Spiritualità
non è un concetto che si può definire a parole, ma qualcosa che vive,
che è vissuto e che fa vivere. E’ lo spirito della vita che anima e che
dà un’anima al nostro essere e al nostro agire. Bisogna fare attenzione
a non ridurla a parole perché si rischierebbe di imprigionarla in un
concetto.
Le nostre
spiritualità sono come un campo: piene di fiori, di piante, di alberi e
di erbe.
La
spiritualità di ciascuno e ciascuna di noi ha una sua forma, sue radici,
una sua “casa”, una sua bellezza. Alcune sono estremamente visibili,
pronunciate, ricche in colori vivi ed aperte.
Altre sono più
piccole, più austere, meno colorate ma altrettanto belle e preziose
nella loro modestia.
Questa
ricchezza spirituale, per un cristiano, si nutre e si esprime attraverso
un riferimento costante al Vangelo e alla persona del Cristo
risuscitato, che dà alla spiritualità una direzione definitiva: l’Amore.
Vivere la spiritualità
è soprattutto ESSERCI.
Esserci in
tutta pienezza, esserci con la coscienza di sé nel campicello che occupa
il mio fiore, la mia pianta, il mio albero o il mio filo d’erba.
Esserci nel
grande campo del mondo senza fine, perché l’orizzonte si allontana
sempre più quando si avvicina.
Vivere la spiritualità
è saper SENTIRE e STUPIRSI.
Sentire la
presenza delle mie radici attraverso le quali inspiro l’alito di Dio, è
il miracolo di essere vigili e attenti;
sentire la
forza della vita in me, che si muove al di là di me stesso, che mi
spinge all’azione e che mi dà coscienza del mio posto nell’universo.
Sentire di
essere presenti, coscienti di questa forza che rende possibile il
gettare un ponte tra me e gli altri, tra me e la natura, tra me e
l’invisibile, con la forza divina che qui è chiamata Dio-Iahwè, e là
Rahaman, Allah, Creatore, Pachamama; o che è troppo divina per avere un
nome a parole ma che dovunque è presente in me, in te, in tutto ciò che
vive.
Vivere la spiritualità
è AFFRONTARE con coraggio le fatiche della vita.
Nel grande
campo del mondo non sempre regna la pace, la giustizia, l’uguaglianza e
la solidarietà.
Questo campo
non è un giardino dell’Eden prima della caduta, in esso esistono
rapporti di forza e di conflitto; ma è nella maniera di risolvere i
conflitti che si può vivere la spiritualità. Perché questa, grazie al
conflitto, può riunire e ristabilire la relazione e l’incontro.
Nel campo
della vita c’è anche la morte dei fiori e delle piante, a volte imposta
con violenza.
Ma la forza
divina che sentiamo in noi stessi, tra noi e gli altri, nella natura e
nella storia, ci rende coscienti che la vita è più forte della morte e
che c’è speranza anche in situazioni disperate.
Vivere la spiritualità
è stare in AZIONE.
Il potere del
sistema economico mondiale deve essere confrontato con la forza
interiore.
Noi non
possiamo distruggere il sistema ma possiamo combattere lo spirito dei
sistema e confrontarlo con lo Spirito di vita.
Il sorgere di
comunità animate dalla forza dello Spirito di vita è un atto di
sovversione del sistema di distruzione e di morte.
«Non c’è
cammino verso la spiritualità.
La spiritualità è il cammino» (Gandhi)
1 - Una spiritualità profetica
Spiritualità è
anima e soffio che vivifica il cammino, è vento che fa danzare la vita,
è fuoco che riscalda il cuore. Spiritualità, per ogni cristiano, è
seguire Gesù Cristo.
Come seguire
Gesù in una società imbevuta sempre più di consumismo, dove ognuno,
spinto in una corsa sfrenata per rimanere al passo, si trova avvinto in
una pesante e triste solitudine?
Come seguire
Gesù in un mondo segnato dalla terribile ingiustizia che chiamiamo
“divario Nord-Sud” e che conduce molti popoli a una morte ingiusta e
prematura?
Come essere
protagonisti, piccoli costruttori di vita, godendo di ciò che si ha ed
accogliendo la bellezza del vivere?
Come far sì
che la nostra visione di fede si esprima in atteggiamenti di gioia, di
serenità, di condivisione, scoprendo insieme un Dio che ci ama e ci
tiene fra le sue braccia materne?
Non sono più
sufficienti le risposte del catechismo o i trattati di teologia. Occorre
avere il coraggio di inventare e costruire progetti nuovi, mettersi in
strada e camminare. Quando i nostri progetti vanno in fumo, quando la
realtà fa esplodere i nostri schemi, è allora che siamo spinti a cercare
soluzioni diverse e aprirci a nuove speranze.
E’ lo Spirito
del Risorto che ci interroga , ci stimola e ci anima! E’ la Parola di
Dio che ci accompagna e ci illumina. E noi ci mettiamo in cammino sulle
orme di Gesù.
Seguire Gesù
esige, oggi più che mai, una “incarnazione” nel mondo. Un mettersi dalla
parte degli oppressi, un essere con loro, vivere con loro, sentirsi
vicino a loro e impegnarsi con loro per una liberazione integrale,
soprattutto oggi che l’apatia e l’indifferenza, la stanchezza e la
sfiducia sembrano vincere. Oggi, che l’immutabilità della società e il
successo delle leggi di mercato sono affermate come dogmi infallibili e
la globalizzazione dell’economia sembra generare facili entusiasmi,
diviene quanto mai necessario denunciare con chiarezza l’immoralità di
un sistema che produce ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più
poveri (Paolo VI), e testimoniare uno stile di vita sempre più fraterno
e umano. I profeti biblici ci aiutano a coltivare una spiritualità
dell’indignazione di fronte all’ingiustizia e all’indifferenza.
In Amos 2,6-8,
il profeta denuncia una serie di situazioni oppressive presenti nella
società del suo tempo. Ciò mostra che già a quell’epoca la gente si
riuniva per raccontare e registrare le proprie esperienze di
oppressione, con lo scopo di chiedere giustizia. In seguito, Amos
ricorda i benefici che Iahvè elargì al suo popolo (vv 2,9-11)
ricevendone in cambio un comportamento insensato da parte dei “figli di
Israele” (v 12). Infine egli colloca la minaccia che Dio prepara per il
popolo (vv 13-16). In questo testo il profeta parla in nome di Dio e in
nome degli oppressi; egli è un uomo donato alla causa della giustizia,
sostenuto dallo zelo per l’Alleanza. Questa è la sua spiritualità.
- Gesù stesso
ha vissuto profondamente l’esperienza della spiritualità
dell’indignazione. Egli non poté sopportare l’ipocrisia dei potenti che
esigevano dalla gente il pieno compimento delle minuzie della legge,
mentre loro stessi vivevano infrangendo i comandamenti fondamentali (cfr.
Mt 23,13-36 e 25,31-46).
In Elia
incontriamo un profeta che vive in un tempo di conflitti e pericoli di
estinzione degli ideali egualitari del suo popolo (vedi il ciclo di
Elia: 1 Re, capitoli 17-19 e 21).
- Elia è
l'uomo che incarna profondamente questa crisi. Di fronte a tale
situazione degradante di oppressioni, ingiustizie, perdita di valori ed
indifferenza, il profeta prende il cammino del deserto ( 1Re 19,4). Ora
il deserto è il luogo delle origini del popolo, del ritorno alle fonti,
lo spazio dove si recupera la memoria e l’identità… È il luogo delle
lamentele, della tentazione e delle cadute, ma anche dell’innamoramento
e del fidanzamento, dell’esperienza di Dio e della preghiera. Il deserto
è pure, lo spazio dei marginalizzati, degli esclusi, dei più poveri ed
abbandonati dalla società; è il luogo della spoliazione,
dell’essenzialità, della vita semplice. Elia quando cerca rifugio, cerca
questo luogo!
- L’incontro
intimo con Dio sul monte Horeb (1Re 19,9-18), ci svela la meraviglia del
profeta. La sua immagine di Dio era superata: nel silenzio e nella
preghiera egli incontra non un dio “onnipotente”, fautore di grandi
prodigi, (vento impetuoso, terremoto, fuoco), ma un Dio dal soffio
leggero come un “mormorio di vento soave” (Re 19,12). Un Dio presente
nell’assenza e nel silenzio.
Nell’esperienza della spiritualità profetica dobbiamo confrontarci con i
profondi cambiamenti di una realtà che si fa beffe di noi e non cammina
più secondo i nostri progetti (cfr. Ger. 20,7). Così anche la nostra
immagine di Dio si frantuma e svanisce. Per ricostruirla e sentirci in
sintonia occorre cambiare la nostra relazione con Lui. Solo in questo
modo riusciamo a scoprire che Dio è sia vicino e intimo, sia totalmente
libero e indipendente.
Su queste
strade, la spiritualità profetica si incontra con la spiritualità
contemplativa; e le due si compenetrano e si arricchiscono a vicenda.
2 - Una spiritualità contemplativa
Il seguire
Gesù nella quotidianità dell’incarnazione e nella ferma decisione di
sposare la causa degli oppressi e il loro impegno per la giustizia,
porta con sé una inevitabile dose di conflitto e di tensioni. Ci fa
piccoli crocifissi accanto al Grande Crocifisso e ai mille crocifissi
dello storia; ci fa uomini e donne capaci di stare in piedi nella fatica
e nel dolore, testimoni instancabili di vita. Su questa strada il nostro
spirito deve essere sostenuto, generato e nutrito da un forte e
instancabile atteggiamento di contemplazione.
La parola
contemplazione, per molte persone, evoca fuga, alienazione o passività.
Ora, nel suo senso vero, contemplazione è l’atteggiamento di chi vive
ogni momento con intensità. Contemplazione è, secondo il biblista
brasiliano Carlos Mesters, «l’atteggiamento di chi si immerge negli
avvenimenti per scoprire e assaporare in essi la presenza attiva e
creativa del Signore e, inoltre, cerca di coinvolgersi nel processo di
trasformazione che la Parola di Dio sta realizzando dentro la storia».
Nella Bibbia,
la contemplazione si manifesta, ora legata alla natura e all’armonia
dell’universo, ora immersa nel silenzio e nel mistero; sia nella “kenosis”(svuotamento)
e sia nella “gratuità” immensa di Dio. La contemplazione è l’attitudine
del saggio, che possiede una lunga esperienza di vita: è il vivere con
Sapienza.
La Sapienza
biblica nasce dalle cose semplici della casa, della vita con i figli,
della quotidianità. Esprime le lotte, le speranze e le stanchezze che
segnano il cammino dell’uomo, della donna e della società. Supera questa
dimensione primaria del vivere e si apre alla speranza, all’alterità e
alla idealità che persistono nonostante tutte le fatiche; e così:
poesia, saggezza, sogno, coraggio, fortezza e ambivalenze si mescolano
in quello che la gente vive e crede.
Grazie alla
contemplazione si attinge un nuovo sguardo sul mondo e sulla vita. In
questi momenti è bello fermarsi ed estendere il nostro sguardo verso e
oltre l’orizzonte. È come se toccassimo il mistero di Dio.
Diremo come
Giobbe:
«Io ti
conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5).
O esclameremo
come Agar:
«Ho
veramente visto colui che mi vede?
E diede al Signore che le aveva parlato questo nome:
Tu sei il Dio che mi vede» (Gen 16,13).
La nostra
spiritualità deve essere sostenuta, generata e nutrita da un forte e
instancabile atteggiamento sapienziale e di contemplazione. Il Dio di
Gesù che esige giustizia è anche il Dio gratuito che irrompe come dono
nelle nostre vite. E’ la gratuità che viene e domanda attenzione,
ringraziamento, speranza, cuore aperto e disponibile.
La speranza
genera una costante fedeltà al progetto di Dio e agli esclusi della
storia, affonda le proprie radici nella possibilità del nuovo che libera
e divinizza. La speranza crede profondamente in Gesù Cristo Risorto che
abita e vive in mezzo a noi. Egli è il Signore della storia, capace di
abbattere gli idoli che ci incatenano, e di spezzare gli egoismi che ci
deformano. Ci salva e ci rende persone dal cuore umile, disposte ad
accogliere e diffondere il fuoco dell’Amore, ci plasma uomini e donne
dallo sguardo universale, sorretti e animati da una profonda
spiritualità missionaria.
3 - Una spiritualità missionaria
E’ facile
constatare che le nostre chiese lentamente si stanno svuotando, e la
pratica dei sacramenti diminuisce a vista d’occhio. La proposta
cristiana ed il Vangelo sembrano aver poca presa sulle nuove
generazioni, e le nostre comunità cristiane incontrano mille difficoltà
nel trasmettere la fede alle nuove generazioni. Una domanda fa capolino
e si annida nelle nostre menti:
“Siamo gli
ultimi cristiani?”
La risposta a
questa domanda è nel cuore del Signore, ma a noi è chiesto di avere
coraggio e di saper passare dalla grande Chiesa che dominava la società,
coinvolgeva la vita delle persone e impregnava la cultura, ad una Chiesa
formata da piccole fraternità, inserite nel cuore delle masse e capaci
di rendere presenti in esse la Trascendenza che desiderano intensamente.
Siamo chiamati a modellare nelle nostre chiese e nelle nostre comunità
il volto di una Chiesa missionaria:
·
Una Chiesa frutto del Signore Risorto, che
con ardore missionario non rimane chiusa nei templi né nelle case, ma
che esce a cercare l’altro con profonda gioia, lo accoglie nella
famiglia dei figli e delle figlie di Dio e gli crea un luogo, perché
sente la necessità di condividere la Buona Notizia, con un atteggiamento
di dialogo e di disponibilità ad accogliere ciò che di positivo vi è
nell’altro e nell’altra.
·
Una Chiesa che cammina percorrendo le vie di
Emmaus, per aiutare a scoprire il senso della vita, con la sola forza
della Parola; e prepara la tavola, perché allo spezzare del pane si
riconosca il volto del Signore e si riempia di gioia missionaria. Una
Chiesa che vive la mistica dell’incontro col Signore Risorto e si lascia
condurre dallo Spirito.
·
Una Chiesa che si definisce Popolo di Dio,
che si esprime in comunità vive, che valorizza i carismi e i ministeri,
che cerca di creare comunione fra tutti, pastori e fedeli, e mette in
pratica in modo speciale la partecipazione reale dei laici e delle
laiche nella sua vita e missione.
Ma la domanda
rimane e ci interpella: “Siamo gli ultimi cristiani?”
Ci sono
cristiani muti, che stanno tranquilli nel loro quieto vivere anche se il
mondo va a pezzi. Non protestano per le ingiustizie perché schiavizzati
dallo Stato o per le persecuzioni o per i compromessi, resi muti
dall’opportunismo e dalla paura. Altri, forse, perché non hanno niente
per contribuire e nulla da portare. Per loro la fede è una cosa eterea
che non ha niente a che vedere con la vita: si tratta di nuvole
dall’alto.
Cristiani del
silenzio… del silenzio del sazio di fronte all’ingiustizia; del silenzio
del prudente che non vuole compromettersi ed esporsi in prima persona.
Chissà se
abbiamo posto limiti al Vangelo! Esso sembra aver perso la sua forza,
non è più stimolo né forza e non dà più fastidio a nessuno; abbiamo
voluto convincerci che si può servire insieme Dio e il denaro.
“Siamo gli
ultimi cristiani”… destinati a scomparire nella mediocrità e
nell’indifferenza…?, è una domanda che non ha risposta, ma chiede ad
ogni battezzato e ad ogni Chiesa di essere in missione. Quando l’impeto
missionario si raffredda, allora è segno che una Chiesa sta dando
sintomi di stanchezza e di vecchiume.
«La Chiesa
particolare diminuisce il proprio slancio vitale
quando si concentra unicamente sui suoi problemi,
mentre riprende vigore tutte le volte che essa allarga
i propri orizzonti verso gli altri» (Postquam apostoli, 14).
«Il nostro
non è più tempo della semplice conservazione,
ma della missione» (Giov. Paolo II).
Siamo
chiamati e spinti ad essere in missione, per far risplendere in noi e
nelle nostre comunità lo spirito missionario del Maestro:
Lo spirito del
Buon Pastore, che sa dare la vita, accogliere, accompagnare,
comprendere, animare ed entusiasmare; che si spinge a cercare le pecore
perdute, le carica con tenerezza sulle spalle e le incammina nuovamente
per il sentiero della vita, una Chiesa senza paura del futuro perché sa
di essere condotta da Lui.
Lo spirito del
Buon Samaritano, che proclama la centralità della persona di Gesù Cristo
con opere concrete, facendo credibile il suo messaggio mediante la
testimonianza davanti agli uomini e alle donne di buona volontà, che
camminano in cerca del senso della vita. Ricco di misericordia,
permanentemente preoccupato dei bisognosi e degli emarginati della
nostra società, attento ad animare a compiere sempre più gesti di
solidarietà e condivisione.
Lo spirito
Materno, riflesso dell’amore materno di Maria, accogliente e
misericordioso con tutti, specialmente con gli uomini e le donne lontani
o che si sentono allontanati. Capace di essere vicino e di accompagnare
nel dolore. Attento ad estendere una sincera accoglienza verso tutti
quelli che desiderano entrare, più che controllare l’entrata al
banchetto, per verificare se si porta l’invito o l’abito nuziale.
4 - La missione è il nostro cammino
C’è tanto bene
intorno a me; un bene spesso nascosto tra le pieghe della vita di gente,
anche umile, povera e disprezzata: è il seme del Regno di Dio. C’è tanto
coraggio vicino e lontano da me; coraggio di gente che muore per un
ideale di bene, di gente che si consuma per la vita del fratello, di
martiri dell’amore e della verità: è il seme del Regno di Dio. E’ tanto
presente Dio, nel mondo intorno a me, a seminare con abbondanza i semi
del Regno, attraverso la Parola, dentro gli avvenimenti e la vita delle
persone.
Occorre dirlo:
non c’è missione senza disposizione ad accogliere i semi del Regno che
Dio generosamente fa incontrare nel terreno della nostra storia. Solo
sua è l’iniziativa di bene e noi possiamo soltanto prendervi parte. E ci
è possibile farlo nella misura in cui siamo disposti a scoprirla dentro
la nostra storia e a riceverla dalle sue mani generose. Essere capaci di
avvertirci avvolti dalla cura di Dio, oggetto della sua premura,
meravigliati dei segni della sua bontà che ci raggiungono a sorpresa,
ovunque e sempre. Missione è anzitutto ricevere.
Ma noi siamo
spesso sventati e rischiamo di diventare sciuponi. Spesso buttiamo
all’aria il dono del Regno. Missione è, anche, impegno a custodire in un
cuore semplice e buono il dono del Regno. Nessuno deve portarcelo via: è
per noi la cosa più preziosa. Lo conservo e cioè: rifletto, ci ritorno
su, trovo motivo per ringraziare e lodare il Signore, me lo gusto,
insomma, come il più bel dono della vita, più ancora dei soldi, della
casa, delle belle ferie, degli amici, della stessa mia famiglia. Come
Maria: custodisco nel cuore la Parola, il Regno, le cose di Dio.
Missione è custodire.
Ma le cose
belle perdono di senso e di sapore se non vengono condivise. Il Regno
accolto come dono e conservato nella gioia di un cuore puro,
necessariamente va offerto e donato. Ho ricevuto la bella notizia
dell’amore infinito e misericordioso di Dio per me e per ogni uomo e
donna? Questa notizia l’ho custodita nel cuore e me l’ha riempito di
gioia e di gratitudine? Ebbene : dovrò necessariamente donarla,
condividerla, raccontarla e mostrarla con la vita. Missione è donare.
Molte sono le
modalità dal donare. Qualcuno avverte da Dio il bisogno di superare i
confini della propria terra e nazione e di mescolarsi con altri popoli
per scoprire con loro i segni del Regno.
Qualche altra
lo fa senza lasciare la propria città, intravedendo tra la propria gente
e dentro la propria famiglia i destinatari del suo dono. Inviati ad
gentes o rinviati alla stessa propria terra, questa è, comunque, la
condizione del discepolo di Gesù: inviato, inviata; non può tenere per
sé quanto ha ricevuto in dono: «E partirono senza indugio…» (Lc
24,33-35).
«L’Evangelo
dev’essere proclamato innanzitutto mediante la testimonianza… Con tale
testimonianza senza parole, i cristiani fanno salire, nel cuore di
coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: “Perché sono così?…
Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira?”.
Tale
testimonianza è già una proclamazione, silenziosa ma molto forte ed
efficace della Buona Novella…» (Evangelii Nuntiandi, 21)
«Tutta la
nostra vita, per quanto muta sia… dev’essere una predicazione
dell’Evangelo fatta con l’esempio. La nostra intera esistenza, tutto il
nostro essere deve gridare l’Evangelo sui tetti. Tutta la nostra persona
deve traspirare Gesù. Tutti i nostri atti, tutta la nostra vita deve
gridare che noi apparteniamo a Gesù. Tutto il nostro essere deve
diventare una predicazione viva, un riflesso di Gesù, un profumo di Gesù,
qualcosa che gridi Gesù, che faccia vedere Gesù, che risplenda come
un’immagine di Gesù». (Charles de Foucauld, MSE, 314 meditazione)
*Già
missionario in Brasile ora è parroco di Stellevena-Alcenago (VR),
Animatore di gruppi biblici e collaboratore del CUM (Centro Unitario
Missionario).
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