismi, cadute le grandi narrazioni, di cui le grandi ideologie sono state forse l’epilogo ultimo. Io sono un sostenitore della fine dell’epoca del moderno: dobbiamo coraggiosamente e positivamente entrare in quella stagione che non sappiamo che chiamare “post-moderna” - Quando diciamo “post” è perché non sappiamo bene che cosa sia -. Sappiamo bene, però, che cos’è il “moderno”, il cui capitolo non può che essere chiuso e abbandonato; mentre, mi pare, vi siano tentazioni, o tentativi di resistenza, con forme regressive di “pre” moderno: «Ah, una volta sì che... », ovvero forme apparentemente aperte di “iper” moderno, dove il rapporto con l’altro, anche se ha il colore della pelle diverso, è misurato solo con la logica del mercato, della forza lavoro e dei diritti sempre meno riconosciuti, salvo rifugiarsi dentro la teorizzazione della cittadinanza differenziata e plurima. Il post-moderno segna la fine di questo discorso, riconsegnando l’uomo e la donna completamente a se stessi: noi siamo padroni del nostro destino; tocca a noi decidere del futuro. È finito, ad esempio, il tradizionale rapporto tra natura umana e cultura: l’uomo, oggi, può decidere se essere maschio o femmina, come nascere, come non morire (può anche farsi il proprio doppio quale riserva clonata dei propri organi - e non è solo una fantasia -). Dunque il mio destino è nelle mie mani; questo è vero anche per il credente, il quale usa ed osa dire che il proprio destino è nelle mani di Dio... In tema di libertà, ha questa esigenza: la riconsegna della dimensione della fiducia e della fede e, dunque, della libertà nell’affidarsi a chi, se uno è credente, si ritiene abbia nelle mani il proprio destino, ovverosia a Dio. Se fossimo meccanicisticamente nelle mani di Dio non saremmo neppure liberi. Il post-moderno riconsegna all’umanità se stessa, il proprio futuro e, dunque, la propria libertà; è ora di chiudere la stagione del moderno, quindi, anche per cogliere le sfide e le provocazioni della globalizzazione, fenomeno che appare ormai nella sua ambivalenza e insieme nella sua irreversibilità.

Alla radice dell’esistenza, noi sappiamo, v’è l’altro; senza l’altro si muore. Il cucciolo d’uomo senza la relazione con la propria madre, che accoglie, che valorizza, che offre e garantisce fiducia, che accarezza, che, quindi, rende piacevole ed accettabile questo mondo, non resisterebbe alle intemperie dell’esistenza e perirebbe; sarebbe esposto al rischio di diventare psicotico. I genitori rendono ragione della promessa con la quale e per la quale hanno messo al mondo un figlio: senza questo non v’è speranza, non v’è fiducia, non v’è ragione per vivere; altrimenti, come l’inizio della storia umana ci insegna, nasce il sospetto. Allora, alla radice dell’esistenza vi è l’altro. Quando il bimbo cessa la stagione del “vivere dentro”, nell’utero, nelle braccia, negli affetti della propria madre, quando comincia a uscire da questo utero più grande, che è la sua casa, che è lo spazio familiare, rovescia, se adulto è, se adulto diventa, questa originaria e fondativa relazione. L’adulto è colui il quale non più e non solo vive dentro l’altro, ma incomincia a “far vivere l’altro, o l’altra, dentro di sé”; fa spazio all’altro dentro di sé. L’innamorato fa spazio dentro di sé all’altra e l’innamorata fa spazio dentro di sé all’altro: nei pensieri, negli affetti, nel tempo, nella cultura, nel destino, nel futuro. L’innamoramento e l’amore dicono: “sempre”, come speranza e come promessa, almeno. E, ancora, occorre evocare la coscienza della mia unicità, della mia irripetibilità, della mia indicibilità - non riesco mai a dirmi tutto; ho bisogno di esistenza per dirmi, - della mia irriducibilità - io sono sempre di più rispetto a quello che riesco a capire e a esprimere di me -, questo si chiama libertà. Bene, questa coscienza dell’essere sempre oltre, dell’essere sempre altro, mi apre, appunto, alla promessa che l’altro è sempre un dono. L’altro è, appunto, amico, amore, oggetto del mio amore. Il nemico, il non amico, ci pone un profondo interrogativo: chi è il nemico? lo sono nemico di te, o tu sei nemico di me? Talvolta l’affermazione è vera per ambedue. Ebbene, chi si accoglie, chi raccoglie la sua identità, chi ha fiducia in sé; chi si riconosce non ha alcuno che è nemico, perché il nemico, in quanto mi aggredisce verbalmente, mi offende, al limite anche mi fa del male, non tocca la mia identità. Cos’è l’identità? Lo vedremo tra un momento: io uguale a io, ovverosia io mi accolgo tutto: la mia corporeità, la mia affettività, la mia storia, la mia famiglia; non lascio fuori qualche pezzo di me. I pezzi di me lasciati fuori sono quelli poi che vado a cercare aggressivamente, spesso nell’altro. Allora, la non identità, ovvero sia la non accoglienza di me è spesso all’origine della violenza sull’altro, o della violenza su di me e della dipendenza che io posso vivere nei rapporti con un altro. Voci diverse di questo atteggiamento sono, appunto, la non accoglienza, il razzismo, l’esclusione, la supremazia, i fondamentalismi a sfondo razziale. Quando il problema degli immigrati extracomunitari è ridotto a un problema di ordine pubblico, significa che si è consumata la relazione con l’altro, con il diverso, e si celebra un’identità immatura, prorogata, infantile. Siamo vergognosamente e sbrigativamente capaci di sgomberare le aree dismesse, ma spesso non sappiamo offrire un letto, un tetto, una parola a chi è, oppure si pone, ai margini: senza per questo porre alcun alibi contro le forme o di violenza, o di non controllo, o d’irregolarità. lo credo che la coscienza di un cittadino debba interrogarsi sul fatto di che cosa significa in concreto, oggi e qui, per una persona, non astrattamente assunta, ma concretamente guardata in volto, con il proprio nome, riuscire a congiungere la fame del mattino con quella della sera e con quella del giorno dopo1.

 

1. Globalizzazione e globalizzazioni

Appare ormai fin eccedente e al limite della retorica la letteratura sulla globalizzazione. Sembra peraltro utile precisarne confini e contenuti: giova, forse e preliminarmente, distinguere tra globalizzazione, internazionalizzazione e mondializzazione.

L’internazionalizzazione fa riferimento al carattere dei rapporti economici, politici, giuridici e culturali che una comunità o uno Stato stabiliscono con altri: mercantili (di merci), produttivi (investimenti all’estero), finanziari (movimenti di capitali), tecnologici (trasferimento di tecnologie), culturale (rapporti culturali), movimenti di persone (migrazioni).

La mondializzazione fa riferimento al complesso di problemi i cui effetti si manifestano a livello mondiale e le cui soluzioni sono possibili solo a livello mondiale attraverso la creazione di organismi internazionali e la cooperazione tra Stati nazionali (attiene il problema, ad esempio, dell’acqua, del clima, dell’ambiente, dell’energia delle migrazioni, delle malattie endemiche ed epidemiche ecc.).

La globalizzazione si riferisce alle nuove forme assunte nel mondo dal processo di accumulazione di capitale, per controllare mercato e risorse a disposizione e per ottenere profitti su scala mondiale. Resta dunque aperto il problema del rapporto con le differenziate culture; sotto questo profilo le tre dimensioni citate sono interpellate in eguale misura. Sinteticamente si possono evocare, da una parte, gli elementi costitutivi e i problemi sottesi al fenomeno della globalizzazione. Contribuiscono - sono gli elementi costitutivi - a definire la globalizzazione (a) la formazione di un mercato finanziario globale; (b) il potere della conoscenza e dell’uso dell’innovazione tecnologica; (c) la competitività dell’iperconcorrenza (definita in termini di liberalizzazione, privatizzazione e deregulation); (d) la perdita di rilevanza degli Stati nazionali; (e) la formazione di una cultura puramente globale. I problemi sottesi sono riferibili a: l) iperconsumismo delle società occidentali; 2) incontrollato potere delle multinazionali nelle fulminee transazioni finanziarie per via telematica; 3) perduta protezione dell’agricoltura delle maggiori economie, attraverso alti dazi che ostacolano le importazioni dalle società preindustriali; 4) le incognite o i segreti delle biotecnologie indirizzate al massimo profitto; 5) il mancato accordo internazionale sull’effettiva riduzione dell’inquinamento da gas serra; 6) la cattiva gestione delle risorse idriche.

Sono molte le domande, indotte dalla costitutività e dalla problematicità della globalizzazione. Che fare?

Si articolano e si strutturano atteggiamenti differenziati: rassegnazione sconsolata, esaltazione incondizionata; paura e angoscia deprimente e/o depressiva, attendismo escatologista o utopico.

Per non attardarci in un’analisi che porterebbe il discorso troppo lontano dall’economia del presente contributo, vorrei sintetizzare (rinviando ciò a studi più specifici) qualche possibilità, per opporsi alla cosiddetta società globalizzata del “2080” e suggerire qualche indicazione progettuale per stare dentro la globalizzazione nel rispetto delle differenziate culture.

Le possibilità sembrano riferirsi a: un’Unione europea democratica e capace di agire; un rafforzamento e una europeizzazione della società civile; un’unione monetaria europea allargata e consolidata; leggi europee anche sulla tassazione; introduzione di una tassa sui redditi provenienti dal commercio di valute (Tobin-tax?) e sui mutui in valuta europea concessi a banche extraeuropee; standard minimi ecologici e sociali per il commercio mondiale; una riforma fiscale ecologica su scala europea; l’introduzione di una tassa europea sui beni di lusso; la costituzione di sindacati europei, la fine della deregolamentazione senza garanzie sociali.

Le indicazioni progettuali: non separare due diritti indivisibili e interdipendenti: pace e sviluppo integrale e solidale; far maturare un’autentica cultura della solidarietà (globalizzare la solidarietà); ruolo fondamentale dell’educazione (cfr. banche etiche e commercio equosolidale); necessità del rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali; ripensare all’idea di nazione; superamento della sovranità assoluta degli Stati; creare “la famiglia delle nazioni”; disarmare gli animi, armare la ragione (la forza della ragione e non le ragioni della forza); assumere e gestire le sfide dell’unificazione, della multiculturalità e della globalizzazione della solidarietà; riconsiderare i valori della cultura religiosa per lo sviluppo2.

Il profilo della riflessione culturale si allarga alle differenziate componenti delle transizioni, nell’orizzonte del fenomeno dell’immigrazione: dalla multicultura e dell’intercultura alla pluricultura.

Il fenomeno dell’immigrazione non può essere riassunto in poche battute. Esso esige la multidimensionalità dell’approccio, in quanto sono molteplici le problematiche sottese. Si evocano qui solo le caratterizzazioni più evidenti, anche per istruire, almeno nei termini essenziali, l’approccio antropologico e istituzionale al problema, che appare complesso e sottoposto (forse più di ogni altro problema del postmoderno) alle identificazioni e alle proiezioni dell’immaginario collettivo e al conflitto ideologico della parti: mantenimento della propria identità culturale, apertura al confronto con altri, rispetto delle regole e promozione dei valori, ecc. Si accenna, dunque, al profilo essenziale del problema, che appare segnato, nel terzo millennio, da un’ineludibile espansione dovuta a molteplici ragioni, che non è facile qui riassumere, seppur sinteticamente: la globalizzazione delle conoscenze e del mercato; la disparità dei livelli di benessere; il divario tra Paesi e la conseguente forbice allargata delle povertà; il policentrismo culturale e la relativizzazione delle prospettive etiche; la frammentazione e la frammentarietà degli stili di vita e le molteplici appartenenze.

Un primo gruppo di questioni afferisce alla prospettiva culturale: l’ingresso di extracomunitari, in Italia e negli altri Paesi dell’Europa, pone la questione multiculturale. Ed è certamente la prima modalità di assumere il problema: le molte culture devono essere conosciute, e riconosciute, nella loro peculiarità e nelle rispettive diffèrenze. Ma porre accanto le molteplici culture può favorire la conoscenza e insieme, nel togliere le differenze, aprire al confronto. La sottolineatura delle differenze e delle alterità propizia le chiusure e le distanze. Occorre, dunque, fare il passaggio dalla prospettiva multiculturale alla prospettiva interculturale: dal confronto al riconoscimento, dalla conoscenza alla mediazione. Ma non appare sufficiente; potrà favorire la convivialità delle differenze solo l’incontro, l’ascolto, il confronto; e, dunque, il passaggio dalla prospettiva interculturale alla prospettiva pluriculturale. Si vuole, dunque, sottolineare come la relazionalità dell’ascolto, della comprensione può favorire un’autentica convivialità. Essendo l’umano, in qualche modo indicibile, esso viene “raccontato” attraverso il costituirsi delle culture, degli stili di vita: nulla può essere perso di ciò che fa la storia dell’umano: ma non solo e non tanto per uno scambio “culturale” (o testuale), quanto per un “incontro”, che si fa relazione: la relazionalità della e nella reciprocità costituisce e costruisce pluricultura. Appaiono qui i molti volti degli itinerari della comunità locale, regionale e nazionale: in termini non solo di prima o seconda accoglienza, quanto in termini educativi, di composizione e ricomposizione dei contesti familiari, di valorizzazione delle rispettive prospettive religiose; condizioni propizie per l’accoglienza sono il riconoscimento delle leggi e delle norme del Paese che accoglie: indubitabilmente le regole della convivenza debbono essere rigorosamente esigite: per tutti, senza demonizzazioni, senza esorcizzazioni; ma anche senza precomprensioni, pregiudizi e preconcetti: è la difficile storia anche delle legislazioni che hanno accompagnato le vicende italiane di questi anni.

Un secondo gruppo di questioni attiene la politica dei diritti di cittadinanza e l’accoglienza dell’immigrato extracomunitario. Approfondire la questione, indubbiamente complessa e dalle molte facce, giova a cogliere le differenziate scansioni dell’acquisizione dei diritti di cittadinanza tra i cittadini italiani e gli immigrati extracomunitari. Il processo, evocando la classificazione di Marshall, appare di segno opposto: dai diritti civili e politici ai diritti sociali, per gli italiani. Dai diritti sociali ai diritti civili e politici, per gli immigrati extracomunitari, per i quali si tratta, dunque, di una cittadinanza debole (lungo, temporalmente, è l’itinerario della cittadinanza per l’immigrato), con il rischio di uno status debole e, dunque, esposto alla fragilità delle responsabilità, sia civili sia politiche.

Un terzo gruppo di problemi è legato alle differenze religiose e alla difficile composizione di fedi molto diverse, con acquisizioni molto eterogenee, in ordine, ad esempio, all’accettazione della modernità, alla laicità dello Stato, al superamento dei differenti fondamentalismi, che possono rendere difficoltosa e problematica la convivenza civile. Si tratta di un cammino lento e paziente, che mette conto di accogliere molte differenze, coniugando rispetto e promozione della propria identità e rispetto e promozione delle fedi altrui, soprattutto in assenza di un ethos condiviso, anche a livello dei principi minimi e fondamentali della convivenza civile: si pensi, ad esempio, alla diversa accezione e alla pluriforme concezione della famiglia. Il rischio di un sincretismo più o meno tollerante, all’insegna di un’indifferenza e di una neutralità delle differenziate comprensioni esistenziali, non appare certo troppo lontano e non mai sufficientemente esorcizzato. Una pluralità di appartenenze, che se non è sufficientemente interiorizzata, a partire dalla propria identità, rischia di corrodere i legami deboli dell’attuale contesto civile.

Sarebbe interessante approfondire il problema delle provenienze territoriali degli immigrati; come occorrerebbe, altresì, valutare le ragioni delle migrazioni anche contemporanee: le povertà umane e le povertà da reddito sono certamente le cause più plausibili di un’esasperata ricerca di guadagno, per uno sperato e migliore benessere per sé e per la propria famiglia. Si rinvia, per tutto questo aspetto, ai Dossier della Caritas di Roma, puntualmente predisposti ogni anno.

Un ultimo problema, ormai sin troppo evidenziato, è quello della devianza e della criminalità degli immigrati. I dati sono ormai molto noti. Si conoscono le etnie dove la criminalità si inserisce in un perverso gioco di criminalità organizzata. Credo non si debba enfatizzare il rischio, anche se esistono problemi oggettivi, soprattutto per la condizione degli immigrati clandestini.

Un discorso a parte deve essere fatto per i rifugiati. Anche solo per offrire un’immagine del fenomeno basterà ricordare come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati si è occupato, al 1 gennaio 2000, di 22.257.340 persone: di questi, il 52,4% sono rifugiati; il 5,3% sono persone richiedenti asilo; 1’11,2% sono rifugiati assistiti nel rientro nei Paesi d’origine, essendo venute meno le condizioni di pericolo; il 17,8% sono sfollati all’interno del proprio Paese (la cifra rappresenta solo una piccola parte degli sfollati); il 6,4% sono sfollati che hanno ricevuto assistenza per rientrare nelle proprio abitazioni, il 6,6% sono altre persone, assistite a vario titolo. All’inizio del 2001 il numero complessivo delle persone di competenza dell’ INHCR era di 21,l milioni di persone. Nel mondo una persona su 284 è stata costretta a lasciare la propria abitazione a causa di guerre e di persecuzioni. La cifra del 2001 diminuisce di l,l milione (-5,5%) rispetto al 2000.

Ma forse l’analisi delle differenziate ragioni culturali esige di tornare a pensare alle ragioni dello scenario socioculturale postmoderno, che è insieme causa ed esito di tale processo.

 

2. Lo scenario socioculturale postmoderno:
    la presenza di diverse culture

Ogni comunità, soprattutto la comunità locale, segna caratteristiche strutturali, funzionali e istituzionali nell’orizzonte del tempo che la significa e indica sempre luoghi di appartenenza (e di conflittualità, quando non di estraneità), di vivibilità (e talvolta di abbandono e di degrado): sono quelli che appartengono alla “cultura organica” delle cosiddette società stanziali. Non luoghi, assenza di relazioni, mobilità di linguaggi, smemoramento degli stili di vita, atrofia dei fini nella ipertrofia dei mezzi: sono quelli della cultura della globalizzazione postmoderna. Si potrebbe forse dire: luoghi di società invivibili a fronte di spazi di comunità invivibili. Li ha evocati con lucida anticipazione uno degli eminenti esponenti del pensiero contemporaneo, nella prospettiva di una ripresa ermeneutica del sapere, H.G. Gadamer: «K. Jasper, il mio predecessore nella cattedra che tenevo ad Heidelberg, ha chiamato, già nel 1930, il nostro secolo il secolo della responsabilità anonima... In verità la questione che ci dobbiamo porre con tutta serietà è come quelli che sono i beni portanti della felicità umana possono essere conservati e sviluppati nelle nuove forme di vita della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze»3.

La responsabilità anonima è parola grave e greve a un tempo, per una cultura che (non) voglia farsi carico del proprio futuro. Ma lo scenario postmoderno, pur con le sue molteplici speranze e annunci di futuro, segna e contrassegna le comunità (locali) del suo pervasivo e trasversale pensiero. Evocherò, solo per cenni, qualche parola chiave, tra quelle, a mio parere, più incidenti sul costituirsi (e decostruirsi) dell’identità personale, alla cui cura, seppure con la coscienza della sua dimensione parziale e talvolta settoriale, provvedono le differenziate istituzioni o agenzie educative4. Parole chiave che segnano altrettante transizioni, sulle quali occorre che la comunità locale si interroghi, soprattutto laddove pensi di progettare azioni riferibili al dialogo fra culture.

Il postmoderno si annuncia e si conferma come tempo dell’incredulità nei confronti delle metanarrazioni. Orfani, dunque, di luoghi condivisi e da condividere in ordine ai significati del vivere.

Le caratterizzazioni del pensiero e le sue conseguenti transizioni segnano l’irreversibile(?) passaggio dal pensiero forte (della cultura premoderna), al pensiero debole (della cultura tardo moderna) al pensiero unico (del postmoderno), che allude al primato dell’economico e del finanziario, dove la demodernizzazione separa, ormai irreversibilmente, il mondo economico dalle relazioni. Così, e successivamente, si articola il possibile pensiero freddo (Galimberti) o il pensiero abdicato (DarI-Iendorf) o il pensiero vuoto, ove si consuma la solitudine del cittadino globale (Bauman)4. Altri hanno tematizzato il pensiero scomposto, deposto, esposto, frammentato. Ci si domanda, sempre più frequentemente, se sia possibile riferirsi al pensiero senza aggettivi, come allude, nel suo ultimo scritto, Gadamer, evocando e invocando la responsabilità del pensare. Anche la figura della cultura appare depotenziata, quasi separata e allontanata dal desiderare umano, che l’ha istituita come luogo alto del suo progetto di futuro e della sua speranza. La cultura come custodia e annuncio di una vita immaginata come promessa e come sorpresa: degna e apprezzabile, dunque vivibile. Ma essa, nel suo differenziato articolarsi (cultura, come fatto umano che non può essere risolto nella natura; come complesso di forme che assume il consenso civile; come designazione sintetica delle differenziate forme della coscienza; come forma del sapere, sotteso al confronto pubblico e all’immaginario collettivo) è esposta a una possibile contraddizione: ciò che resta, quando tutto è stato dimenticato (proverbio giapponese); ciò che si custodisce nell’umano, quando nulla è stato dimenticato dell’umano (E. Wiesel). La cultura, nel postmoderno, si articola in differenziate connotazioni problematiche: cultura minima (Hor Wich), complessa (De Angelis), nomade (Deleuze-Guattari), plurale (Brena), mitologica (Ipperciel), verificabile (Ayer), fallibile (Marsonnet), e così via. La comunità locale rischia la deriva di una cultura dell’effimero; senza pensarsi nel suo futuro, espone soprattutto il mondo giovanile alla ricerca compulsiva del proprio piacere o alle forme della pluridimensionale dipendenza per il suo affermarsi, quasi alla disperata ricerca, di una impossibile identità.

Altri indicatori potrebbero ricercarsi nelle forme sempre nuove con cui si decostruiscono le utopie e si consolidano le differenziate metamorfosi delle atopie (l’essere radicati nell’assenza di luoghi, che consente di afferrare lo spazio in tutte le sue estensioni; dove il luogo si fa, appunto, sito). La dialettica del desiderio, quale logica differenziata dalle forme desuete del bisogno (categoria ancora cara all’ultima stagione delle ideologie) annuncia interrogativi significativi in ordine ai percorsi preventivi: dal bisogno come appagamento al desiderio come riconoscimento; dal bisogno come pretesa al desiderio come attesa; dal bisogno come richiesta esigente di prestazione al desiderio come offerta incondizionata di relazione, dal bisogno come sguardo del passato al desiderio come volto del futuro, dal bisogno come confine al desiderio come orizzonte. Ma anche il desiderio, nel suo apparire postmoderno, si espone alle derive del suo possibile declino: come desiderio mortificato (nella forma del sospetto, anche quando parla il linguaggio dell’amore), diviso (quando l’incontro con la diversità si espone al rischio dell’esproprio di sé e alla minaccia mortale dell’annientamento), irresponsabile (quando il bene ricercato si scompone nella deriva autoreferenziale dell’appagamento, mai sazio, dei beni); delirante (nella fonna onnipotente dell’immortalità clonata dell’anima e del suo doppio, nella costruzione delle moderne torri di babele, esposte al rischio distruttivo, non solo dell’11 settembre, e dove, pur parlando la stessa lingua, non ci si capisce più): ma alla fine ritrovato nelle forme del riconoscimento e nella convivialità delle differenze, che segnano un nuovo rapporto (o forse un rapporto nuovo) tra il maschile e il femminile, nella logica in cui l’aggregazione scopra e avvii a compimento la relazionalità dell’essere con (rapporto di genere) e dell’essere per (rapporto di generazione).

Anche la sicurezza conosce stagioni esigenti, perché evoca l’inquietudine che l’uomo postmodemo vuol mettere e mette nel volto dell’altro, quasi maschera della propria paura e della propria incertezza del futuro, quasi dimentico del significato originario della sicurezza (dal latino securare, prendersi cura di sé). L’altro è misura e non causa della crisi; un rovesciamento mediatico, alquanto pericoloso, che fa diventare l’effetto causa, anche quando stigmatizza le stesse forme di globalizzazione delle povertà.

Molte altre parole potrebbero essere evocate per dire il postmoderno. Ad esse occorrerà riferirsi per non esporre, come spesso è avvenuto e ancora avviene, gli interventi preventivi delle comunità locali alla deriva della retorica e dell’insignificanza educativa. Mi riferisco, e lo faccio solo in via enumerativa, descrittiva e non ascrittiva alla complessità, alla frammentazione, alla frammentarietà, alla dilatazione dei possibili, all’eccedenza delle opportunità, al policentrismo, soprattutto esistenziale, alla pluralità di appartenenze propiziate dall’eccedenza policentrica che consolida le “appartenenze con riserva”, particolarmente incidenti, ad esempio, sulla costruzione e/o decostruzione dell’identità giovanile. Si dovrebbe altresì fare riferimento al presentismo, come sorta di calamita che attira a sé il passato, per neutralizzare la sua forza evocativa, ma che ingloba in sé anche il futuro, per esorcizzarne la potenzialità incerta e minacciosa; agli idoli dell’onnipotenza tecnologica, all’enfasi della soggettività, con il rischio sempre più presente di una sorta di schizofrenia latente di un duplice vissuto: un sempre più alto grado di autonomia e responsabilità individuale a fronte di una pericolosa individuale progressiva solitudine (quella prodotta dall’emarginazione e quella invocata dalla marginalità, quella conseguente alla povertà dei sentimenti e dei linguaggi, quella istituita dall’anonimato urbano e, infine, quella propiziata dal moltiplicarsi dell’insignificanza); all’eclissi del sacro e del mistero (dove la forza evocativa del simbolo è sostituita dal ripetersi del mito e dal ricercarsi del rito, quasi sempre propiziatorio) alle tipologie dell’io minimo, del quarto uomo (l’uomo che consuma e si consuma), del pensiero debole, corto, unico; all’ipertrofia dei mezzi e all’atrofia dei fini (non solo ultimi, ma anche penultimi); alla spettacolarizzazione della vita e alla conseguente banalizzazione di ogni linguaggio; al riflusso privatistico e intimistico della coscienza, con la deriva, spesso temibile e terribile, del deserto emozionale delle situazioni estreme (si pensi al fenomeno non indifferente dei clochard, che tocca la condizione giovanile e in essa quella femminile); alla cultura (onnipotente) del come (si nasce, si vive, si muore), alla cultura depotenziata del dove e, soprattutto, alla cultura (impotente) del perché; alla crescita dei “non luoghi”, alla figura condominiale della convivenza (ove è regolata l’estraneità e non la prossimità; ove l’altro è alius e non alter; al deperimento delle evidenze etiche; alla censura, alla rimozione (e alla conseguente messa in clandestinità) dei vissuti più profondi: la malattia (evento da cui liberarsi, più che evento da liberare), la sofferenza (scomoda compagna di cui l’uomo diventa sempre più spettatore silenzioso, inerte e impotente), la decadenza, non accettata, del diventare vecchi (tempo, questo, considerato dopo la vita e non tempo della vita), la morte come evento indicibile, inaudito che porta alle rappresentazioni sempre più frequenti della morte nella mente dell’altro, perché chi presidia questa scena già ragiona con le logiche del dopo; l’handicap, vissuto più come ostacolo, che non come provocazione, più come bisogno che non come domanda, più come vincolo che non come risorsa. Crescono dunque i rischi nella società postmoderna: il rischio di un inconscio passaggio dal mercato dei mezzi di produzione a un mercato dei mezzi di riproduzione; il rischio dell’esclusione sempre più conclamata del soggetto dalla carica di senso implicita nei diversi eventi esistenziali; il rischio di identità sempre più prorogate, quando non negate o rinnegate; la pretesa di dedurre l’ultimo dal penultimo; la cultura del “nomadismo intellettuale”; la transizione dall’antropologia dell’eterno all’antropologia del quotidiano; dall’afasia dell’immortalità dell’anima all’enfasi dell’immortalità del corpo.

Crescono altresì domande inedite, talvolta inespresse, sconosciute al lessico dello scenario moderno, che la comunità locale potrà propiziare, dando ad esse volto, voce e parola, in termini di cittadinanza, nel suo costituirsi quale community care: il bisogno di identità non più e non solo relazionali; il desiderio di rivalorizzazione del passato, come ricerca non archeologica della propria storia; bensì della propria memoria; il desiderio di valorizzare le proprie radici e di abitare il proprio nome; la speranza di vivere in profondità il proprio tempo biografico dentro le scansioni di quello storico, anche se dissonante dal rigido scadenziario sociale; il bisogno di transizione: dalla parola alla parabola, quale parola raccontata (di un futuro buono e sorprendente); la ricerca di parole che tengano compagnia nella vita: dal benessere al bene, dalla qualità della vita alla vita di qualità; la coscienza che il passato non accettato non può essere né rifatto né disfatto; la coscienza che il futuro, non accolto come tempo qualitativo (il fine) degenera in un tempo meramente quantitativo (la fine).

Ci siamo un poco attardati sullo scenario socioculturale postmoderno, perché esso segna e disegna le sequenze di un tempo faticoso ed insieme promettente.

Appare necessario, almeno per chi scrive, accelerare le transizioni annunciate. Una nuova stagione per una convivenza civile esige un radicale cambiamento; ricorrendo a un’immagine, si potrebbe dire: non si può pensare di accelerare ulteriormente la corsa; occorre cambiare marcia, anche nel pensare le nostre comunità e il futuro della società; l’alternativa si consuma nell’insignificanza, nella retorica o, peggio, nel funzionalismo e nel prestazionismo, sia pure assunti dentro le categorie di un neoliberalismo culturale.  Continua…

   

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