n. 11
novembre 2003

 

Altri articoli disponibili

In cammino sorretti da una spiritualità profetica, contemplativa e missionaria
di Felice Tenero *

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Spiritualità non è un concetto che si può definire a parole, ma qualcosa che vive, che è vissuto e che fa vivere. E’ lo spirito della vita che anima e che dà un’anima al nostro essere e al nostro agire. Bisogna fare attenzione a non ridurla a parole perché si rischierebbe di imprigionarla in un concetto.

Le nostre spiritualità sono come un campo: piene di fiori, di piante, di alberi e di erbe.

La spiritualità di ciascuno e ciascuna di noi ha una sua forma, sue radici, una sua “casa”, una sua bellezza. Alcune sono estremamente visibili, pronunciate, ricche in colori vivi ed aperte.

Altre sono più piccole, più austere, meno colorate ma altrettanto belle e preziose nella loro modestia.

Questa ricchezza spirituale, per un cristiano, si nutre e si esprime attraverso un riferimento costante al Vangelo e alla persona del Cristo risuscitato, che dà alla spiritualità una direzione definitiva: l’Amore.

 

Vivere la spiritualità
è soprattutto ESSERCI.

Esserci in tutta pienezza, esserci con la coscienza di sé nel campicello che occupa il mio fiore, la mia pianta, il mio albero o il mio filo d’erba.

Esserci nel grande campo del mondo senza fine, perché l’orizzonte si allontana sempre più quando si avvicina.

 

Vivere la spiritualità
è saper SENTIRE e STUPIRSI.

Sentire la presenza delle mie radici attraverso le quali inspiro l’alito di Dio, è il miracolo di essere vigili e attenti;

sentire la forza della vita in me, che si muove al di là di me stesso, che mi spinge all’azione e che mi dà coscienza del mio posto nell’universo.

Sentire di essere presenti, coscienti di questa forza che rende possibile il gettare un ponte tra me e gli altri, tra me e la natura, tra me e l’invisibile, con la forza divina che qui è chiamata Dio-Iahwè, e là Rahaman, Allah, Creatore, Pachamama; o che è troppo divina per avere un nome a parole ma che dovunque è presente in me, in te, in tutto ciò che vive.

 

Vivere la spiritualità
è AFFRONTARE con coraggio le fatiche della vita.

Nel grande campo del mondo non sempre regna la pace, la giustizia, l’uguaglianza e la solidarietà.

Questo campo non è un giardino dell’Eden prima della caduta, in esso esistono rapporti di forza e di conflitto; ma è nella maniera di risolvere i conflitti che si può vivere la spiritualità. Perché questa, grazie al conflitto, può riunire e ristabilire la relazione e l’incontro.

Nel campo della vita c’è anche la morte dei fiori e delle piante, a volte imposta con violenza.

Ma la forza divina che sentiamo in noi stessi, tra noi e gli altri, nella natura e nella storia, ci rende coscienti che la vita è più forte della morte e che c’è speranza anche in situazioni disperate.

 

Vivere la spiritualità
è stare in AZIONE.

Il potere del sistema economico mondiale deve essere confrontato con la forza interiore.

Noi non possiamo distruggere il sistema ma possiamo combattere lo spirito dei sistema e confrontarlo con lo Spirito di vita.

Il sorgere di comunità animate dalla forza dello Spirito di vita è un atto di sovversione del sistema di distruzione e di morte.

 

«Non c’è cammino verso la spiritualità.
La spiritualità è il cammino
» (Gandhi)

 

1 - Una spiritualità profetica

Spiritualità è anima e soffio che vivifica il cammino, è vento che fa danzare la vita, è fuoco che riscalda il cuore. Spiritualità, per ogni cristiano, è seguire Gesù Cristo.

Come seguire Gesù in una società imbevuta sempre più di consumismo, dove ognuno, spinto in una corsa sfrenata per rimanere al passo, si trova avvinto in una pesante e triste solitudine?

Come seguire Gesù in un mondo segnato dalla terribile ingiustizia che chiamiamo “divario Nord-Sud” e che conduce molti popoli a una morte ingiusta e prematura?

Come essere protagonisti, piccoli costruttori di vita, godendo di ciò che si ha ed accogliendo la bellezza del vivere?

Come far sì che la nostra visione di fede si esprima in atteggiamenti di gioia, di serenità, di condivisione, scoprendo insieme un Dio che ci ama e ci tiene fra le sue braccia materne?

Non sono più sufficienti le risposte del catechismo o i trattati di teologia. Occorre avere il coraggio di inventare e costruire progetti nuovi, mettersi in strada e camminare. Quando i nostri progetti vanno in fumo, quando la realtà fa esplodere i nostri schemi, è allora che siamo spinti a cercare soluzioni diverse e aprirci a nuove speranze.

E’ lo Spirito del Risorto che ci interroga , ci stimola e ci anima! E’ la Parola di Dio che ci accompagna e ci illumina. E noi ci mettiamo in cammino sulle orme di Gesù.

Seguire Gesù esige, oggi più che mai, una “incarnazione” nel mondo. Un mettersi dalla parte degli oppressi, un essere con loro, vivere con loro, sentirsi vicino a loro e impegnarsi con loro per una liberazione integrale, soprattutto oggi che l’apatia e l’indifferenza, la stanchezza e la sfiducia sembrano vincere. Oggi, che l’immutabilità della società e il successo delle leggi di mercato sono affermate come dogmi infallibili e la globalizzazione dell’economia sembra generare facili entusiasmi, diviene quanto mai necessario denunciare con chiarezza l’immoralità di un sistema che produce ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri (Paolo VI), e testimoniare uno stile di vita sempre più fraterno e umano. I profeti biblici ci aiutano a coltivare una spiritualità dell’indignazione di fronte all’ingiustizia e all’indifferenza.

In Amos 2,6-8, il profeta denuncia una serie di situazioni oppressive presenti nella società del suo tempo. Ciò mostra che già a quell’epoca la gente si riuniva per raccontare e registrare le proprie esperienze di oppressione, con lo scopo di chiedere giustizia. In seguito, Amos ricorda i benefici che Iahvè elargì al suo popolo (vv 2,9-11) ricevendone in cambio un comportamento insensato da parte dei “figli di Israele” (v 12). Infine egli colloca la minaccia che Dio prepara per il popolo (vv 13-16). In questo testo il profeta parla in nome di Dio e in nome degli oppressi; egli è un uomo donato alla causa della giustizia, sostenuto dallo zelo per l’Alleanza. Questa è la sua spiritualità.

- Gesù stesso ha vissuto profondamente l’esperienza della spiritualità dell’indignazione. Egli non poté sopportare l’ipocrisia dei potenti che esigevano dalla gente il pieno compimento delle minuzie della legge, mentre loro stessi vivevano infrangendo i comandamenti fondamentali (cfr. Mt 23,13-36 e 25,31-46).

In Elia incontriamo un profeta che vive in un tempo di conflitti e pericoli di estinzione degli ideali egualitari del suo popolo (vedi il ciclo di Elia: 1 Re, capitoli 17-19 e 21).

- Elia è l'uomo che incarna profondamente questa crisi. Di fronte a tale situazione degradante di oppressioni, ingiustizie, perdita di valori ed indifferenza, il profeta prende il cammino del deserto ( 1Re 19,4). Ora il deserto è il luogo delle origini del popolo, del ritorno alle fonti, lo spazio dove si recupera la memoria e l’identità… È il luogo delle lamentele, della tentazione e delle cadute, ma anche dell’innamoramento e del fidanzamento, dell’esperienza di Dio e della preghiera. Il deserto è pure, lo spazio dei marginalizzati, degli esclusi, dei più poveri ed abbandonati dalla società; è il luogo della spoliazione, dell’essenzialità, della vita semplice. Elia quando cerca rifugio, cerca questo luogo!

- L’incontro intimo con Dio sul monte Horeb (1Re 19,9-18), ci svela la meraviglia del profeta. La sua immagine di Dio era superata: nel silenzio e nella preghiera egli incontra non un dio “onnipotente”, fautore di grandi prodigi, (vento impetuoso, terremoto, fuoco), ma un Dio dal soffio leggero come un “mormorio di vento soave” (Re 19,12). Un Dio presente nell’assenza e nel silenzio.

Nell’esperienza della spiritualità profetica dobbiamo confrontarci con i profondi cambiamenti di una realtà che si fa beffe di noi e non cammina più secondo i nostri progetti (cfr. Ger. 20,7). Così anche la nostra immagine di Dio si frantuma e svanisce. Per ricostruirla e sentirci in sintonia occorre cambiare la nostra relazione con Lui. Solo in questo modo riusciamo a scoprire che Dio è sia vicino e intimo, sia totalmente libero e indipendente.

Su queste strade, la spiritualità profetica si incontra con la spiritualità contemplativa; e le due si compenetrano e si arricchiscono a vicenda.

 

2 - Una spiritualità contemplativa

Il seguire Gesù nella quotidianità dell’incarnazione e nella ferma decisione di sposare la causa degli oppressi e il loro impegno per la giustizia, porta con sé una inevitabile dose di conflitto e di tensioni. Ci fa piccoli crocifissi accanto al Grande Crocifisso e ai mille crocifissi dello storia; ci fa uomini e donne capaci di stare in piedi nella fatica e nel dolore, testimoni instancabili di vita. Su questa strada il nostro spirito deve essere sostenuto, generato e nutrito da un forte e instancabile atteggiamento di contemplazione.

La parola contemplazione, per molte persone, evoca fuga, alienazione o passività. Ora, nel suo senso vero, contemplazione è l’atteggiamento di chi vive ogni momento con intensità. Contemplazione è, secondo il biblista brasiliano Carlos Mesters, «l’atteggiamento di chi si immerge negli avvenimenti per scoprire e assaporare in essi la presenza attiva e creativa del Signore e, inoltre, cerca di coinvolgersi nel processo di trasformazione che la Parola di Dio sta realizzando dentro la storia».

Nella Bibbia, la contemplazione si manifesta, ora legata alla natura e all’armonia dell’universo, ora immersa nel silenzio e nel mistero; sia nella “kenosis”(svuotamento) e sia nella “gratuità” immensa di Dio. La contemplazione è l’attitudine del saggio, che possiede una lunga esperienza di vita: è il vivere con Sapienza.

La Sapienza biblica nasce dalle cose semplici della casa, della vita con i figli, della quotidianità. Esprime le lotte, le speranze e le stanchezze che segnano il cammino dell’uomo, della donna e della società. Supera questa dimensione primaria del vivere e si apre alla speranza, all’alterità e alla idealità che persistono nonostante tutte le fatiche; e così: poesia, saggezza, sogno, coraggio, fortezza e ambivalenze si mescolano in quello che la gente vive e crede.

Grazie alla contemplazione si attinge un nuovo sguardo sul mondo e sulla vita. In questi momenti è bello fermarsi ed estendere il nostro sguardo verso e oltre l’orizzonte. È come se toccassimo il mistero di Dio.

Diremo come Giobbe:

«Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5).

O esclameremo come Agar:

«Ho veramente visto colui che mi vede?
E diede al Signore che le aveva parlato questo nome:
Tu sei il Dio che mi vede» (Gen 16,13).

La nostra spiritualità deve essere sostenuta, generata e nutrita da un forte e instancabile atteggiamento sapienziale e di contemplazione. Il Dio di Gesù che esige giustizia è anche il Dio gratuito che irrompe come dono nelle nostre vite. E’ la gratuità che viene e domanda attenzione, ringraziamento, speranza, cuore aperto e disponibile.

La speranza genera una costante fedeltà al progetto di Dio e agli esclusi della storia, affonda le proprie radici nella possibilità del nuovo che libera e divinizza. La speranza crede profondamente in Gesù Cristo Risorto che abita e vive in mezzo a noi. Egli è il Signore della storia, capace di abbattere gli idoli che ci incatenano, e di spezzare gli egoismi che ci deformano. Ci salva e ci rende persone dal cuore umile, disposte ad accogliere e diffondere il fuoco dell’Amore, ci plasma uomini e donne dallo sguardo universale, sorretti e animati da una profonda spiritualità missionaria.

 

3 - Una spiritualità missionaria

E’ facile constatare che le nostre chiese lentamente si stanno svuotando, e la pratica dei sacramenti diminuisce a vista d’occhio. La proposta cristiana ed il Vangelo sembrano aver poca presa sulle nuove generazioni, e le nostre comunità cristiane incontrano mille difficoltà nel trasmettere la fede alle nuove generazioni. Una domanda fa capolino e si annida nelle nostre menti:

“Siamo gli ultimi cristiani?”

La risposta a questa domanda è nel cuore del Signore, ma a noi è chiesto di avere coraggio e di saper passare dalla grande Chiesa che dominava la società, coinvolgeva la vita delle persone e impregnava la cultura, ad una Chiesa formata da piccole fraternità, inserite nel cuore delle masse e capaci di rendere presenti in esse la Trascendenza che desiderano intensamente. Siamo chiamati a modellare nelle nostre chiese e nelle nostre comunità il volto di una Chiesa missionaria:

·        Una Chiesa frutto del Signore Risorto, che con ardore missionario non rimane chiusa nei templi né nelle case, ma che esce a cercare l’altro con profonda gioia, lo accoglie nella famiglia dei figli e delle figlie di Dio e gli crea un luogo, perché sente la necessità di condividere la Buona Notizia, con un atteggiamento di dialogo e di disponibilità ad accogliere ciò che di positivo vi è nell’altro e nell’altra.

 ·        Una Chiesa che cammina percorrendo le vie di Emmaus, per aiutare a scoprire il senso della vita, con la sola forza della Parola; e prepara la tavola, perché allo spezzare del pane si riconosca il volto del Signore e si riempia di gioia missionaria. Una Chiesa che vive la mistica dell’incontro col Signore Risorto e si lascia condurre dallo Spirito.

 ·        Una Chiesa che si definisce Popolo di Dio, che si esprime in comunità vive, che valorizza i carismi e i ministeri, che cerca di creare comunione fra tutti, pastori e fedeli, e mette in pratica in modo speciale la partecipazione reale dei laici e delle laiche nella sua vita e missione.

 Ma la domanda rimane e ci interpella: “Siamo gli ultimi cristiani?”

Ci sono cristiani muti, che stanno tranquilli nel loro quieto vivere anche se il mondo va a pezzi. Non protestano per le ingiustizie perché schiavizzati dallo Stato o per le persecuzioni o per i compromessi, resi muti dall’opportunismo e dalla paura. Altri, forse, perché non hanno niente per contribuire e nulla da portare. Per loro la fede è una cosa eterea che non ha niente a che vedere con la vita: si tratta di nuvole dall’alto.

Cristiani del silenzio… del silenzio del sazio di fronte all’ingiustizia; del silenzio del prudente che non vuole compromettersi ed esporsi in prima persona.

Chissà se abbiamo posto limiti al Vangelo! Esso sembra aver perso la sua forza, non è più stimolo né forza e non dà più fastidio a nessuno; abbiamo voluto convincerci che si può servire insieme Dio e il denaro.

“Siamo gli ultimi cristiani”… destinati a scomparire nella mediocrità e nell’indifferenza…?, è una domanda che non ha risposta, ma chiede ad ogni battezzato e ad ogni Chiesa di essere in missione. Quando l’impeto missionario si raffredda, allora è segno che una Chiesa sta dando sintomi di stanchezza e di vecchiume.

 «La Chiesa particolare diminuisce il proprio slancio vitale
quando si concentra unicamente sui suoi problemi,
mentre riprende vigore tutte le volte che essa allarga
i propri orizzonti verso gli altri» (Postquam apostoli, 14).

«Il nostro non è più tempo della semplice conservazione,
ma della missione» (Giov. Paolo II).

 Siamo chiamati e spinti ad essere in missione, per far risplendere in noi e nelle nostre comunità lo spirito missionario del Maestro:

Lo spirito del Buon Pastore, che sa dare la vita, accogliere, accompagnare, comprendere, animare ed entusiasmare; che si spinge a cercare le pecore perdute, le carica con tenerezza sulle spalle e le incammina nuovamente per il sentiero della vita, una Chiesa senza paura del futuro perché sa di essere condotta da Lui.

Lo spirito del Buon Samaritano, che proclama la centralità della persona di Gesù Cristo con opere concrete, facendo credibile il suo messaggio mediante la testimonianza davanti agli uomini e alle donne di buona volontà, che camminano in cerca del senso della vita. Ricco di misericordia, permanentemente preoccupato dei bisognosi e degli emarginati della nostra società, attento ad animare a compiere sempre più gesti di solidarietà e condivisione.

Lo spirito Materno, riflesso dell’amore materno di Maria, accogliente e misericordioso con tutti, specialmente con gli uomini e le donne lontani o che si sentono allontanati. Capace di essere vicino e di accompagnare nel dolore. Attento ad estendere una sincera accoglienza verso tutti quelli che desiderano entrare, più che controllare l’entrata al banchetto, per verificare se si porta l’invito o l’abito nuziale.

 

4 - La missione è il nostro cammino

C’è tanto bene intorno a me; un bene spesso nascosto tra le pieghe della vita di gente, anche umile, povera e disprezzata: è il seme del Regno di Dio. C’è tanto coraggio vicino e lontano da me; coraggio di gente che muore per un ideale di bene, di gente che si consuma per la vita del fratello, di martiri dell’amore e della verità: è il seme del Regno di Dio. E’ tanto presente Dio, nel mondo intorno a me, a seminare con abbondanza i semi del Regno, attraverso la Parola, dentro gli avvenimenti e la vita delle persone.

Occorre dirlo: non c’è missione senza disposizione ad accogliere i semi del Regno che Dio generosamente fa incontrare nel terreno della nostra storia. Solo sua è l’iniziativa di bene e noi possiamo soltanto prendervi parte. E ci è possibile farlo nella misura in cui siamo disposti a scoprirla dentro la nostra storia e a riceverla dalle sue mani generose. Essere capaci di avvertirci avvolti dalla cura di Dio, oggetto della sua premura, meravigliati dei segni della sua bontà che ci raggiungono a sorpresa, ovunque e sempre. Missione è anzitutto ricevere.

Ma noi siamo spesso sventati e rischiamo di diventare sciuponi. Spesso buttiamo all’aria il dono del Regno. Missione è, anche, impegno a custodire in un cuore semplice e buono il dono del Regno. Nessuno deve portarcelo via: è per noi la cosa più preziosa. Lo conservo e cioè: rifletto, ci ritorno su, trovo motivo per ringraziare e lodare il Signore, me lo gusto, insomma, come il più bel dono della vita, più ancora dei soldi, della casa, delle belle ferie, degli amici, della stessa mia famiglia. Come Maria: custodisco nel cuore la Parola, il Regno, le cose di Dio. Missione è custodire.

Ma le cose belle perdono di senso e di sapore se non vengono condivise. Il Regno accolto come dono e conservato nella gioia di un cuore puro, necessariamente va offerto e donato. Ho ricevuto la bella notizia dell’amore infinito e misericordioso di Dio per me e per ogni uomo e donna? Questa notizia l’ho custodita nel cuore e me l’ha riempito di gioia e di gratitudine? Ebbene : dovrò necessariamente donarla, condividerla, raccontarla e mostrarla con la vita. Missione è donare.

Molte sono le modalità dal donare. Qualcuno avverte da Dio il bisogno di superare i confini della propria terra e nazione e di mescolarsi con altri popoli per scoprire con loro i segni del Regno.

Qualche altra lo fa senza lasciare la propria città, intravedendo tra la propria gente e dentro la propria famiglia i destinatari del suo dono. Inviati ad gentes o rinviati alla stessa propria terra, questa è, comunque, la condizione del discepolo di Gesù: inviato, inviata; non può tenere per sé quanto ha ricevuto in dono: «E partirono senza indugio…» (Lc 24,33-35).

«L’Evangelo dev’essere proclamato innanzitutto mediante la testimonianza… Con tale testimonianza senza parole, i cristiani fanno salire, nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: “Perché sono così?… Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira?”.

Tale testimonianza è già una proclamazione, silenziosa ma molto forte ed efficace della Buona Novella…» (Evangelii Nuntiandi, 21)

«Tutta la nostra vita, per quanto muta sia… dev’essere una predicazione dell’Evangelo fatta con l’esempio. La nostra intera esistenza, tutto il nostro essere deve gridare l’Evangelo sui tetti. Tutta la nostra persona deve traspirare Gesù. Tutti i nostri atti, tutta la nostra vita deve gridare che noi apparteniamo a Gesù. Tutto il nostro essere deve diventare una predicazione viva, un riflesso di Gesù, un profumo di Gesù, qualcosa che gridi Gesù, che faccia vedere Gesù, che risplenda come un’immagine di Gesù». (Charles de Foucauld, MSE, 314 meditazione)

   

*Già missionario in Brasile ora è parroco di Stellevena-Alcenago (VR), Animatore di gruppi biblici e collaboratore del CUM (Centro Unitario Missionario).

 

Torna indietro